De André è un principe e un anarchico. Non è un’interpretazione: è
quello che so di lui per le canzoni che ho sentito. Le ho sentite tutte,
la prima l’ho sentita che avevo 14 anni da un juxe-box di un’osteria in
mezzo alla periferia più marcia di Genova. Le ho imparate a memoria non
per intenzione, perché mi sono “entrate”, sono venute e sono rimaste.
Sono rimaste, credo, per qualche motivo che mi è ignoto e che non voglio
nemmeno sapere.
De André è la voce che io non ho. Io scrivo rimanzi. Ho fatto il conto
che ormai sono vent’anni che scrivo romanzi; ma io so che morirò – anche
se dovessi morire (e non sarà così) a cent’anni – io morirò senza aver
saputo dispiegare la mia voce. Lui canta per me. La sua voce è il mio
silenzio. La sua voce è la voce che non ho. E’ questo. E’ un principe,
come si è principi in Genova.
De André è genovese, di una vecchia e antica famiglia dell’aristocrazia
borghese genovese. E’ un principe come lo si può essere a Genova. Perché
Genova, che è una Repubblica di principi ed è stata governata da
principi per sette secoli, ha un’idea dell’aristocrazia e della nobiltà
che è difforme da qualunque altra, nel territorio nazionale. I principi
di Genova vivevano assieme nello stesso palazzo dove vivevano gli
artigiani, i commercianti, gli operai, i facchini del porto.
Ed è anarchico, è un principe anarchico; la qual cosa non è
assolutamente rara: Kropotkin era un principe e un teorico
dell’anarchia, Bakunin era un nobile. La sua anarchia non era la
bandiera: non credo che avesse mai sventolato la bandiera; la sua
anarchia non era un discorso politico, non era una linea politica (men
che meno); la sua anarchia era una speranza di redenzione; un’ipotesi di
redenzione. La sua voce è la voce di un uomo che pensa che il mondo può
essere nuovo; e l’uomo, nel nuovo mondo, è un uomo nuovo: umanità
nova.
De André è un principe anarchico. E quindi è semplicemente e soltanto
nella scia, nella tradizione della nobiltà anarchica. Io e lui – io
sottoproletario, lui principe – sappiamo che è possibile vivere assieme,
per riuscire – se mai ce la faremo – ad annientare l’odiata borghesia. E
le sue canzoni, in particolare proprio le canzoni in lingua genovese,
sono candelotti di dinamite sotto il culo del re borghese: di questo
paese, di questa realtà, di questo mondo.
Maurizio Maggiani
Nessun commento:
Posta un commento