Dopo un paio di
profondi sospiri, era cominciato allora il grave recitativo del questore: certo
l’altro aveva parlato troppo, e troppo avventato era stato un giovane
commissario aggiunto oltremodo sicuro di sé; e per passare all’ordine pubblico,
certo quel tal vicequestore paonazzo in volto era stato sempre troppo
impulsivo, mentre sul fronte della polizia erano stati commessi errori
gravissimi a partire dal corteo di Annarumma e dalle violenze del 21 gennaio.
Come mai però una donna come me poteva pensare che in questura (un corpo che in
Italia conta quattrocento laureati) esistessero dei picchiatori?
E poi perché, essendo donna, non mi occupavo di altri argomenti, dei travestiti per esempio (di cui era stata fatta una recente retata e gli avevan requisito due armadi di parrucche), di rapimenti di ragazzi, dei problemi della scuola? Grazie, mi dà delle idee, avevo risposto al questore Allitto; ma non fu l’incontro con lui a farmi smettere di occuparmi del processo Pinelli:
Un processo che va avanti a singhiozzo; e il solito oscuro presepio ogni volta si ricompone nell’aula disadorna della prima sezione: ogni volta ci si aspetta che vada a posto qualche pezzo di questo gran gioco di pazienza, e per la verità raramente si è delusi, perché ogni volta c’è un angolino che a un certo punto si schiarisce, l’atmosfera c’è tutta, e i dettagli inediti continuano a spuntare da ogni parte in attesa che si metta a fuoco la scena centrale. Ogni giorno insomma c’è qualcosa da imparare.
Attraverso i vari testimoni ora si vede quello che potrebbe far da sfondo al gioco di pazienza. Ecco quel che succede a chi è fermato o solo “invitato” in questura. Il panino con la mortadella per cena verso le dieci di sera; il sonno che manca (“se ci appisolavamo nello stanzone, venivamo subito svegliati da un agente con la frase: “questo non è un dormitorio,” dice Sergio Ardau, e: “di lì a poco ebbi modo di sentire il dottor Pagnozzi che dava disposizioni atte a tener sveglio il Pinelli tutta la notte,” depone il Valitutti; quindi la semibonaria intimidazione: “Se ci dici qualcosa su Valpreda, potrai star tranquillo, non ti darci-no più fastidio,” sempre secondo l’Ardau.
Col permesso degli agenti, il fermato può anche avere un caffè attraverso quella macchina che sta proprio nello stanzone dove lui è in sosta: e a proposito di caffè da qual
che giorno si è saputo cosa vuol dire andare a berne uno in compagnia di un funzionario della questura. “In quell’occasione l’ho invitato a prendere un caffè con me, e al bar abbiamo avuto uno scambio di idee,” aveva detto nella sua prima deposizione il commissario Calabresi, ricordando l’incontro con Pinelli in piazza Aquileia l’8 settembre 1969, durante la manifestazione a favore degli anarchici detenuti a San Vittore.
Un incontro che aveva impensierito Pinelli, ha dichiarato invece al tribunale il suo amico Cesare Vurchio, che si era trovato con lui un paio di giorni dopo. Perché a un certo punto a Pinelli si era avvicinato Calabresi chiedendogli di sciogliere la manifestazione. Non poteva scioglierla, dato che non era stato lui ad organizzarla, aveva risposto il Pinelli; in più i manifestanti avevano la sua solidarietà. “Pinelli, stai attento,” aveva ribattuto Calabresi, “ché alla prossima occasione te la faccio pagare.”
Ma il commissario non avrebbe potuto fargli niente, era stata la replica, lui era a posto con la coscienza, non aveva niente da nascondere. Finché con la frase: “Ricordati che noi ti possiamo metter dentro con una scusa qualsiasi, per esempio se attraversi col rosso,” era finito lo “scambio di idee.” E questa volta Pinelli aveva l’aria preoccupata: gli pareva che Calabresi fosse diventato un suo persecutore.
Né si era limitato a minacciarlo Calabresi, perché ci si era messo anche il capo della Politica, Allegra. È il 10 dicembre dell’anno scorso, mancano cinque giorni alla sua morte, e nella sede del circolo Ponte della Ghisolfa, al compagno Ivan Guarneri, Pinelli appare pensieroso: ha l’impressione che la questura ce l’abbia con lui. Ed è più che un’impressione la sua, in quanto è stato Allegra a dirgli: “Caro Pinelli, fra poco t’incastreremo per bene.” Nella sua deposizione, il Guarneri si ricorda benissimo questa frase, mentre è meno sicuro dell’aggiunta: “Una volta per sempre. ”
Sono questi i gravi fatti venuti a galla nelle udienze di novembre, ed eccone altri, non meno sconcertanti. Risulta chiaro infatti che, oltre a non ammettere periti di parte
all’autopsia, a non accorgersi che è infedele la piantina allegata agli atti, a non prendere nessun provvedimento “cautelativo” anche temporaneo, nei riguardi dei funzionari di polizia implicati nell’affare e a chiedere 1′assoluzione del questore Guida per mancanza di dolo, il sostituto procuratore Caizzi non verbalizza volentieri alcune testimonianze.
Non deve forse insistere la madre del Pinelli perché egli metta a verbale la frase che, ripetuta due volte da Allegra, l’ha molto colpita in questura il giorno 15 durante
la visita al figlio cioè: “contro di lui non c’è niente, ma abbiamo forti pressioni da Roma”? Solo perché lei lo esige, in fondo vengono aggiunte le due righe al riguardo. (Del resto, per quel che mi concerne, anch’io avevo dovuto fare aggiungere alla fine del mio verbale d’interrogatorio, quanto era stato sorvolato al momento giusto, cioè che il tenente Lo Grano era stato l’unico, a mio parere, a sembrare un po’ turbato la notte fra il 15 e il 16.) Quindi è sempre lo stesso magistrato a non dare importanza a quel che gli fa notare Pasquale Valitutti durante il primo sopralluogo in questura, che cioè quel giorno nella stanza dei fermati non era più a1 suo posto la scrivania alla quale lui sedeva la notte del 15, ed eccone ancora l’ombra sul muro. Quella natte la scrivania stava proprio di fronte all’apertura oltre la quale era possibile veder bene il corridoio e la gente che passa di lì. Ma nel giorno del sopralluogo appare spostata quasi completamente contro il muro, così da ridurre un bel po’ la visuale.
Altri interrogatori, quindi altri brandelli da cucire insieme, altre testimonianze e nuovi ambienti su cui piove un po’ di luce. Un elenco di malinconiche telefonate: Pinelli dalla questura, la signora Pinelli in questura: “Stai calma che qui ci sto poco; no, non ancora, mi chiedono di gente che non conosco; adesso pare che non mi confermino l’alibi” (mentre da dietro qualcuno zittisce). E poi l’avvocato che avverte che forse lo porteranno a San Vittore, un agente che suggerisce la scusa per le ferrovie, il commissario che chiede il libretto chilometrico, fino all’ultima ben nota e tragica telefonata della signora Licia a Calabresi all’una di notte del 16: “È vero quel che mi dicono? E perché non mi ha avvisata?” le due domande, e la canagliesca risposta del commissario indaffarato.
Poi un elenco di visite scoraggianti; la mamma in questura la mattina dell’ultimo giorno (“Mamma, io ho…”) e l’agente: “Su questo non puoi parlare” e allora lui, col viso tirato, ma gli occhi tranquilli: “Quando mi lasciano, ti racconto tutto”; i giornalisti a casa la notte ad annunciare per primi la caduta, la corsa della madre all’ospedale, dove nessuno vuol dirle niente. Tanto gli agenti che il tenente dei carabinieri le assicurano che si trovano lì per altri affari, e Pinelli nessuno lo conosce, come se sull’intera vicenda gravasse un teso segreto. Non c’è nessuno che la porta a vedere il figlio che agonizza a pochi metri di distanza; e quando nella stanzetta in cui l’hanno relegata viene qualcuno a reclamare il modulo per la denuncia in Comune, lei capirà che è morto il suo Pino.
