mercoledì 17 ottobre 2012

L'amore degli insorti


Una strada aperta ai sentimenti...
è da qui, dicevi, che si deve ripartire
per dare ancora un senso
ai giorni che verranno
a rammentarci di esser stati altro
da un semplice raduno di ricordi
e pugni in tasca, e mano nella mano
e voci spente all'arrivo della notte
come se i passaggi del tempo
c'invitassero a tacere all'improvviso
e il nostro mondo si fosse messo in posa
per sembrare sempre fermo
davanti al sogno di vederlo in movimento
senza uno strascico di pesi alla memoria
che da sola si trasforma in nostalgia
e nulla più.

Adesso il mondo è un taglio sulla pelle
profondo solo agli occhi di chi lo vuol vedere
e gli altri a sbarazzarsene in un colpo
come se fosse una macchia di rossetto
che in fretta e furia si deve cancellare
da quella vita di ripiego che si è costretti a fare
se non si sceglie di schivarne il canto a piena voce
col suono urlato delle frasi della strada
quella strada attraversata mille volte
con indosso le camicie da rebeldes
e negli occhi la Spagna dei fucili vecchi
e dei poeti giovani
così da sentirsi in sintonia con Auden e Spender,
Hemingway e Orwell
e non coi premistrega di stagione
e le parole perse in cambio delle buone.

Per il principio delle cose, dicevi,
daresti in pasto al caso
il seguito di ogni altra nostra storia
dispersa tra le braccia di una sera
tra i colpi ricevuti per educarci al pianto
e quelli inferti senza lasciare traccia

se non nel diario minimo di una stagione
che a nessuno, o quasi, importa più niente
perché niente è da capire di ciò che non si vuol sapere
di noi che abbiam limato le ragioni
di questo stare in vita senza pace
e ora le invochiamo ad alta voce
ma solo per sentirci meno soli
di fronte ai sensi unici del mondo.

Non è di noi, però,
che val la pena di parlare adesso,
dei nostri amori trascinati al fiume
o del baratto dei decessi con le armi
o ancora dell'incendio di mille pomeriggi
a il fumo, e i gasi, e gli occhi stropicciati,
i loro caschi blu e i nostri colorati
e la mia faccia insanguinata
quel giorno di febbraio all'università
e un paio d'anni dopo, a marzo
io che ti grido, in fondo al Portico dei Servi,
di venir via perché la guerra, oggi,
l'hanno vinta sempre loro,
e tu, per una volta, a guardarmi con disprezzo,
gli occhi puntati, appena sopra il fazzoletto
con cui ti copri il viso e la bocca
mentre canti, o forse urli:
"Oggi ho visto nel corteo
tante facce sorridenti
le compagne, quindici anni,
gli operai con gli studenti"
e io lo so, che avrei cantato assieme a te
se solo avessi avuto ancora fiato
e invece son rimasto muto
ad ascoltare le tue frasi di lontano:
"La violenza la violenza
la violenza e la rivolta
chi ha esitato questa volta
lotterà con noi domani".

La violenza, dicevi,
quella buona, la nostra,
la stessa che ti ha portato via
dopo la disputa notturna, e separata,
le biciclette a mano sotto casa
è l'ora o non è l'ora
di fare qui la nostra Cuba
o preferisci l'avanzare a stento
tra frasi ripetute all'infinito
e dopo tutti fermi ad aspettare
ciò che resterà nelle intenzioni.

E no che non avrei atteso
se davvero ci fosse stata l'occasione
di combaciare il cuore con la mente
e i sogni con l'inverno dei risvegli
solo che adesso non potrei nemmeno ricordarti
ai tanti che t'hanno vista di sfuggita
spezzare gli equilibri di una vita
e avanzare di corsa senza sapere camminare
in fondo al corridoio di un destino
che a me sembrava aperto alle stagioni
e a te solo un cancello da sfondare.

Sparire, di colpo, e andare incontro al vento
con le spalle scoperte e senza rete...
questo, ripetevi, era solo il contrappunto
al dover mettere le cose sempre in fila
con tutta la fatica di farle stare in piedi
sulla corda sospesa tra le nostre verità.
E intorno, certo, non percepivi il vuoto
ma un muovere d'istinto di facce a perdifiato
e un agitarsi insonne di frasi a mezza voce
sui passi avanti che più avanti non si può.

C'era il tuo mondo, in quel rumore, e anche il mio
eppure non sembrava lo stesso filo d'orizzonte
a rendere infinito il colore degli sguardi
diretti a scavalcare la loro ipotesi del blu.
Così, seduta sui confini di quella tierra prometida
cercavi la mia mano per spingerci più in là
a un'ora di cammino da madri padri eroi
col viso irrigidito, per non voltarti mai.
Come sarà il domani, amore mio
avrei voluto chiederti in fondo alle parole
che scambiavamo in corsa contro il tempo
al posto di tenerle strette fra le dita.

E invece ho solo trattenuto il suono
delle tue grida mischiate a tante altre
e spinte verso l'alto da mille braccia in croce
a fingere l'arresto della nostra fantasia.
"Gui e Tassinari sono innocenti
siamo noi i veri delinquienti..."
e lì, per un istante, ho rivisto il tuo sorriso
preso di mira dal sollievo dei miei occhi
nel ripensarti figlia di te stessa
e non dei dissapori con la vita.
Perché è di questo che vorrei parlarti adesso
di quel sentirti a casa dappertutto
senza mai mettere radici in un destino
fosse il cammino piano delle nostre sintonie
o quello erto delle tue scalate al cielo.

