martedì 9 ottobre 2012

Da "Ignazio Buttitta, Io faccio il poeta". In il "Tempo" dell'11 gennaio 1974


Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati a credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie, che io sapevo tuttavia di fare da un'estrema sinistra non ancora definita e non certo facilmente definibile. Quando il dolore di vedermi circondato da una gente che non riconoscevo più – da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire di più che il benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia – ecco che è arrivata l'austerità, o la povertà obbligatoria. In quanto provvedimento governativo io considero tale austerità addirittura incostituzionale e m'indigno furiosamente al pensiero di quanto essa sia «solidale» con l'Anno Santo. Ma, come «segno premonitore» del ritorno di una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Sono pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi, basterà che sulla faccia della gente torni l'antico modo di sorridere; l'antico rispetto per gli altri che era rispetto per se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura «povera» insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo… Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni economiche, che hanno l'aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare che la storia dell'umanità fosse ormai la storia dell'industrializzazione totale e del benessere, cioè un' «altra storia», in cui non avessero più senso né il modo di essere del popolo né la ragione del marxismo. Forse il culmine di questa storia aberrante – benché non osassimo sperarlo – l'avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene) il recupero di tale passato sarà per molto tempo un aborto: una mescolanza infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie. Ma ben venga anche questo mondo confuso e caotico, questo «declassamento». Tutto è meglio che il tipo di vita che la società stava vertiginosamente guadagnando.
Improvvisamente in questa situazione, dopo quasi trent’anni, ho ricominciato a scrivere in dialetto friulano. Forse non continuerò. I pochi versi che ho scritto resteranno forse un unicum. Tuttavia si tratta di un sintomo e comunque di un fenomeno irreversibile. Non avevo automobile, quando scrivevo in dialetto (prima il friulano, poi il romano). Non avevo un soldo in tasca, e giravo in bicicletta. E questo fino a trent’anni d’età e più. Non si trattava solo di povertà giovanile. E in tutto il mondo povero intorno a me, il dialetto pareva destinato a non estinguersi che in epoche così lontane da parere astratte. L’italianizzazione dell’Italia pareva doversi fondare su un ampio apporto dal basso, appunto dialettale e popolare (e non sulla sostituzione della lingua pilota letteraria con la lingua pilota aziendale, com’è poi avvenuto). Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (e io proprio personalmente, sensualmente) in questi ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno dei momenti più dolorosi della perdita della realtà (che in Italia è stata sempre particolare, eccentrica, concreta: mai centralistica; mai “del potere”).
(…)
Il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco: può essere messo in catene, spogliato, aver la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero; gli si può togliere il lavoro, il passaporto, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché? Perché chi possiede una propria cultura e si esprime attraverso essa è libero e ricco, anche se ciò che egli è e esprime è (rispetto alla classe che lo domina) mancanza di libertà e miseria. Cultura e condizione economica sono perfettamente coincidenti. Una cultura povera (agricola, feudale, dialettale) “conosce” realisticamente solo la propria condizione economica, e attraverso essa si articola, poveramente, ma secondo l’infinita complessità dell’esistere. Solo quando qualcosa di estraneo si insinua in tale condizione economica (ciò che oggi avviene quasi sempre a causa della possibilità di un confronto continuo con una condizione economica totalmente diversa) allora quella cultura è in crisi. E’ su questa crisi che, nel mondo contadino, si fonda la “presa di coscienza” di classe (su cui del resto incombe eternamente lo spettro del regresso). La crisi è dunque una crisi di giudizio sul proprio modo di vita, uno stingimento della certezza dei propri valori, che può giungere fino all’abiura (cosa avventa appunto in Sicilia in questi ultimi anni a causa dell’emigrazione in massa dei giovani in Germania e nell’Italia del nord). Simbolo di questa “deviazione” brutale e niente affatto rivoluzionaria della propria tradizione culturale, è l’annichilimento e l’umiliazione del dialetto, che pur restando intatto – statisticamente parlato dallo stesso numero di persone – non è più un modo di essere e un valore. La chitarra del dialetto perde una corda al giorno. Il dialetto è ancora pieno di denari che però non si possono più spendere, di gioielli che non si possono regalare. Chi lo parla è come un uccello che canta in gabbia. Il dialetto è come la mammella di una madre a cui tutti hanno succhiato, e ora ci sputano sopra (l’abiura!). Ciò che non può essere (ancora) rubato è il corpo, con le sue corde vocali, la voce, la pronuncia, la mimica – che restano quelle di sempre. Tuttavia si tratta di una pura e semplice sopravvivenza. Benché ancora in possesso di questo organo misterioso “coi suoi lampi negli occhi” che è il corpo, “siamo poveri e orfani lo stesso”.
(…)


Un populu
mittitilu a catina
spughiatilu
attuppatici a vucca
è ancora libiru.
-
Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unni mancia
u lettu unni dormi,
è ancora riccu.
-
Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
-
Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu la chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.
-
Mentre arripezzu
a tila camuluta
ca tissiru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.
-
E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènniri;
i giuelli
e non li pozzu rigalari;
u cantu
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.
-
Un poviru
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.
-
Nuàtri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtana di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.
-
Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponnu rubari.
-
Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.

 
Ignazio Buttitta
(da Lingua e dialettu, 1970)

1 commento:

El futuro es nuestro ha detto...

Un popolo
Mettetegli la catena
Spogliatelo
Chiudetegli la bocca
È ancora libero.

Levategli il lavoro
Il passaporto
Il tavolo dove mangia
Il letto dove dorme
È ancora ricco.

Un popolo
Diventa povero e servo
Quando gli rubano la lingua
Datagli dal padre
È perso per sempre

Diventa povero e servo
Quando le parole non creano parole
E si mangiano tra loro
Me ne accorgo ora
Mentre accorgo la chitarra del dialetto
Che perde una corda al giorno

Mentre rammendo
la tela rovinata
che hanno tessuto i nostri avi
con lana di pecore siciliane

E sono povero:
ho i soldi
e non li posso spendere;
i gioielli
e non li posso regalare;
il canto
in gabbia
con le ali tagliate

Un povero
Che ciuccia nel seno vuoto
Di madre putativa
Che lo chiama figlio
Per soprannome.

Noi ce l’abbiamo la madre
non ce l’hanno rubata;
aveva il seno pieno di latte come una fontana
e ci hanno bevuto tutti
ora ci sputano.

C’è rimasta la sua voce
la cadenza
una nota bassa
del suono del lamento:
questi non ce li possono rubare

Non ce li possono rubare
ma restiamo poveri
e orfani lo stesso.