venerdì 12 ottobre 2012

Alla Terra dell'Amore

Mandala di Amy Swagman


Arriva l’infermiera, pulita, esperta, rassicurante. Cerca di farmi credere che partorire è veramente come prendere l’aereo. Ci si allaccia la cintura di sicurezza e si lascia fare. Non c’è da aver paura. Ti rasano. Il sesso, calvo, diventa così indecente, torna a essere sesso, mentre prima non lo era più. Non era che passaggio, culla, navicella. Ci si introducono dita di caucciù, bianche, decolorate, dita da annegato. Va bene. Si mette in moto la respirazione breve, ansimante. La piccola locomotiva del parto moderno. Una grande pinza lucente entra penetra nel posto nascosto, fragile, subito scoperto, spalancato, illuminato, che tutto a un tratto non deve apparire più sconveniente di un occhio. Si buca la tasca delle acque che scorrono, che sgorgano. Nel loro tepore c’è un’eco di essenziale, una risonanza di inizio, della temperatura necessaria alla propagazione della vita. Proprio quello che ci vuole. Un po’ più caldo che freddo; è la pausa della fermentazione, quella che mette in modo l’inerte, quella che fa palpitare l’immobile.
E dopo, poi, la gente e le cose sono sparite. Io partorisco. Io sono la gestazione stessa, il mio corpo e io stiamo compiendo l’impresa. Lui non fa nessuna fatica a trovare il cammino arcaico, io lo seguo sperduta, sconvolta, a momenti va troppo veloce, non mi lascia respirare. Eppure ho voglia di finire, non ne posso più. Impressione che il bacino mi si spacchi, che il bambino ostinato mi torturi, che il mio piccolo soffra. Per quanto tempo ancora resteremo ad affrontarci così? Quando arriverà il momento giusto, esatto, preciso?
Certezza che il mio corpo e io dovremmo formare un tutt’uno e trovare insieme la cadenza adeguata, ma la mia testa resta indietro, piena di pregiudizi, piena di buone maniere, piena di stupore e di reticenze nel vedersi così intimamente legata a questo orifizio proibito, vergognoso, che si allarga, si allarga di continuo e partecipa, mio malgrado, alla nobiltà della nascita.
Io resisto, ma sento che con questa resistenza la rotondità del mio pozzo comincia a creparsi, fendersi, scoppiare come la buccia di un melograno maturo. Il mio rifiuto confuso mi farà soffrire, eppure il bambino passerà lo stesso. La venuta al mondo si compirà , che io lo voglia o no. A flash, collego questi istanti al sesso dell’uomo, lungo, satinato, tozzo, duro, che si è introdotto nove mesi fa, penetrando fino in fondo alla casa dei desideri, fino alla remota stanza del piacere per scoprirci il tesoro. Ladro! Svaligiatore!
Jean-Francois ed io dividevamo il bambino in quei momenti che ci appartenevano più di tutti gli altri? No.
E alla fine sono arrivati gli spasmi dell’espulsione, le cosiddette “spinte”. Tre immense ondate, tre sismi stupefacenti, qualcosa di inimmaginabile, di colossale; tre scosse che si impadroniscono del mio ventre come un impasto di pane, lo sollevano, per poi precipitarlo verso il basso. Nave nell’uragano che scricchiola dappertutto, a cui si è abbassata tutta la vela, e che da sola tiene testa, con gli scheletri degli alberi eretti nell’oscurità, all’infinitamente più forte e più grande di lei.
Idea di questo sconvolgimento che la fine è vicina, che il bambino tanto desiderato sta finalmente per esistere.
Rifiuto del bambino tanto desiderato che fa troppo male, che sta esagerando. Lotta contro lo straniero adorato.
Spinga! Sì io ti spingo, ti espello, ti rigetto, mio amato. Fuori dai piedi!
Spinga! La testa è passata. Voglio vederti, conoscerti, malfattore, te che io amo. 

Spinga! Nasci! Violetto, raggrinzito, tutto bagnato. Ah! La mia beltà così brutta. Voglio proteggerti. Non avere paura!
Grida! Che voce è? Non la conosco. Sentite anche voi come me la voce del mio bambino? NO. Sono la sola a sentirla. Voi sentite il grido di un neonato, io sento la voce, la parola, la confidenza, il lamento dello sconosciuto che vive nel mio ventre da così tanto tempo.
Sono qua, sono qua. Datemelo. Mettetelo su di me. Sdraiato su di me. Lo proteggerò con le mie braccia e con i miei occhi attenti, dato che sono troppo debole per alzarmi e andarmene con lui, lontano. Lasciateci insieme. Smettetela con questo pulito, questo bianco, questo cromato, questo profumato, questo disinfettato, questo igienico. Lasciateci alla terra dell’amore, alla salsa dei baci, alla scivolosità del toccare, al concime degli sguardi e degli odori. Lasciate che ci palpiamo, che ci annusiamo. Noi non abbiamo bisogno di nessuno. Di nessuno! Noi siamo un tutt’uno!



 
 
Su Marie Cardinal
 

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