Non sola dalle deposizioni della moglie e della mamma, ma anche da quelle altrettanto calme e gravi dei suoi amici operai, sindacalisti, assistenti universitari (tra cui Bruno Manghi, Marino Livolsi, Amedeo Bertolo), in seguito balzerà fuori a tutto tondo la figura del Pinelli, allegro, attaccato alla famiglia e alla vita, estremamente libero al punto che le sue bambine, poiché a loro piaceva, andavano tranquillamente all’oratorio. Così in aula si è potuto gettare un’occhiata su quell’interno rassicurante che era l’unica stanza da stare nella casa popolare dove i due coniugi discutevano con gli amici, mentre le bambine facevano i compiti, magari interloquendo anche loro quando l’argomento le interessava, per esempio sul suicidio di Palach. “Era uno schema di vita, direi, più caldo di quello che c’è normalmente nelle famiglie, e c’era un notevole legame affettivo,” dice Bruno Manghi nella sua deposizione.
A. proposito del suicidio di Palach, benché molto colpito, Pinelli aveva detto d’essere contrario a questo tipo di protesta. “Chi si suicida fugge,” aveva dichiarato. “Chi rimane, in qualsiasi situazione rimanga, lotta per la sua idea.” E alla madre che un giorno gli raccomandava di essere più cauto perché intorno al circolo di via Scaldasole aveva visto aggirarsi dei carabinieri (“stai attento ché l’anarchia rappresenta…”), lui non l’aveva nemmeno lasciata finire: “Mamma, l’anarchia non è quella che ti hanno insegnato in collegio. L’anarchia oggi non è violenza; è libertà. ”
E poi come stava bene, di fisico e di nervi (lo esigeva fra l’altro il suo mestiere di caposquadra manovratore), come non era mai depresso, come gli piaceva invitare gli
amici all’improvviso (non che la moglie fosse sempre entusiasta di queste sue rumorose sorprese e qui sulle sue labbra appare la pallida imitazione di un sorriso), come non nutriva una gran stima per Valpreda pur non considerandolo nocivo, com’era diverso insomma dall’ingenuo sognatore descritto da molti, perché da vent’anni lottava
con passione contro lo sfruttamento. Come per dovere d’ufficio e per aver seguito i processi dei compagni, conosceva tutte le possibili provocazioni della questura, come anzi ai giovani militanti, fra le prime cose insegnava a resistere ai vari sistemi usati dalla polizia per stancare e deprimere.
Insomma non rispondeva mai con lo scoraggiamento alle difficoltà più o meno gravi; anche davanti a un’esibita confessione di infamia di un compagno, mai e poi mai
avrebbe reagito con uno choc. Sapeva che le esigenze di libertà e di uguaglianza sono profondamente radicate nell’uomo, quindi la frase: “È finita l’anarchia!” non può assolutamente averla pronunciata.
Era certo stanco, ma come a1 solito padrone di sé, dice il Valitutti che lo vide nello stanzone dal 13 pomeriggio fino al momento che uscì per l’ultimo interrogatorio.
Fu sempre il Valitutti a sentire, poco prima della caduta (un quarto d’ora o mezz’ora prima, non sa precisare) dei rumori che l’avevano messo in agitazione, “come qualcosa che cadesse o degli oggetti che si urtassero insieme.” Allora era stato bene attento se per caso nel corridoio passasse qualche funzionario, ma non aveva visto nessuno, nemmeno un sottufficiale. Fino al momento in cui (era già avvenuto il cambio della guardia, doveva essere mezzanotte), udì dei passi concitati, udì gridare una frase in seguito alla quale lui chiese chi mai fosse caduto dalla finestra, e allora venne preso per le spalle da cinque uomini e portato in un’altra stanza.
“Non capisco perché l’abbia fatto.” gli aveva detto di lì a pochi minuti il Calabresi, così precisando: “Lo stavamo interrogando scherzosamente sul Valpreda” (ma come? era dunque presente all’interrogatorio? E chi mai un quarto d’ora dopo lasciò capire ai giornalisti che in quella stanza si stava scherzando?). E, tanto per non smentirsi, il brigadiere Panessa invece: “Se l’ha fatto, avrà avuto i suoi motivi: era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto.” Tutto qui il necrologio per il Pinelli, riecheggiato dopo dal questore, che, interrogati i suoi uomini, parla coi giornalisti.
Battaglia quindi nelle udienze a cavallo tra la fine di novembre e i primi di dicembre, sul fatto di citare o meno l’ex questore Guida, l’on. Malagugini, gli anarchici Faccioli e Braschi. La difesa di Baldelli esige questi testimoni: ma alla loro audizione Lener si oppone con violenza, adducendo i motivi legali già esposti un’altra volta (imputato in procedimento diverso ma connesso con questo qui Guida, testimone nel processo a carico di Guida l’onorevole, imputati in altro processo i due anarchici); e a lui si associa il PM.
Repliche vibrate della difesa, sostenuta tanto da argomenti di legge come da ragionamenti di buon senso (“Forse che una volta sulla pedana si offuscherebbe l’onore del Questore?” chiede l’avvocato Gentili. “Ma è solo come testimone che verrebbe sentito, in qualità di dirigente della questura che deve riferire su fatti accertati da lui.” Eppure il suo legale evidentemente teme che, come Calabresi, anche il questore, una volta in aula, finisca col fare la figura dell’imputato).
Allo stesso modo non si vogliono sentire i due anarchici detenuti Braschi e Faccioli, che dovrebbero rispondere sulle violenze che dicono d’aver subito in questura, tali da costringerli a firmare delle false confessioni. Sulla questione deciderà il tribunale. Una cosa ormai è chiara e tangibile: che una volta di più la verità fa paura.
Fa paura al punto che a una settimana di distanza il tribunale ribadisce quel che aveva già implicitamente affermato la Procura della Repubblica e l’ufficio istruzione milanese, cioè che la polizia può far tutto quello che vuole e i cittadini possono solo protestare (entro certi limiti, s’intende).
Il tribunale si chiude in camera di consiglio per ben due ore ed ecco il risultato: il Guida non può essere citato per la ragione che si è detta, cioè perché imputato in un procedimento connesso a quello in corso (benché per tale imputazione Caizzi abbia già chiesto per lui il proscioglimento con formula piena); i due anarchici nemmeno, perché non possono essere imputati nei processi degli anarchici e testimoni qui. Quanto all’on. Malagugini, non metterà piede in aula nemmeno lui, non solo perché testimone nel procedimento contro Guida, ma, ecco un passo avanti, perché potrebbe anche essere imputato a sua volta per “aver istigato o determinato l’allora questore a violare il segreto istruttorio.” (Assurda e minacciosa ipotesi ripresa tale e quale dagli argomenti della parte civile.)
Toccato con mano dunque quali sono i diritti dei questori, si confrontino ora con quelli della famiglia Pinelli: non le garanzie di legge quando arrestano lui, non la partecipazione dei familiari all’istruttoria sulla sua morte; non la possibilità di ricorrere contro l’archiviazione, non la condanna del Guida per diffamazione e quindi la riabilitazione ufficiale del loro caro, non infine il processo pubblico che oggi si celebra soltanto perché altri cittadini redattori di “Lotta continua,” accusando d’assassinio il Calabresi, hanno tirato per i capelli quest’ultimo perché sporgesse querela. Il diritto dei Pinelli dunque? Uno solo: star buoni in un angolo, piangere e tacere.
E così malinconicamente commentano i difensori: “È con profonda amarezza che dobbiamo constatare che ha degli insospettati limiti il ripetuto impegno del tribunale ad accertare la verità sulla morte di Pinelli! ”
Mentre a sbugiardare ancora una volta il questore e ì suoi accoliti arriva subito dopo il medico Nazzareno Fiorenzano, che, di guardia quella notte al Fatebenefratehi, prestò le ultime e purtroppo inutili cure all’anarchico morente. Dopo aver raccontato questi suoi sforzi, egli afferma testualmente che tanto i carabinieri e i poliziotti di scorta al Pinelli in ospedale, come poi il questore Guida in persona, rifiutarono di fornirgli le generalità del ferito sostenendo che non le sapevano. Che alle sue domande sul come fosse avvenuta la caduta, quelli avevan risposto che nel corso di un interrogatorio, all’anarchico era stata contestata precisa imputazione (vale a dire la falsa confessione di Valpreda); che allora egli aveva esclamato: ” È la fine dei Movimento! ” e si era gettato dalla finestra. Che inoltre il questore gli aveva raccomandato di fare ogni sforzo per salvare il ferito, in quanto questi era “assai importante” per le indagini sulla strage di piazza Fontana.
All’aria quindi, anche attraverso questa testimonianza, la tesi sostenuta in un secondo tempo dal coro di funzionari che la famosa frase senza conseguente suicidio fosse stata pronunciata quattro ore prima. Non solo, ma cade così anche la dichiarazione dell’appuntato Antonino Quartarone, segretario di Allegra, che aveva affermato di essere andato anche lui all’ospedale e di essere rimasto nella stanza (lei Pronto Soccorso fino alla morte del Pinelli “per fornire le generalità del ferito.” Ebbene, non aveva fatto niente di simile: il medico era riuscito a saper il nome dell’anarchico soltanto da una giornalista arrivata lì a prender notizie, precisamente dall’autrice di questo libro.
Chiaro che i poliziotti hanno mentito: ma il PM Guicciardi non chiede nemmeno un confronto, e il presidente 13iotti, che ha già ammonito il teste ad attenersi ai fatti (unico monito rivolto finora ai testimoni), perfino un tantino seccato, chiede al medico: “Ma chi precisamente le ha detto le cose che ci ha riferito?” Risposta delle più calme: “Il dottor Guida che conoscevo di vista, e che mi fece chiamare, e gli accompagnatori giunti prima di lui, che usarono quasi le stesse parole.”
Ma ancora non basta. Viene portato in aula un documento della Procura della Repubblica, il quale conferma che la convalida del fermo (mai segnalato) del Pinelli fu chiesta dalla questura alla Procura il 14 dicembre, e cioè due giorni dopo che l’anarchico era stato prelevato, e un giorno e mezzo prima che morisse; e quindi che il fermo era illegale. Era stato quindi fatto un rapporto alla Procura generale di cui la Procura della Repubblica non conosce l’esito. E la Procura generale, benché invitata ormai da dieci giorni dal tribunale a farne sapere i risultati, non ha ancora risposto. Allo stesso modo non ha risposto il ministero degli Interni circa quell’inchiesta amministrativa sulla morte di Pinelli (quel tale Catenacci che non interrogò nessuno dei testi oculari).
Ancora l’esibizione di un documento da parte dei difensori Gentili e Guidetti Serra: un parere tecnico firmato dai professori Benedetto Terracini, libero docente di anatomia ed istologia patologica di Torino, ed Enrico Turolla, libero docente di anatomia ed istologia patologica e primario delle stesse specialità all’ospedale di Legnano, sull’accertamento medico-legale compiuto sul cadavere di Pinelli, nel corso dell’inchiesta di Caizzi, e finita con l’archiviazione. I professori affermano che quell’accertamento è, assolutamente insufficiente per stabilire le cause della morte, e ciò perché il magistrato pose i termini in modo equivoco, perché gli esami furono incompleti, i risultati lacunosi e contraddittori, perché non è stato approfondito l’esame di una lesione riscontrata alla base del collo (quella che diede origine all’ipotesi del colpo di karaté), e perché le conclusioni favorevoli alla tesi del suicidio erano del tutto infondate. Per questo i difensori si accaniscono nel chiedere una nuova perizia, in particolare per stabilire se il Pinelli, quando precipitò dalla finestra, era già in stato di incoscienza il che evidentemente escluderebbe il suicidio. (Né vengon nascoste le difficoltà di una nuova perizia completa dopo tanto tempo e su reperti selezionati.) Al tribunale comunque la risposta.
Intanto un anno è passato dalla morte di Pinelli. Il penoso riassunto di quanto da allora è successo vien esposto in modo più che esauriente da Pier Luigi Gandini sull’ “Unità,” mentre sempre il 16 dicembre sul “Giorno,” per iniziativa del Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e contro la repressione, esce un’intera pagina di annunci funebri in memoria del ferroviere. Oltre alla famiglia ricordano e commemorano la vittima innocente una quantità di giornalisti, appunto i compagni del morto, infinite sezioni dei partiti socialisti, comunisti e psiuppini, professori, architetti, magistrati e insegnanti democratici, organizzazioni di partito, nuclei aziendali, gli amici del “Torchietto,” intere redazioni di riviste avanzate, cattoliche e socialiste, gruppi di assistenti sociali, gli studenti della scuola di sociologia che non vogliono dimenticare; e negli annunci ricorrono spesso le parole “rispetto, solidarietà, rimpianto, onore alla memoria, sacrificio, tragica e oscura morte, una morte che chiede di non essere dimenticata, la repressione non passerà.”
Tutta diversa la commemorazione che fa la magistratura. È proprio in quella data (16 dicembre) che il giudice istruttore di Milano deposita la sentenza istruttoria con cui assolve l’ex questore Guida dall’accusa di aver diffamato Pinelli e violato il segreto d’ufficio. Le affermazioni più assurde della sentenza sono queste: 1) Guida non intendeva diffamare Pinelli, bensì esaltarne la coerenza di anarchico che, di fronte ai gravissimi indizi, ha scelto, così signorilmente, la via del suicidio; 2) a carico di Pinelli erano effettivamente emersi gravi indizi, riassumibili in sostanza nella supposta inconsistenza del suo alibi (che viceversa era stato confermato); 3) il fermo presuppone gravi indizi di colpevolezza; Pinelli era in stato di fermo, quindi doveva essere gravemente indiziato (con questo semplice sillogismo si fa finta di non sapere che il fermo non era stato convalidato dal magistrato nei termini di legge); 4) non può esser stato violato il segreto d’ufficio perché la morte di Pinelli aveva ormai chiuso il caso. E si torna così al punto di prima, come se il processo non ci fosse mai stato, come se il PM non avesse dichiarato all’inizio l’assoluta innocenza di Pinelli, come se le testimonianze dei funzionari non fossero state tutto quell’arruffato garbuglio che sappiamo.
Gli anarchici scelgono ancora un altro modo per commemorare il compagno. In un composto corteo sfilano in duemila davanti al portone della questura gettando fiori
sul drappo nero che vi hanno steso davanti, dove c’è scritto: “In ricordo di Pinelli, ucciso dalla polizia.” Vietato a chiunque salire sul marciapiedi della questura: davanti al portone il questore con gli occhiali neri, il vicequestore Vittoria con le sue guance color peonia, il commissario Allegra che con la sua adiposa invadenza cerca di allontanare chi si avvicina un po’ troppo; e, ultimo tocco di lugubre gusto poliziesco, ecco che tra i grossi funzionari schierati lì davanti si vede che proprio quell’abete davanti al quale era caduto l’anarchico, oggi è trasformato in gioioso albero di Natale, tutto luci e colori per la ricreazione e gli auguri ai funzionari di ogni rango.
Si sa che come niente ci si abitua alle cose più strane; eppure, mi sembra sempre un fatto dei più singolari che io mi sia quasi acclimatata in quell’ambiente sinistro, proprio del tribunale (o forse son capitata in un angolo dei più bui?), a questi continui dialoghi tra sordi, alla conclamazione ininterrotta delle bugie e delle più demenziali decisioni, ai vari e aggrovigliati metodi per soffocare lo scandalo, per insabbiare la verità, allo spettacolo dei generosi continuamente battuti dai meschini insolenti. Ed è certo soltanto ingenuità la mia, ma ormai è da troppo tempo che son dentro il labirinto giudiziario per non rendermi conto che in quei tortuosi meandri la giustizia è un lussò soltanto.
Mi sono andata abituando anche al gergo del tribunale; quello legale, fatto apposta per rendere oscura qualsiasi decisione, anche delle più semplici; quello dei verbali, particolarissimo, che anch’esso non chiama mai le cose col loro nome, e quello del giudice presidente che, siccome ha letto verbali tutta la vita, detta al cancelliere le frasi dei testimoni tutte tradotte a modo suo, e con un tantino di eleganza in più, in confronto a come parlano i subalterni.
“Avevo l’abitudine,” dice semplicemente il teste o l’imputato, ed “ero uso” traduce il giudice. “Mi tornarono a dire di seguirli” diventa “un’altra volta mi rivolsero siffatto invito.” Quindi: “tornavano sempre a dirmi la stessa cosa” è “mi rivolgevano sempre il suaccennato discorso.” Mentre “fatto com’era ce l’avrebbe detto di certo,” viene dettato “data la sua essenza non si sarebbe astenuto dal farcene partecipi..” “In quel periodo” si trasforma in “in quel torno di tempo,” “quando” è sempre “laddove”; “misi dentro la testa” è “allora feci capolino” (anche se si tratta di on muscoloso brigadiere col testone); “mentre riponevo le carte” si trasforma in “mentre accudivo al riporre,” e “per trovarlo” è tradotto “al fine del rintraccio.”
Cosa fa poi un poliziotto quando torna in questura? “‘ Rientra nella sua sede naturale.” Quando guarda l’ora? “Compulsa l’orologio.” Quando va al gabinetto? “Si porta nel locale adibito a toilette.” Qualcuno arriva in un posto? “Guadagna il locale.” Se mangia un panino? “Lo consuma.” Se mette in dubbio l’autenticità di una firma? “Non riconosce la paternità della grafia.” Quando un infermiere tenta la prima rianimazione di un moribondo? “Esibisce un lieve massaggio.” Quando un altro crede di aver sentito l’urto fra due macchine (e invece è il tonfo di un uomo che sta cadendo dalla finestra)? “Pensai a due mezzi che avesser colliso.” Quando uno non ricorda, “non vale a precisare”; quando va dietro a un altro?. “Si adopera per seguire”; se uno parla non fa che “comunicare alcunché al riguardo.” Si vuol cominciare a interrogare? Allora “si dia la stura alle domande.” Mentre la minaccia “di cambiar la sede al processo” è “uscir dal naturale alvo dell’aula:”
E ora attenzione a quest’altro bel pezzo di prosa (legale): “…Per un’erronea valutazione da parte dell’organo di polizia del termine di decorrenza dello stato di fermo si era determinato un ritardo nella possibilità di addivenire al perfezionamento formale del relativo provvedimento. Per questa irregolarità, vagliati i chiarimenti di polizia e avuto riguardo alle eccezionali circostanze in cui l’ufficio di polizia si era trovato a dover operare, si è ritenuto giustificato un richiamo all’ufficio stesso.” Un esempio di oscurità e giravolte varie, che cade proprio a proposito, perché letto in aula dal giudice Biotti durante l’udienza del 18 dicembre, e tratto da un documento che anche lui affossa, insabbia e dichiara non responsabili chi aveva invece fior di pesanti responsabilità: è il procuratore generale dottor Domenico Riccomagno che, sollecitato a far conoscere l’esito della sua inchiesta, risponde finalmente insieme col ministero degli Interni, che da tempo era stato sollecitato anche lui.
Secondo il ministero degli Interni e la Procura generale di Milano la morte di Pinelli è da considerarsi un evento in cui la polizia non ebbe alcuna responsabilità, nemmeno per omessa vigilanza; e il fermo illegale è stato un semplice errore di calcolo da parte dei poliziotti. Cosí hanno risposto questi altissimi organi di stato, e la conclusione? Pinelli si è suicidato. L’ha mandata a dire Restivo, attraverso quel tale ispettore generale del ministero, che si diceva fantomatico, perché nessuno fuori di Allegra l’aveva mai visto né sentito, ma ora ne sappiamo anche il nome: “Elvio.”
È proprio Elvio Catenacci che ha potuto accertare la mancanza di responsabilità dei funzionari di questura nella morte di Pinelli, e quel che è strano, senza neppure aver interrogato gli stessi agenti testimoni oculari della morte. (Erano stati loro, una volta smentiti dal tribunale, a dire di non esser mai stati interrogati dal Catenacci, anzi di non sapere nemmeno che esistesse un’inchiesta amministrativa.) A sentire Riccomagno, invece, tanto Guida che Allegra e Calabresi avevano sbagliato a calcolare i termini del fermo e non avevano potuto quindi “perfezionarlo.” (Strano invece che Allegra avesse negato l’esistenza del fermo, sostenendo che era “un invito,” e solo il 14 dicembre la stessa questura aveva chiesto alla Procura la convalida del fermo, che non esisteva.)
La difesa di Baldelli chiede che siano acquisiti gli atti delle due inchieste, compresi i verbali degli interrogatori, che non esistono (e gli avvocati insistono proprio per questo), quindi si riserva di chieder nuovamente la citazione di Guida come testimone, dato che se prima era imputato e non poteva,, adesso invece è assolto (ma la sentenza non è ancora definitiva). Si può immaginare la reazione di Lener, che in fondo dev’esser convinto anche lui del suo compito imperioso: difendere il vero imputato qui dentro, cioè la questura. Perciò, quasi ringhiando, si oppone.
Ministero e Procura avvalorano 1a tesi del suicidio, ma nella stessa udienza il tribunale ordina una nuova e sia pur ristretta perizia medico-legale per accertare le cause della morte. Nonostante le asserzioni che vengono dall’alto, qualche dubbio infatti par che turbi le coscienze dei giudici. Non arrivano ancora a decidere una perizia vera e propria su quel che rimane di Pinelli nella tomba, ma nominano tre professori universitari, che accertino se la macchia ovulare riscontrata a suo tempo sul collo del Pinelli sia la conseguenza del rimbalzo del corpo sul cornicione o invece- di una violenza precedente la caduta. E si aspetterà un pò più di un mese per convocare i periti scelti dal tribunale, cioè il professor Aldo Franchini di Genova, il professar Francesco Introna di Padova, il professor Vittorio (Chiodi di Firenze, per farli giurare e dar loro i quesiti. Come consulenti di parte da convocare per quello stesso giorno e poi da risentire ancora un mese dopo, la difesa I, si é scelto il professor Enrico Turolla, dell’ospedale di Legnano, autore, come si ricorderà, di un “parere” duramente critico nei riguardi dell’accertamento ordinato a suo tempo dal PM conclusosi per il suicidio, e il professor Ideale Del Carpio, dell’università di Palermo, noto per aver messo in dubbio con i suoi esami la versione ufficiale della morte del bandito Giuliano.
Meglio che niente, dicono gli ottimisti di questa decisione che dai più viene considerata invece un mediocre compromesso: sono certo illustri i professori convocati, ma la loro perizia si ridurrà a un’inutile commedia; eccolo chino sulla carta questo trust di cervelli incaricato di far la perizia soltanto sui verbali, le fotografie del cadavere, le valutazioni dei primi esperti frettolosi.
L’aula viene abbandonata per un bel po’, ma di Pinelli, della sua morte, degli oscuri intrighi che ci son sotto, della gente che gli è stata intorno nelle ultime ore di vita (ricordare anche la deposizione di Mucilli: “Violenze morali al Pinelli? Ma che so, un ricattino; non so, negargli una sigaretta, negargli da bere se vuole. Un ricattino, non so, se tu non mi dici questo noi ti incastriamo”), si continua a parlare e a discutere: troppi sono i fatti che ci riportano alla memoria l’ambiente e il personaggio. (Senza contare le continue barzellette su Calabresi. Dicono che stanno per trasferirlo a Pescara, e che sulla facciata della questura della cittadina hanno scritto a grandi lettere: “Qui non ci servi, il tuo ufficio è al primo piano.”) Ma non lo trasferiscono, spera anzi in una promozione, e non si illude, come si vedrà.
Altri fatti avvengono che hanno qualcosa in comune col nostro caso. Il 12 dicembre 1970, a un anno preciso dalla strage, muore lo studente Saverio Saltarelli, la cui morte viene annunciata al paese dal ministro Restivo come provocata da “arresto cardiocircolatorio” (mentre due giorni dopo cambierà annuncio: è morto invece per schiacciamento di cuore ad opera di corpo contundente, cioè candelotto della polizia sparatogli in pieno petto). E come succede ormai con regolarità (vedi Ugo Paolillo a cui nel dicembre ’69 vien tolto il processo per portarlo a Roma, e anche lui seguiva l’istruttoria con intelligente prudenza; vedi il giudice Pulitanò che viene escluso dal processò “Calabresi-Lotta continua”), anche il sostituto procuratore Guido Viola che si occupa del caso Saltarelli con estrema coscienza, adesso con disinvoltura pari alla mancanza di forme, viene sostituito col collega Guido Pomarici. Decisione gravissima presa del procuratore-capo De Peppo. E perché? Perché Viola appartiene a “Magistratura democratica” e ha le idee troppo aperte, mentre Pomarici è quello che fece incriminare di falsa testimonianza i due testi che videro un giovane fascista sfilarsi un coltello dalla manica e aggredire uno studente in piazza Santo Stefano. (Dopo un po’, forse data “la pressione dell’opinione pubblica” si richiama il magistrato così bruscamente licenziato, ma solo per metterlo in un cantuccio, affidandogli cioè soltanto gli accertamenti peritali sulla morte del Saltarelli, mentre il Pomarici si occuperà delle testimonianze e di tutta l’istruttoria.)
Da metà dicembre inoltre continuano affollatissime nel suo capannone le repliche della commedia di Dario Fo dal titolo Morte accidentale di un anarchico, nella quale si racconta un fatto veramente accaduto in America nel 1921, quando un anarchico di nome Salsedo, un emigrante italiano, precipitò da una finestra del quattordicesimo piano della questura centrale di New York. Allora il comandante della polizia dichiarò trattarsi di suicidio. Poi durante mia prima inchiesta e quindi una superinchiesta da parte della magistratura, si scoprì che l’anarchico era stato letteralmente scaraventato dalla finestra dai poliziotti durante l’interrogatorio, così spiega Fo nel prologo. Quindi “al fine di rendere più attuale e più drammatica la vicenda, ci siamo permessi di mettere in opera uno di quegli stratagemmi ai quali spesso si ricorre in teatro. Cioè a dire: abbiamo trasportato l’intera vicenda ai giorni nostri, e invece che a New York l’abbiamo ambientata in una qualunque città italiana… facciamo Milano. È logico che per evitare anacronismi, siamo-stati costretti a chiamare commissari i vari sceriffi, questori gli ispettori, e cosí via.”
Così, anche chi si è tanto malinconicamente appassionato al caso Pinelli, nel capannone de “La Comune” finisce a ridere, almeno nella prima parte, come di raro gli capita, tante sono le gags di questo spettacolo che è una vera e propria farsa, per com’è bravo Fo nella parte del matto che si finge il superispettore venuto da Roma a cercar di veder chiaro nella faccenda del suicidio dell’anarchico. E quando conta i verbali davanti al signor questore dice: “venticinque, ventisei, ventisette, Ventotene,” quando incontra il giovane commissario sportivo dal maglione dolcevita, gli chiede subito perché non si fa curare di quel tic fastidioso (quel massaggiarsi di continuo la mano destra), quindi mette in opera tutto il ben noto rituale della questura, inganni, trappole, saltafossi, trabocchetti, violenze morali, ricattini, per “incastrare” a l’oro volta questore e commissario., per farli giocare a scaricabarile e far loro ammettere delle enormità nel tentativo di ricostruire la notte del tuffo, facendogli giustificare la retrocessione dell’ora, le tre scarpe, il colpo di karaté, e infine il raptus. Finché riesce a condurli addirittura sul davanzale della finestra, convincendoli che per loro è meglio, indiziati come sono, buttarsi di sotto.
Ambientata nel ’21 soltanto per gioco, la commedia non fa che alludere dunque alle vicende di adesso, vi si trova “il commissario Cavalcioni,” vi si leggono le lettere dal carcere degli anarchici picchiati, -non manca “l’opinione , pubblica che preme,” la migliore amica della polizia che è la magistratura, i vecchi imbecilli che spiegano cos’è il raptus, e avanti avanti fino allo smascheramento del matto e al rientro nei ranghi, dopo tanti choc, dei poliziotti colpevoli.
Alla fine di marzo comincia invece il processo contro i giovani anarchici imputati di diciotto attentati oltre a quelli del 25 aprile e che sono in carcere da quella data: e qui di udienza in udienza, sfumata la chiave satirica, ma non troppo, tornano a far capolino, come direbbe Biotti, sempre gli stessi personaggi e sempre affaccendati in manovre ambigue e fraudolente.
Identiche le costanti, tanto in questo procedimento come nei due grandi “gialli” nazionali venuti dopo, i casi Pinelli e Valpreda. Qualcosa scoppia, e son gli anarchici a venir subito acchiappati, anche se contemporaneamente e subito dopo si moltiplicano gli attentati fascisti. Si acchiappano gli anarchici e restano dentro, anche quando nel dicembre ’68 giornali come 1`Observer” e il “Guardian” pubblicano un documento segreto inviato al ministro degli Esteri di Atene (e poi ripreso dall’ Espresso”), in cui s’informa Papadopoulos sui risultati della campagna di provocazione che da tempo il governo greco sta attuando in Italia con la collaborazione dei gruppi fascisti. La campagna di provocazioni va benissimo, “le azioni previste,” vi si legge, “è stato possibile realizzarle solo il 25 aprile. La modifica dei nostri piani ci fu imposta dal fatto che era difficile entrare nel padiglione FIAT. Entrambi i fatti [cioè anche le bombe della stazione] hanno prodotto effetti considerevoli.” (“Ma che documento è mai questo?” si chiederà il presidente Curatolo. “I giornali io non li leggo mai.”)
E come se non bastassero le prove che almeno in parte scagionano gli attuali detenuti, ecco, proprio di pochissimo tempo prima, il capo d’imputazione contro l’editore Giovanni Ventura, il procuratore Franco Freda di Treviso, e Aldo Trinco. “Per aver in concorso con altri, al fine di incutere pubblico timore, fatto esplodere in Milano e Torino ordigni esplosivi nell’aprile-maggio ’69 e in varie località contro le ferrovie nella notte fra l’8 e il 9 agosto.” (Ma niente paura: siccome si tratta di fascisti, la loro detenzione è delle più brevi.)
Se le piste seguite tanto il 25 aprile che il 12 dicembre sono le stesse, non cambiano nemmeno i protagonisti. Ecco, primo fra tutti, il giudice Amati. Sappiamo che è lui che, secondo il “Corriere,” il 12 sera mette la polizia sulle tracce degli anarchici e poi fa arrestare Valpreda il 15 all’uscita dal suo ufficio: è lui che deposita quella perla di verbale d’archiviazione e accoglie dal PM la richiesta d’archiviazione della querela contro Guida, finché dopo due mesi ne chiede 1′assoluzione con un documento che non sta in piedi. È sempre Amati che imbastisce 1′istruttoria del 25 aprile, su prove, testimoni, riconoscimenti e perizie, destinati a crollare uno dopo l’altro, finché, a furia di nullità e buchi procedurali, si riduce letteralmente a brandelli: è dalle sue istruttorie che sbucan fuori le lampade Tiffany (sono gli anarchici a farle, è in casa di chi le fa che si trovano i fili di stagno, i saldatori e i famosi vetrini che diventeranno veri e propri capi d’accusa). È lui che mette in prigione quelli che, a suo personale parere, sono i due capibanda dinamitardi, cioè i coniugi Corradini, poi scarcerati dopo sette mesi per mancanza di indizi.
