Non sono
un ladro né un assassino: sono semplicemente un ribelle. Non vi riconosco
il diritto di interrogarmi, perché qui, sono io l'accusatore.
Accuso questa
società matrigna e corrotta, in cui l'orgia, l'ozio e la rapina trionfano
impuniti e anzi venerati, sulla miseria e sul dolore degli
sfruttati. Voi cianciate di furti, voi mi chiamate ladro come se un
lavoratore che ha dato alla società trent'anni della sua avvilente fatica per
poi non avere neppure il pane per sfamarsi, un cencio per coprirsi,
un canile in cui rifugiarsi, potesse mai essere un ladro. Voi sapete bene
che mentite, voi sapete meglio di me che è furto lo sfruttamento
dell'uomo sull'uomo, che se al mondo vi sono dei ladri, questi
vanno cercati tra coloro che oziando gozzovigliano a spese dei
miserabili, i quali producono tutto, con le proprie mani martoriate.
Voi
stessi sareste capaci di condividere ciò che sto per dirvi: che scopo
dell'essere umano è la libertà e il benessere. Ma la prima non può
trionfare se non grazie alla rivolta contro chi devasta la civile
convivenza perseguendo soltanto il proprio profitto, e il secondo
si realizzerà soltanto con la violenta distruzione degli
intollerabili privilegi di un'oligarchia razziatrice.
E' per
questo che sono anarchico. Perché ho il diritto di essere libero riconoscendo come limite alla mia libertà la libertà altrui. E ho consacrato ogni mio pensiero, ogni mia parola e ogni mio sforzo, tutta la vita,
a debellare i vostri insani principi di autorità e proprietà, aspirando a
distruggere il vecchio ordine sociale, perché non ritengo assurdo né
utopico che dalle nostre menti, dai nostri cuori e dalle nostre braccia
possa scaturire un mondo migliore, dove libertà e benessere
siano il frutto dell'eguaglianza e dell'armonia, in una società che
bandisca lo sfruttamento e persegua le regole della solidarietà e della
reciprocità, in nome del rispetto della vita umana che voi, difendendo i più sordidi interessi delle classi privilegiate, soffocate con leggi che insegnano e propagano il disprezzo e la
sopraffazione.
Sareste
così temerari da negare tutto ciò?
A
smentirvi basterebbero le brutali statistiche delle quali cito solo
qualche esempio: nelle fabbriche di vernici o di specchi, i
lavoratori sono avvelenati dai sali di piombo e di mercurio, falciati a
migliaia nel vigore degli anni, quando sappiamo che la scienza ha
dimostrato che questi micidiali sistemi di produzione potrebbero, con poca
spesa e minimo sacrificio, essere sostituiti da metodi e prodotti inoffensivi.
Le fabbriche di giocattoli intossicano con eguale disinvoltura
gli operai che li confezionano e i bambini a cui sono destinati, per non
parlare delle miniere, bolge orrende dove migliaia di disgraziati, estranei al mondo, al sole, a un barlume d'affetto, sono destinati
all'abbrutimento per fare la fortuna di un ignobile pugno di parassiti. Tutto
il vostro sistema di produzione è un insulto alla vita, e un crimine
contro l'umanità.
E lo sfruttamento dell'uomo non è ancora il più feroce e cinico: che dire
dello sfruttamento della donna, verso la quale la vostra società è addirittura
più spietata?
Oh, io
le ho viste, e tante, gagliarde, nel fiore della giovinezza, piene di salute,
arrivare dalle campagne avare alla città piovra. Rideva nei loro occhi la speranza, con sana freschezza nutrivano la fiducia di giungere
finalmente nella terra promessa del lavoro, della prosperità, del
benessere. Le ho riviste qualche tempo dopo, uscire dai vostri ergastoli
senz'aria e senza luce che chiamate fabbriche, lavorando dieci, dodici o
quattordici ore per il pane, sognando un'agiatezza che l'onesta fatica
non concederà mai, le ho riviste anemiche, stanche, esauste, nauseate da
un lavoro schiavista e dal vostro cinismo. Le ho riviste a tarda notte nelle
taverne dei sobborghi, sul lastricato, tra le pozzanghere, guadagnarsi il pane
e un rifugio ricorrendo al più orrendo mercimonio. Le ho riviste nelle celle
delle gendarmerie, schedate, bollate dal marchio dell'infamia, queste poverette
che la vostra società ipocrita relega al margine. Le ho viste intristirsi,
inasprirsi sotto la sferza della fatica e della miseria, non credere più nella
vita, non credere più nell'avvenire, non credere più nell'amore, proprio
loro che all'amore si erano concesse sorridendo e avevano salutato la
nuova culla con lacrime di gioia. E sotto quell'accidia ho visto
germinare le delusioni che si trasformano in disperazione, scatenando violenze
e l'abbandono della famiglia, questo istituto a vostro dire sacro di cui
vi autoproclamate sacerdoti, custodi e paladini.
E in
cuor mio, non vi ho più perdonato.
Sono un
operaio che non ha sopportato a capo chino, e prima, ero carne da cannone, tornato
dalla bassa macelleria del 1870 straziato dalle ferite e spezzato dai
reumatismi. Nei tristi androni dell'ospedale ho avuto tempo, molto tempo, per
riflettere su quanto la patria aveva voluto da me e quanto la patria mi aveva
dato. Prima mi avete annebbiato il cervello di menzogne, odio e furore
selvaggio, per poi farmi avventare in nome dell'onore e della gloria della
Francia, tra rulli di tamburi e squilli di fanfare, contro il nemico.
Il
nemico? Li ho visti faccia a faccia, i nemici: erano poveracci come noi, che
avanzano verso la carneficina mesti, docili, inconsapevoli quanto noi di essere
strumento di calcoli che di là come di qua dalla frontiera rinsaldavano i
diritti feudali di vita e di morte sui sudditi.
Il
nemico è qui. Dentro le frontiere segnate dal capriccio e dalla bramosia di
profitto dei governi. L'umanità che soffre e lavora, quella è la nostra patria.
Il nemico, è l'oligarchia ladra che si ingozza sul nostro sudore. Non ci
ingannate più.
Voi ci
avete spediti al di là del mare contro popoli che chiedevano soltanto di mantenere inviolato il proprio focolare. In nome della nostra
civiltà ci avete incitato allo stupro, al saccheggio, alla strage, per sete di
conquista. E dopo tanto orrore e ferocia, avete la sfrontatezza di giudicare
i disgraziati che vedendosi negato il diritto a una dignitosa
esistenza, hanno avuto almeno il coraggio di andarsi a prendere il necessario
là dove abbonda il superfluo?
Ecco
perché mi trovo qui: per avere gridato forte e chiaro ciò che Prodhon
si è limitato a pronunciare a bassa voce davanti a un'accademia di
benpensanti. Che la proprietà, se non nasce dal lavoro, se non germoglia dal
risparmio, dall'abnegazione, dall'onesto vivere, è un furto. Voi avete fatto
della proprietà un'istituzione egoista e una pratica selvaggia a cui
tributate venerazione, mentre i miserabili devono a essa i dolori, l'odio e le
maledizioni.
Io non
tendo la mano a chiedere l'elemosina. Io pretendo che mi sia riconosciuto il
diritto a riprendermi ciò che mi è stato tolto da una congrega di accaparratori,
ladri e corrotti.
Non mi
ingannate più. E, in cuor mio, non vi perdono.
.

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