martedì 7 agosto 2012

L'ultimo capitolo della storia del mondo



I modi in cui ignoriamo qualcosa sono altrettanto e forse più importanti dei modi in cui lo conosciamo. Vi sono modi del non sapere - sbadataggini, disattenzioni, dimenticanze - che producono goffaggine e bruttura; ma di altri - la svagatezza del giovinetto di Kleist, la spezzatura incantata di un bambino - non ci stanchiamo mai di ammirare la compiutezza. La psicanalisi chiama rimozione un modo di ignorare che produce spesso effetti nefasti sulla vita di colui che ignora. Al contrario, chiamiamo bella una donna la cui mente sembra felicemente inconsapevole di un segreto di cui il suo corpo è perfettamente al corrente. Vi sono, dunque, modi riusciti di ignorarsi e la bellezza è uno di questi. E' possibile, anzi, che sia proprio il modo in cui riusciamo a ignorare a definire il rango di ciò che riusciamo a conoscere e che l'articolazione di una zona di non conoscenza sia la condizione - e, insieme, la pietra di paragone - di ogni nostro sapere. Se questo è vero, un catalogo ragionato dei modi e delle specie dell'ignoranza sarebbe altrettanto utile della classificazione sistematica delle scienze su cui si basa la trasmissione del sapere. Mentre, tuttavia, gli uomini riflettono da secoli su come conservare, migliorare e rendere più sicure le loro conoscenze, di un'arte dell'ignoranza mancano perfino i principi elementari. Epistemologia e scienza del metodo indagano e fissano le condizioni, i paradigmi e gli statuti del sapere, ma per come sia possibile articolare una zona di non conoscenza non vi sono ricette. Articolare una zona di non conoscenza non significa, infatti, semplicemente non sapere, non si tratta soltanto di una mancanza o un difetto. Significa, al contrario, tenersi nella giusta relazione con un'ignoranza, lasciare che un'inconoscenza guidi e accompagni i nostri gesti, che un mutismo risponda limpidamente per le nostre parole. O, per usare un vocabolario desueto, che ciò che ci è più intimo e nutriente abbia la forma non della scienza e del dogma, ma della grazia e della testimonianza. L'arte di vivere è, in questo senso, la capacità di tenersi in armonica relazione con ciò che ci sfugge. Anche il sapere si tiene, in ultima analisi, in rapporto con un'ignoranza. Ma lo fa nel modo della rimozione o in quello, più efficace e potente, della presupposizione. Il non sapere è ciò che il sapere presuppone come il paese inesplorato che si tratta di conquistare, l'inconscio è la tenebra in cui la coscienza dovrà portare la sua luce. In entrambi i casi qualcosa viene separato, per poi essere compenetrato e raggiunto. La relazione con una zona di non conoscenza veglia, al contrario, a che essa resti tale. E non per esaltarne l'oscurità, come fa la mistica, né per glorificarne l'arcano, come fa la liturgia. E nemmeno per riempirla di fantasmi, come fa la psicanalisi. Non si tratta di una dottrina segreta o di una scienza più alta, né di un sapere che non si sa. E' possibile, anzi, che la zona di non conoscenza non contenga proprio nulla di speciale, che, se si potesse guardarvi dentro, s'intravedrebbe soltanto - ma non è certo - un vecchio slittino abbandonato, soltanto - ma non è chiaro - il cenno scontroso di una bambina che ci invita a giocare. Forse non esiste nemmeno una zona di non conoscenza, esistono soltanto i suoi gesti. Come Kleist aveva capito così bene, la relazione con una zona di non conoscenza è una danza.

Nessun commento: