giovedì 20 settembre 2012

Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore

(...) Ci troviamo così di fronte a un colossale "inquinamento immaginifico": l'eccesso di stimolazioni visive e auditive dovute a giornali, fumetti, filmati, televisione, ma anche alla segnaletica del traffico, alle scritte luminose, ecc., ha fatto sì che non resti più nulla libero da segni, segnali, indici. L'ipertrofia segnica ha raggiunto un parossismo per cui avvertiamo (o meglio dovremmo avvertire) sempre di più la necessità di una pausa immaginifica. Oltre a ciò dobbiamo tener conto del verificarsi ai giorni nostri di quello che potremmo definire un "nuovo tribalismo", ossia l'impulso a partecipare a certi "riti di massa", come possiamo constatare appunto nella frequentazione , delle discoteche, nei rave, nelle gigantesche assemblee giovanili per le partite di calcio o per gli spettacoli rock, dove la personalità del singolo viene spesso abolita e sostituita da una sorta di "anima di gruppo" o di "inconscio collettivo", e dove il singolo perde la sua autonomia e diventa schiavo del "rumore" e dell'eccesso di "pieno". La smania di confluire verso il pieno e di fuggire il vuoto, di abolire l’intervallo tra sé e gli altri, trova le sue esemplificazioni più drammatiche nelle favelas delle nostre metropoli, nella scomparsa del mondo agricolo e della civiltà contadina. L’eccesso di immagini, di rumori e di suoni, del resto, si riverbera nell’incalzare del tempo. La smania, spesso inutile o superflua, di usare mezzi di trasporto velocissimi, rientra in questa abolizione di ogni intervallo – in questo caso temporale anziché spaziale – e oltretutto viene frustrata dagli infiniti ostacoli tecnici che si frappongono, e che molto spesso annullano quel target agognato, quasiché la frenesia dinamica fosse vendicata da una lentezza paradossale. Molto spesso alla velocizzazione estrema corrisponde un'incredibile lentezza effettiva: l'ascensore del grattacielo procede con una lentezza molto superiore a quella delle nostre gambe, le code sulle autostrade portano la velocità degli automezzi a quella delle carrozze d'altri tempi (e anche meno). Le soste negli aeroporti, per un volo di un'ora, sono spesso tre volte più lunghe, e oltretutto non consentono di dedicare la nostra attenzione a questi momenti d'un "tempo perduto" che potrebbe essere vissuto creativamente. Ma il tempo perduto attuale non ha più nulla in comune col tempo perduto proustiano, quando lo scrittore poteva permettersi i lunghissimi intervalli tra l'uscita di un tomo e l'altro della sua opera, e quando le sue memorie d'un tempo passato sfociavano in un temps retrouvé. Oggi il tempo non è mai ritrovato perché anche il futuro si verifica prima ancora di incominciare e, alla stessa stregua, la durée bergsoniana è ormai sopraffatta da un tempo che "non dura", perché tutto concorre ad abbreviarlo e spezzettarlo. Ecco perché ebbi a parlare, già una decina d'anni or sono, della "perdita dell'intervallo". Una perdita che constatiamo in musica come in architettura, nel teatro come nella danza. L’unica speranza è quando ci si presenta – inattesa e benvenuta – la tanto osteggiata pausa, quando finalmente ritroviamo un autore contemporaneo (musicista o poeta) che ci pone di fronte a qualche tentativo di ripristinare l'intervallo perduto, vincendo dunque l'Horror Pleni che pochi avvertono e che tutti invece dovrebbero temere. Questo mi sembra, davvero, uno dei pochi aspetti positivi che costituiscono il primo germe di una controffensiva alla nostra “civiltà del rumore”. Ecco, insomma, come il nostro auspicio d’un avvento generalizzato dell’horror pleni vuol essere e significare soprattutto la speranza e l’incoraggiamento all’uomo (alla donna) d’oggi di affermare la propria autonoma individualità, ristabilendo tra sé e il prossimo, tra la propria epoca e la successiva, tra le azioni quotidiane e le creazioni artistiche quella pausa, quel between, senza il quale l’umanità rischia di precipitare nell’orrore d’un “pieno” non più frammentabile e dominabile, e di divenire totalmente succube del “troppo pieno” e dell’eccessivo “rumore”.

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