giovedì 18 aprile 2013

Ormai è fatta

Ore 8,15 – Sono solo in cella. Prima di sapere con certezza se oggi è realmente il giorno tanto atteso do­vranno trascorrere ancora 45 minuti. Ho tutto il tempo per lavarmi, radermi e vestirmi con calma. Scruto il mio volto nello specchio. Apparentemente non tradisce alcuna emozione. Tendo la mano e noto con soddisfazione ch’essa non trema più che d’abitudi­ne. Mi sento calmo, riposato, contento d’avere trascorso una notte tranquilla contrariamente alle previsioni. Se «loro» saranno all’appuntamento, tra poco più d’un’ora sarò libero! Tra qualche ora sarò lontano, al sicuro... E se ieri c’è stato qualche intoppo? No, meglio non pensarci... tutti questi mesi di preparazione, d’ansie, di speranze, non possono andare persi per un banale contrattempo. «Loro» hanno senz’altro mantenuto fede agli impegni, hanno senz’altro fatto il proprio dovere e tra poco toc­cherà a me fare il mio. Li riconoscerò quando li rivedrò? Sono ormai trascor­si cinque anni da quando... cinque anni... anni di soffe­renze, umiliazioni, lotte, speranze, evasioni tentate e mancate, delusioni... Ed io, sono ancora lo stesso uomo di cinque anni fa? No, cinque anni di questa vita cam­biano un uomo, lo scavano dentro, lo trasformano. Que­sto non vuol dire che io debba necessariamente essere diventato peggiore: sino a quando un uomo non si rasse­gna è ancora recuperabile. «La minaccia peggiore per la libertà non consiste nel lasciarsela strappare – perché chi se l’è lasciata strappa­re può sempre riconquistarla – ma nel disimparare ad amarla e nel non capirla più». Certo, quando Bernanos esprimeva questi concetti, si riferiva a lotte meno egoistiche di quella che sto intra­prendendo. Sì, c’è dell’egoismo in quanto sto facendo, ma se le circostanze me lo permetteranno, questo po­trebbe anche essere il primo passo d’un cammino più lungo. Ore 9 – Esco in corridoio e m’arrampico sulla fine­ stra convenuta. Sotto di me c’è l’alto muro di cinta. Sul muro una guardia armata passeggia lentamente doman­dandosi – forse – quali circostanze dell’esistenza gli hanno messo un mitra in mano al posto d’una zappa. Al di là del muro di cinta si vede lo zoo ed i giardini pubblici. Alcuni bambini giocano seguiti dallo sguardo vigile della madre che – forse – pensa che sarebbe bello se an­che il padre dei bambini fosse là a godersi il fresco del parco al posto di vendere ad un padrone le ore più belle della giornata. Forse, se tutti, proprio tutti, contribuisse­ro alla produzione di quanto indispensabile alla colletti­vità , un paio d’ore di lavoro giornaliero basterebbero... Su una panchina una coppia si scambia gesti naturali. Lei è molto cambiata in questi cinque anni. Lui non è l’uomo che attendevo ma è al corrente di tutto perché appena mi scorge mi scambia il segnale convenuto. Con calma la coppia si alza allontanandosi con naturalezza.­ Adesso so con certezza che quando uscirò dal portone principale, alle nove e mezza, niente sarà affidato al caso. Rientro in cella. Sono solo e nessuno entrerà a que­st'ota. La mia mano fruga nel nascondiglio preparato con tanta cura. Nessuno, nemmeno i miei compagni di cella, conosce questo nascondiglio da me covato con tanto amore e discrezione per mesi. Settimane addietro, all’occasione d’una improvvisa perquisizione effettuata da personale specializzato del ministero con l’ausilio di ri­velatori metallici, ho tremato, ma il mio nascondiglio si rivelò all’altezza della fiducia riposta in lui. Ecco il prezioso pacchetto. Lo apro. Ecco la mia pic­cola efficientissima «Mauser». Ne controllo per l’ultima volta il meccanismo e me la lascio scivolare in tasca. Ecco la patente e la carta d’identità perfettamente falsi­ficate, i soldi, la carta stradale per un’eventuale situazione­ d’emergenza. Ecco un bel pacchetto di pepe. Tutto trova razionalmente posto nelle mie tasche. C’è anche la pistola calibro 32. Purtroppo mi si ruppe e non mi fu possibile ripararla, facendomi desistere dalla primitiva idea di ricercare un complice. Farò da solo. Sarà più ri­schioso ma almeno non correrò il rischio d’essere tradito­ all’ultimo momento. È inutile portare con me quest’altra pistola ma non posso lasciarla in cella col rischio di mettere nei guai compagni innocenti. La riavvolgo nello straccio, la getto nel bidoncino dell’immondizia e vado a gettare il tutto nei grandi contenitori che si trovano nel cortile comune. Ci sono ancora una decina di minuti di tempo e deci­do di trascorrerli nel cortile. Passeggio un poco poi mi fermo a contemplare un foglio affisso da pochi giorni su d’un muro: è l’elenco dei detenuti classificati «buoni» per il secondo semestre del 1973. C’è anche il mio nome e questa classificazione (arbitraria perché nessuno ha richiesto il mio parere) mi dà il diritto di poter scrive­re(in base al decrepito regolamento penitenziario anco­ra in vigore) due lettere supplementari al mese a spese dell’amministrazione penitenziaria. Giorni fa, quando scorsi il mio nome su quella lista, provai un senso di vergogna. Sorrido al pensiero che qualche funzionario zelante cancellerà senz’altro il mio nome da quella lista prima di sera... Il cortile è grande e serve anche come campo di football.