Due i pilastri su cui si regge questa istruttoria traballante come quella del Pinelli: 1) le perizie grafiche sui volantini trovati sui luoghi delle bombe e attribuiti al Faccio li e al Pulsinelli; 2 ) l’implacabile accusatrice, la supertestimone Rosemma Zublena. Ma le perizie risultano assolutamente negative, e la Zublena presto si rivela una povera diavola affetta da delirio persecutorio, definita da. molti una spia della polizia, al punto che se ne chiede l’incriminazione come teste falsa e reticente. (Calabresi l’ha interrogata mandandola poi da Amati, che la rispedisce alla polizia anche quando è lui che inizia gli interrogatori.)
Nell”`affair” che scoppia adesso c’è anche il solito perito balistico Teonesto Cerri che diventerà ancora più noto per la sua brillante trovata di fare esplodere la bomba alla Banca commerciale. Il Calabresi l’abbiamo già intravisto a proposito di Zublena, ma qui dentro ha molte altre brucianti responsabilità. È lui che, sostituendosi ai magistrati, va in carcere a far fare perizie calligrafiche ai, detenuti ed estrae il Braschi da San Vittore per fargli riconoscere ad ogni costo la cava fatale: è lui, che notifica i mandati di cattura rabbiosamente emessi da Amati dopo l’ordinanza della Corte d’Appello. È lui che insieme ai suoi tre fedelissimi percuote e minaccia Faccioli negli interrogatori, è lui che, secondo le deposizioni e le lettere degli anarchici, non lascia dormire né mangiare il Faccioli per tre giorni e tre notti e con un pretesto lo porta fuori Milano in macchina per farlo scendere ed ordinargli di correre avanti, mentre lui vien dietro a fari spenti (“Possiamo romperti le ossa come niente, e poi dire che è stato un incidente…”); é lui che, sempre secondo le deposizioni degli .imputati, picchia Braschi minacciando di imprigionare sua madre e di infilargli della droga in tasca; è in questo periodo che lo chiamano “i1 comm. Finestra”; è sempre Calabresi che mette la sua firma alla deposizione della Zublena “dimenticandosi” di farla firmare da lei: la deposizione riguarda le responsabilità dinamitarde degli imputati Corradini che in dibattimento la Zublena dichiarava di non conoscere; ed ecco che vien chiesta la incriminazione di Calabresi per falso ideologico e subornazione di testimoni.
Poteva mancare Allegra in questo triste pasticcio? Naturalmente no: é Allegra che nel giugno del ’69 trasmette al giudice il verbale firmato da Calabresi e non dalla Zublena, un verbale che tra l’altro ha causato l’arresto del Pulsinelli, ma che è scomparso dagli atti dopo la scarcerazione dei Corradini, quindi solo per 1′o.stinazione della difesa, è stato ritrovato e consegnato al presidente. Del resto già il 24 aprile, secondo una sua precisa asserzione, Allegra sapeva chi avrebbe arrestato per le bombe all’indomani, cioè gli anelli più deboli della catena di sinistra. “Non si è potuto fare questa azione prima del 25 aprile,” dice il rapporto greco, di cui il giornalista inglese Leslie Finer viene a Milano a confermare l’autenticità, ma il 2 5 sono provvidenzialmente a Milano Faccioli e Della Savia. Mentre gli attentati sui treni avvengono proprio la notte di agosto in cui Pinelli va a Roma, mentre il 12 dicembre scoppiano le bombe alla banca, ed è quando Amati chiama a Milano Valpreda; questo il collegamento che ormai sono molti a fare, riunendo un processo all’altro, per spiegare perché e quando è cominciata la strategia della tensione.
Sempre presenti inoltre là dove si picchia e si percuote, i brigadieri Mucilli, Panessa e Mainardi, tutti promossi marescialli nella primavera del ’71: è Panessa che con un pugno spacca un labbro al Faccioli. In questo processo emerge che anche Mucilli ha mentito e non è stato da meno il Panessa: per il foglietto trovato in tasca al Faccioli esistono infatti tre verbali e cinque versioni diverse.
Così si sgretola il processo degli anarchici, che su richiesta del PM sono rimessi tutti in libertà, e intanto si ottiene un buon successo nel dibattito Pinelli. Dall’incontro dei sei periti che hanno esaminato le carte e le fotografie, è venuto fuori ben poco: secondo i periti della parte civile 1a famosa macchia ovulare dev’essere soltanto una macchia dovuta alla lunga permanenza sul tavolo dell’obitorio, mentre quelli della difesa non escludono che possa essere il risultato di un colpo di karaté. Così (ed è passato un anno e mezzo dal 15 dicembre), all’ultima richiesta degli avvocati Gentili e Guidetti Serra, la prima sezione del tribunale decide che si faccia pure la perizia medico-legale completa “onde stabilire in modo incontrovertibile e definitivo com’è morto Pinelli”: insomma sia costretta a subire un pubblico controllo la tesi del suicidio, imposta dalla questura, dalla Procura della Repubblica, dalla Procura generale e dal ministro degli Interni.
Decisione che manda sulle furie l’avvocato Lener, secondo il quale una richiesta del genere mira soltanto “ad insabbiare il processo” e il sospetto di esercitare una buona dose di humour involontario non lo sfiora nemmeno. Quanto all’affermazione che al Pinelli è stata negata giustizia, “è solo frutto di una campagna di vittimismo.” Ma come facciamo a provare il nostro assunto dicono gli avvocati della difesa se una perizia completa non è mai stata fatta? Dall’accertamento legale compiuto subito dopo la morte sono stati esclusi i consulenti della difesa, e risibile è l’affermazione che due degli esperti della Procura fossero in realtà dei camuffati consulenti di fiducia dei Pinelli: basta pensare che costoro non si recarono nemmeno sui luoghi dell’interrogatorio e della caduta, né potevano disporre di rilievi e di misurazioni sugli stessi, sulla traiettoria del corpo, sulla posizione d’arrivo ecc., non sapevano se l’anarchico fosse morto all’ospedale o in cortile, non parlarono col medico di guardia e si limitarono ad esaminare gli indumenti intimi del morto, ma non la giacca e i pantaloni che potevano recar tracce corrispondenti alle lesioni, quindi non furono chiamati a rispondere al quesito se queste ultime fossero tutte successive alla caduta o se invece qualcuna fosse precedente.
Ecco perché gli avvocati ora si ostinano a chiedere una perizia completa che abbia come base i resti della vittima, previa riesumazione, tutti i reperti che si trovano all’Istituto di medicina legale e tutti i rilievi raccolti dal tribunale. Questa perizia l’avevano chiesta in dicembre e se fosse stata ordinata allora, sarebbe già compiuta e allora avrebbe dato certo qualche risultato utile. Ma è ancora possibile disporla senza rinviare gli atti al giudice istruttore, per cui l’accusa di insabbiamento da parte della difesa risulta ridicola e offensiva.
Un’ora e mezzo di camera di consiglio, e il presidente del tribunale esce a dire che la richiesta di perizia è accolta. A un anno e mezzo di distanza, questa è senza dubbio la vittoria più grossa della difesa. E come mai, ci si può chiedere il tribunale, con a capo il presidente Biotti, ha concesso la perizia andando contro una così agguerrita parie civile, in ciò associata a1 PM? Forse perché, decidendo w0sí, il collegio giudicante ora si spoglia di un caso che cominciava a scottare un po’ troppo. Di giorno in giorno diventavano infatti sempre più rischiose le richieste degli avvocati Gentili e Guidetti Serra: cercar di sapere per esempio perché la questura di Milano, pur sapendo dov’era, per un mese non aveva controllato l’alibi del Sottosanti(sentito in tribunale poco prima della decisione della perizia: colazione da Pinelli la mattina del 12, andato ad incassare l’assegno, preso l’autobus per andare in casa Pulsinelli a Pero).