Sono giorni di riposo, questi,
per i molti che hanno strappato le divise
e cancellato il corso degli insiemi
come se fossero fastidi di un remoto
passato un po' per caso nei paraggi
a confondere dei sorsi d'acqua con la sete.
Ma io, che ancora inseguo gli orizzonti
e non ho smesso nemmeno di fumare
ci prendo gusto a calpestar le strade
dei tanti bravi a ritirarsi in fretta
e di quei pochi rimasti ad aspettare
la piena che verrà dopo le secche di stagione.

Perciò mi sembra quasi d'incontrarti
sotto quel totem che ora non c'è più
mentre nascondi il viso tra le mani
e imprechi all'indirizzo dello Stato
che un'altra volta ha ucciso senza pena
la nostra voglia di buttarlo giù.
Cosa faranno i compagni di Milano
chiedi alla piazza che intanto si fa intorno
e i romani, i torinesi, i triestini
e tutti quelli a cui è giunta la notizia
di un altro morto tra le nostre file?
Io non lo so, davvero, anche se vorrei
spiegarti ciò che non mi sento di spiegare
dell'emozione che ti arriva addosso
come se fosse un treno in corsa
e della rabbia che non posso trattenere
di fronte a quelle luci che intravedo di lontano.

Sto in silenzio, dunque, e guardo in basso
e osservo di straforo le tue scarpe militari
così maschili da non poter immaginare
le tue caviglie strette e le tue unghie colorate.
Saranno giorni allo scoperto, già lo so
e notti sveglie a perlustrare Forte Marx
come chiamavi tu quel grappoli di vie
serrate in una sera al grido di mai più.
"Abbiamo liberato la città!"
hai sibilato in mezzo a un bacio sulle labbra
mentre uno spray sanciva con il rosso
che la rivoluzione, proprio oggi, è cominciata.
Da dove, chiedo io,
da queste barricate in piazza Verdi
da una Roma rastrellata a caso
con quelle file di mani sulla testa
sfiorate dalle canne dei moschetti?

E tu, subito i nervi scatenati
a replicare con dei disegni in aria
che di qua, di là e laggiù in fondo
non sfonderanno mai, neanche con l'orgoglio.
Ma come fai a non capire, ti sento ancora urlare
che è questa la Comune di Parigi
e anche il senso dei nostri anni da ribelli
da sognatori, artisti, pazzi e criminali
perché se no tanto valeva starsene a casa
con la coperta addosso e un orologio nella mano.

Poi, si sa, sono arrivati i carri armati
a cancellare in un sol colpo il clima di rivolta
ma prima c'era stato l'incendio di Bologna
la musica giù in strada e Radio Alice nella testa
e le vetrine rotte delle botteghe insane
le auto rovesciate, il blocco dei binari
e l'autoriduzione in cinema e mercati
l'eterna borghesia a scappare trafelata
che questa volta è il suo cuore a andare in gola
e le facce dipinte come in un teatro
con tutti noi attori di un nuovo repertorio
da recitare a braccio sul palco della sera.

Hanno ripreso la città
mi tocca dirti piano
e dove stavamo noi ora ci sono loro
a ripulire i muri col bianco del respiro
sottratto al nostro d'incerti pensatori.
"Io non ci sto, io non ci posso stare"
hai borbottato fissandomi negli occhi
e dietro ai tuoi non ho rivisto lo spiraglio
dei giorni in cui si stava tutti attorno al sogno
di fare a meno del dominio in un istante
ma senza correre più in fretta del destino.

Ho visto, invece, il ruvido declino delle labbra
e la tua delusione come una ruga sulla fronte
a segnare il confine tra le parole e i fatti
tra quel tuo modo intenso d'avanzare
e il mio fermarmi a ogni incrocio ad aspettare.
Così hai messo insieme le tue cose
le poche necessarie al tuo partire
mentre le altre sono rimaste qui
vegliate dal pensiero di vederti ritornare.


Com'eri bella col fucile in spalla
bottino dell'esproprio a un'armeria
e mi dispiace, sai, di non averlo detto mai
né a te né a chiunque m'abbia chiesto
di raccontare la tua storia dal principio
per cogliere chi c'era veramente
dentro quel corpo disteso a faccia in giù.
Peccato io riesca solo a balbettare
di scelte condivise e di altre no
e di un dolore che non si piò spiegare
a chi proclama, oggi, la vittoria
del senso dello Stato e morta lì.

A ripensarci bene agli anni intensi
mi sembra di sentirli tutti addosso
ognuno col suo carico di suoni
a reggere il confronto con le voci
mischiate a lacrime e sorrisi.
E molto mi rimane ancora in testa
dallo spavento condiviso a gesti
al garbo antico di certi giri di parole
con cui provasti a rendere leggero
l'annuncio di un saluto senza scampo.

E mi rimane, tuttora, la malìa
dell'essermi specchiato nel tuo viso
che era tutt'altro da quel frammento insanguinato
finito ad illustrare gli strilli dei giornali
coi loro resoconti di spari e inseguimenti
e di mostri del terrore invisi anche alla pietà
quella concessa persino ai criminali
ma non ai caduti della nostra specie
per i quali, talvolta, hanno chiuso i cimiteri
e concesso solo un lembo di terra sconsacrata.

E mi rimane, infine, la certezza
che si possa sbagliare dalla parte giusta
schierati a protezione di un'intesa
tra l'utopia di chi insegue gli orizzonti
e gli orizzonti stessi che si spostano per noi
come se fossero le guide di un cammino
in fondo al quale scavalcare il mare
per ritrovare lì l'amore degli insorti
che solo noi sappiamo pronunciare.

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