­ Su questo campo, partecipando ad un torneo, ho vinto una medaglia d’oro: un’altra piccola vergogna da dimenticare... Fossano è uno di quei «carceri dal volto umano». Questa classificazione comporta l’implicita ammissione che esistono anche carceri dal volto disumano. In effetti il detenuto di Fossano è privilegiato rispetto a detenuti d’altri stabilimenti. Questa differenziazione delle carceri è una cosa inammissibile. Il detenuto viene continua­ mente ricattato con lo spettro di trasferimenti punitivi. Un detenuto che ha conosciuto carceri duri quando approda a Fossano crede di toccare il cielo con le dita. Spesso detenuti dotati di carattere e combattività, una volta qui sono oggetto d’una metamorfosi avvilente. I risultati si vedono: durante questi ultimi mesi le rivolte e le manifestazioni non sono certamente mancate nelle carceri italiane. A Fossano non è volata una parola di contestazione... Tutti qui sappiamo che alla più piccola manifestazione d’indisciplina c’è immediato trasferi­mento. Allora, meglio stare buoni e raccogliere ugual­mente i frutti di chi si sacrifica altrove... Le carceri come Fossano mi fanno paura e rabbrividisco al pensie­ro che potrei diventare, un giorno, simile a Tizio o a Caio il cui sport preferito è di distribuire sorrisi (e peggio­ ) al direttore e al maresciallo per ingraziarseli e che non fanno che scodinzolare quando passa un graduato qualsiasi... In Francia comportamenti del genere sono impensabili.­ Forse perché il carcere francese è molto più duro, quindi si crea una maggiore solidarietà tra i detenuti. Sino a pochi anni fa la vita del detenuto francese era un inferno ed è solo dopo lotte estremamente dure (non in­teramente conosciute dall’opinione pubblica) che qualcosa­ è cambiato e sta cambiando. Anche il detenuto italiano si è notevolmente politiciz­zato in questi ultimi anni ed ha ottenuto vantaggi mate­riali considerevoli. Per quanto mi riguarda, mi sono tro­vato spesso in prima fila sia in Francia che in Italia, ma da un po’ di tempo mi sto domandando dove ci porterà questo movimento di protesta. Commissioni interne... delegati di sezione... Sino a pochi anni fa queste istituzioni «democratiche» erano impensabili all’interno delle car­ceri , ma sono istituzioni pericolose come può esserlo qualsiasi delega di potere. Alcuni mesi fa a Bologna ac­cettai di rappresentare la mia sezione innanzi ad alcune autorità durante uno sciopero della fame collettivo. As­sieme agli altri delegati mi sono fatto abbindolare da promesse che ancora oggi non sono state mantenute. In quell’occasione noi della «commissione» fummo usati per fare rientrare lo sciopero. È più facile trattare con alcuni­ delegati più o meno «ragionevoli» che con una massa di detenuti giustamente arrabbiati così come fuori è più agevole per i padroni trattare con i sindacati che direttamente con gli operai. A mio avviso, l’unica linea valida è l’assemblea permanente degli interessati che portano avanti le lotte. Ogni delega di potere si ritorcerà contro coloro che rinunciano all’autogestione delle loro lotte. Sì, lotte, ma per cosa? Per ottenere migliori condizio­ni di vita, benefici materiali, concessioni, ecc.? Nessuno nega che ottenere condizioni più umane di vita rappresenta­ un progresso, ma lottare «solo» per questo vuol dire allontanarsi sempre più dagli unici obiettivi validi. Lottare per abbellire la propria prigione non è solo as­surdo ma anche antirivoluzionario. Questa lotta assomi­glia a quella dell’operaio che si batte per aumentare la propria busta paga: sia gli uni che gli altri, lottando per piccoli benefici materiali, per migliori condizioni di vita, accettano implicitamente il mantenimento di quan­to – rivoluzionariamente – dovrebbero distruggere: il rapporto «padrone-salario», «la prigione». Ancora prima d’avere iniziata la nostra rivoluzione vogliamo già scivolare su posizioni riformiste? Sì certo, tra qualche anno tutte le carceri saranno come questo di Fossano e anche meglio e la maggior parte di noi si rassegnerà all’espiazione del proprio «de­bito » sociale in condizioni non più sub-umane. Bene, io non mi sento debitore ma bensì creditore, per questo oggi cercherò d’andarmene. Dato che il gran­ de rifiuto collettivo è ancora troppo lontano e dato che questa sta diventando la sesta estate dietro le sbarre, mi rifugio nel mio piccolo egoistico rifiuto individuale. Basta, è l’ora. Addio carcere dal volto umano!

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