Si chiedeva poi di mettere a confronto il Rolandi col professor Paulucci perché si accordassero sul famoso tragitto in taxi (perché mai al professore il Rolandi aveva dato una versione diversa?). Ed era sempre la difesa a fare un’altra ipotesi: che secondo un disegno prestabilito un uomo così somigliante al Valpreda come i1 Sottosanti (lo stesso Rolandi scambierà una sua fotografia per una di Valpreda “un po’ truccata”) fosse salito sul taxi del Rolandi in piazza Napoli per andare in piazza Fontana (e sarebbe così giustificata la cifra del percorso). Continuando con le con,(letture, il Sottosanti sarebbe dunque servito soltanto per la pantomima del taxi, tanto per mettere la bomba, quanto per incastrare il Valpreda.
A perizia accordata, l’avvocato Lener ingoia amaro, anzi non digerisce affatto. Così solleva “un incidente d’esecuzione” chiedendo al tribunale di revocare l’ordinanza. Ed è una battuta a vuoto, perché, ritenendola inammissibile, solo quattro ore dopo il giudice respinge l’istanza. Più arrabbiato che mai, di lí a pochi giorni, Lener ne presenta un’altra che si dovrà discutere alla ventunesima udienza, cioè il 29 aprile. All’udienza ci vado insieme coi colleghi, ma non ha luogo. Temendo infatti di sentirsi contraddetto un’altra volta, Lener si preclude perfino la possibilità che venga messa in discussione la sua seconda istanza, e prima ancora dell’udienza, usa l’arma della ricusazione (sulla quale dovrà rispondere la corte d’Appello di li a qualche settimana).
Insomma, attraverso il suo patrono, il commissario Calabresi non vuole più che sia Biotti a presiedere il consiglio giudicante. Come andargli a dire: “Non voglio più che tu mi giudichi, perché ho scoperto che hai un interesse specifico in questo processo, comunque non sei obiettivo.” (Circostanze che se fossero state vere, avrebbero dovuto causare fin dal principio l’astensione del magistrato.)
Stupita incredulità, sorpresa smisurata. Come mai Lener, per motivi che sulle prime rimangono misteriosi, vuole allontanare Biotti a cui è legato da trent’anni di cordiale amicizia e col quale ha fatto una quantità di processi per diffamazione a mezzo stampa, che è un uomo d’ordine e persona prudentissima, noto a sua volta per essere estremamente conservatore?
E perché, mentre all’inizio tanto il PM quanto là parte civile proclamavano in coro la necessità di far luce sul caso del “povero Pinelli”; perché nel momento in cui il tribunale per la prima volta accoglie l’istanza di una perizia seria sul corpo dell’anarchico, scatta questo meccanismo di irrigidimento spropositato al punto che l’amico ricusa l’amico? Se poi, come corre voce in tribunale, i fatti su cui si basa la ricusazione (confidenze fatte da Biotti a Lener sulla conclusione del processo, telefonate compromettenti, raccomandate che scottano) risalgono a qualche mese fa, è a dir poco incredibile che un avvocato se li tenga in serbo per usarli solo quando il giudice prende dei provvedimenti sfavorevoli a lui. (Lo fanno notare gli avvocati Gentili e Guidetti Serra in una dichiarazione deposta subito dopo la ricusazione, e naturalmente ne chiedono i motivi.)
E allora l’ipotesi che viene istintiva è una soltanto:
Anche a così lunga distanza, la difesa della questura e il querelante sono presi dal panico all’idea della perizia medico-legale eseguita finalmente sul corpo e non più su foto o verbali. Ma come possono far paura quei poveri resti sotto terra da tanto tempo? “Fanno paura perché `quelli sanno,” è la laconica risposta della signora Pinelli. E perché quella vecchia volpe di Lener ha agito così pur rendendosi conto che l’accanimento nel non voler scoperchiare la tomba viene interpretato dall’opinione pubblica nel Senso peggiore, cioè come paura, coda di paglia, complesso di colpa?
Anche lui forse sa di aver fatto un passo falso, ma ceri n lo ha meditato. Può darsi che non si aspettasse una difesa così agguerrita, comunque questo è un modo per permettere a Biotti di sganciarsi dal processo e a lui di iniziare un nuovo dibattimento con chi può rimediare a una situazione già tanto compromessa. Se Biotti viene ricusato, arriva un altro presidente, e sarà più facile attenuare gli errori di prima: se non altro la perizia è evitata. La ricusazione infatti può essere l’arma estrema in un processo – in cui sono state già date ampie prove almeno di omicidio colposo (fermo illegale, piccolezza della stanza, violenze psicologiche pesanti ammesse dagli stessi funzionari, e poi interrogatori notturni, costernanti contraddizioni, oltre alla testimonianza di Valitutti).
Ma a questo punto, l’assommarsi dei vecchi fatti coi nuovi più straordinari (ancora un commissario di polizia che querelando in modo arrogante un direttore di giornale, è poi costretto ad una difesa affannosa e disordinata, e infine, di fronte all’evidenza dei fatti, disperatamente si oppone alla prova-chiave, che potrebbe essere l’apertura di una tomba), provoca uno speciale atteggiamento nella maggioranza consapevole. A chi cioè sta a cuore che il nome e il mistero della morte di Pinelli non siano dimenticati, non interessa più tanto come andrà a finire il processo, come sarà la sentenza, e se faranno o no la perizia.
Per costoro, secondo il tribunale della loro coscienza, oggi il processo potrebbe considerarsi chiuso, perché è raggiunto lo scopo politico di chi ha analizzato con attenzione ed esercizio di logica il comportamento della questura. Se dal punto di vista giuridico, infatti, attraverso quel che è emerso finora nessuno può negare che sia provato quanto meno l’omicidio colposo, adesso è altrettanto chiaro che alla riesumazione del corpo la questura si oppone perché di lì potrebbe emergere anche la prova del dolo. Quindi per molti di quanti hanno seguito tutto fin dal principio con intensa partecipazione, il processo appare finito, con totale successo della difesa e decisa sconfitta della polizia.
A Musocco non sarà aperta la tomba di Pinelli? Una prova in più, se ce ne fosse bisogno, di come ha indovinato la vedova nel far riprodurre sulla lastra quella lunga epigrafe di Spoon River in memoria degli anarchici impiccati a Chicago. Ed eccone il brano centrale:
E poi perché, essendo donna, non mi occupavo di altri argomenti, dei travestiti per esempio (di cui era stata fatta una recente retata e gli avevan requisito due armadi di parrucche), di rapimenti di ragazzi, dei problemi della scuola? Grazie, mi dà delle idee, avevo risposto al questore Allitto; ma non fu l’incontro con lui a farmi smettere di occuparmi del processo Pinelli:
Un processo che va avanti a singhiozzo; e il solito oscuro presepio ogni volta si ricompone nell’aula disadorna della prima sezione: ogni volta ci si aspetta che vada a posto qualche pezzo di questo gran gioco di pazienza, e per la verità raramente si è delusi, perché ogni volta c’è un angolino che a un certo punto si schiarisce, l’atmosfera c’è tutta, e i dettagli inediti continuano a spuntare da ogni parte in attesa che si metta a fuoco la scena centrale. Ogni giorno insomma c’è qualcosa da imparare.
Attraverso i vari testimoni ora si vede quello che potrebbe far da sfondo al gioco di pazienza. Ecco quel che succede a chi è fermato o solo “invitato” in questura. Il panino con la mortadella per cena verso le dieci di sera; il sonno che manca (“se ci appisolavamo nello stanzone, venivamo subito svegliati da un agente con la frase: “questo non è un dormitorio,” dice Sergio Ardau, e: “di lì a poco ebbi modo di sentire il dottor Pagnozzi che dava disposizioni atte a tener sveglio il Pinelli tutta la notte,” depone il Valitutti; quindi la semibonaria intimidazione: “Se ci dici qualcosa su Valpreda, potrai star tranquillo, non ti darci-no più fastidio,” sempre secondo l’Ardau.
