Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica,
ingenua, si offre: «sono nato! eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e
questo odore. Vi piaccio? mi volete?» Da Napoleone, a Lenin e a Stalin,
all’ultima battona, al bambino mongoloide, a Greta Garbo e a Picasso e al cane
randagio, questa in realtà è l’unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri
viventi: «vi paio bello? io che a lei parevo il più bello?» E ciascuno, allora, si dà a esibire le
proprie bellezze: donde si spiegano le nostre vanità disperate. Le smanie
pubblicitarie delle divette, e le grinte dei generalissimi, e i poteri, e le
finanze, e i kamikaze, e gli scalatori, e i funamboli; e ogni traguardo
raggiunto, ogni primato («Per lei
ero io il primo di tutti»).
Orfani e mai svezzati, tutti i viventi si propongono, come gente di marciapiede,
a un segno altrui d’amore. Una corona o un titolo, o un applauso, o una
maledizione, o un’elemosina, o una marchetta. Tu mi paghi, e dunque accetti il
mio corpo. Tu mi ammazzi, e dunque ti danni per me.
Sempre la stessa domanda, o millanteria, o
pretesa, ci si consegna alla strage e alla croce e al sadismo e all’algolagnia e
al saccheggio e alle macerie. Nessuno può sfuggire alla condanna della nascita:
che in un tempo solo ti strappa dall’utero e ti incolla alla tetta. E chi, già
ospitato in quel nido e nutrito da quel frutto gratuito, potrà adattarsi al
territorio comune, dove gli si contende ogni cibo e ogni riparo? Avvezzo a una
fusione incantevole, creduta eterna, e certo di un ringraziamento gaudioso per
la propria ingenua offerta, il principiante impallidirà stupefatto all’incontro
con l’estraneità e l’indifferenza terrestre; e allora si abbrutirà o si farà
servo. Anche le bestie randagie chiedono, più ancora del cibo, le carezze:
viziati essi pure dalla madre che li leccava, cuccioli, e di giorno e di notte,
e di sotto e di sopra. Per la sua tetta e la sua lingua, non si richiedevano
titoli. Né servivano addobbi, per piacere a lei.
“Vi vergognerete della vostra nudità”. E qui il
primo grosso autocrate trascurò di aggiungere: “E avrete bisogno di carezze fino
all’ultimo vostro giorno”, mentre in realtà ribadiva, con questa legge non
detta, la propria ingiustizia istituita.
"E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se
stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio
estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi – con
attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere
finalmente in fondo alla pupilla l'ultimo Altro, anzi l'unico e vero Sestesso,
il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome
Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la
piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta
segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d'amore ormai
scaduta e inservibile, ma ostinata fino all'indecenza."
1 commento:
Rapallo 12.4.83
Cara Elsa Morante,
In Aracoeli, la breve vita di Carina è una delle pagine più alte della letteratura italiana di ogni tempo. Dissi, ad amici, quanto questo libro, per me, fosse importante - coraggio e tristezza così rari in questi anni di nulla - ma dissi soprattutto di quel ritratto: che per sapienza ricorda - e non a me sola - l'oro di sogno di Las Meninas. La breve quiete - nel vivere - di Carina, la sua infinita preziosità e dolcezza - sono davvero cosa immortale.
Sia contenta, dunque, cara Elsa Morante, di quanto ha avuto in dono - e ancora cerchi, nel suo giardino, quanto è nascosto. Pazienza, col proprio corpo, e anche con la propria anima. Vi saranno "risposte", sulla pagina; vi saranno altri doni, per cui Lei non potrà dire grazie, agli Dei o al Dio della Bellezza, che ricordando le proprie catene. Allora le saranno meno pesanti.
E poi, non è detto che non possano allentarsi da sole. Il mondo non è che un grande prodigio. Non vedere che sia prodigio, non muta la sua natura di fiaba. Un abbraccio. Un grazie. Un augurio di gioia
Sua A. Maria Ortese
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