Col permesso degli agenti, il fermato può anche avere un caffè attraverso quella macchina che sta proprio nello stanzone dove lui è in sosta: e a proposito di caffè da qual
che giorno si è saputo cosa vuol dire andare a berne uno in compagnia di un funzionario della questura. “In quell’occasione l’ho invitato a prendere un caffè con me, e al bar abbiamo avuto uno scambio di idee,” aveva detto nella sua prima deposizione il commissario Calabresi, ricordando l’incontro con Pinelli in piazza Aquileia l’8 settembre 1969, durante la manifestazione a favore degli anarchici detenuti a San Vittore.
Un incontro che aveva impensierito Pinelli, ha dichiarato invece al tribunale il suo amico Cesare Vurchio, che si era trovato con lui un paio di giorni dopo. Perché a un certo punto a Pinelli si era avvicinato Calabresi chiedendogli di sciogliere la manifestazione. Non poteva scioglierla, dato che non era stato lui ad organizzarla, aveva risposto il Pinelli; in più i manifestanti avevano la sua solidarietà. “Pinelli, stai attento,” aveva ribattuto Calabresi, “ché alla prossima occasione te la faccio pagare.”
Ma il commissario non avrebbe potuto fargli niente, era stata la replica, lui era a posto con la coscienza, non aveva niente da nascondere. Finché con la frase: “Ricordati che noi ti possiamo metter dentro con una scusa qualsiasi, per esempio se attraversi col rosso,” era finito lo “scambio di idee.” E questa volta Pinelli aveva l’aria preoccupata: gli pareva che Calabresi fosse diventato un suo persecutore.
Né si era limitato a minacciarlo Calabresi, perché ci si era messo anche il capo della Politica, Allegra. È il 10 dicembre dell’anno scorso, mancano cinque giorni alla sua morte, e nella sede del circolo Ponte della Ghisolfa, al compagno Ivan Guarneri, Pinelli appare pensieroso: ha l’impressione che la questura ce l’abbia con lui. Ed è più che un’impressione la sua, in quanto è stato Allegra a dirgli: “Caro Pinelli, fra poco t’incastreremo per bene.” Nella sua deposizione, il Guarneri si ricorda benissimo questa frase, mentre è meno sicuro dell’aggiunta: “Una volta per sempre. ”
Sono questi i gravi fatti venuti a galla nelle udienze di novembre, ed eccone altri, non meno sconcertanti. Risulta chiaro infatti che, oltre a non ammettere periti di parte
all’autopsia, a non accorgersi che è infedele la piantina allegata agli atti, a non prendere nessun provvedimento “cautelativo” anche temporaneo, nei riguardi dei funzionari di polizia implicati nell’affare e a chiedere 1′assoluzione del questore Guida per mancanza di dolo, il sostituto procuratore Caizzi non verbalizza volentieri alcune testimonianze.
Non deve forse insistere la madre del Pinelli perché egli metta a verbale la frase che, ripetuta due volte da Allegra, l’ha molto colpita in questura il giorno 15 durante
la visita al figlio cioè: “contro di lui non c’è niente, ma abbiamo forti pressioni da Roma”? Solo perché lei lo esige, in fondo vengono aggiunte le due righe al riguardo. (Del resto, per quel che mi concerne, anch’io avevo dovuto fare aggiungere alla fine del mio verbale d’interrogatorio, quanto era stato sorvolato al momento giusto, cioè che il tenente Lo Grano era stato l’unico, a mio parere, a sembrare un po’ turbato la notte fra il 15 e il 16.) Quindi è sempre lo stesso magistrato a non dare importanza a quel che gli fa notare Pasquale Valitutti durante il primo sopralluogo in questura, che cioè quel giorno nella stanza dei fermati non era più a1 suo posto la scrivania alla quale lui sedeva la notte del 15, ed eccone ancora l’ombra sul muro. Quella natte la scrivania stava proprio di fronte all’apertura oltre la quale era possibile veder bene il corridoio e la gente che passa di lì. Ma nel giorno del sopralluogo appare spostata quasi completamente contro il muro, così da ridurre un bel po’ la visuale.
Altri interrogatori, quindi altri brandelli da cucire insieme, altre testimonianze e nuovi ambienti su cui piove un po’ di luce. Un elenco di malinconiche telefonate: Pinelli dalla questura, la signora Pinelli in questura: “Stai calma che qui ci sto poco; no, non ancora, mi chiedono di gente che non conosco; adesso pare che non mi confermino l’alibi” (mentre da dietro qualcuno zittisce). E poi l’avvocato che avverte che forse lo porteranno a San Vittore, un agente che suggerisce la scusa per le ferrovie, il commissario che chiede il libretto chilometrico, fino all’ultima ben nota e tragica telefonata della signora Licia a Calabresi all’una di notte del 16: “È vero quel che mi dicono? E perché non mi ha avvisata?” le due domande, e la canagliesca risposta del commissario indaffarato.
Poi un elenco di visite scoraggianti; la mamma in questura la mattina dell’ultimo giorno (“Mamma, io ho…”) e l’agente: “Su questo non puoi parlare” e allora lui, col viso tirato, ma gli occhi tranquilli: “Quando mi lasciano, ti racconto tutto”; i giornalisti a casa la notte ad annunciare per primi la caduta, la corsa della madre all’ospedale, dove nessuno vuol dirle niente. Tanto gli agenti che il tenente dei carabinieri le assicurano che si trovano lì per altri affari, e Pinelli nessuno lo conosce, come se sull’intera vicenda gravasse un teso segreto. Non c’è nessuno che la porta a vedere il figlio che agonizza a pochi metri di distanza; e quando nella stanzetta in cui l’hanno relegata viene qualcuno a reclamare il modulo per la denuncia in Comune, lei capirà che è morto il suo Pino.
Non sola dalle deposizioni della moglie e della mamma, ma anche da quelle altrettanto calme e gravi dei suoi amici operai, sindacalisti, assistenti universitari (tra cui Bruno Manghi, Marino Livolsi, Amedeo Bertolo), in seguito balzerà fuori a tutto tondo la figura del Pinelli, allegro, attaccato alla famiglia e alla vita, estremamente libero al punto che le sue bambine, poiché a loro piaceva, andavano tranquillamente all’oratorio. Così in aula si è potuto gettare un’occhiata su quell’interno rassicurante che era l’unica stanza da stare nella casa popolare dove i due coniugi discutevano con gli amici, mentre le bambine facevano i compiti, magari interloquendo anche loro quando l’argomento le interessava, per esempio sul suicidio di Palach. “Era uno schema di vita, direi, più caldo di quello che c’è normalmente nelle famiglie, e c’era un notevole legame affettivo,” dice Bruno Manghi nella sua deposizione.
A. proposito del suicidio di Palach, benché molto colpito, Pinelli aveva detto d’essere contrario a questo tipo di protesta. “Chi si suicida fugge,” aveva dichiarato. “Chi rimane, in qualsiasi situazione rimanga, lotta per la sua idea.” E alla madre che un giorno gli raccomandava di essere più cauto perché intorno al circolo di via Scaldasole aveva visto aggirarsi dei carabinieri (“stai attento ché l’anarchia rappresenta…”), lui non l’aveva nemmeno lasciata finire: “Mamma, l’anarchia non è quella che ti hanno insegnato in collegio. L’anarchia oggi non è violenza; è libertà. ”
E poi come stava bene, di fisico e di nervi (lo esigeva fra l’altro il suo mestiere di caposquadra manovratore), come non era mai depresso, come gli piaceva invitare gli
amici all’improvviso (non che la moglie fosse sempre entusiasta di queste sue rumorose sorprese e qui sulle sue labbra appare la pallida imitazione di un sorriso), come non nutriva una gran stima per Valpreda pur non considerandolo nocivo, com’era diverso insomma dall’ingenuo sognatore descritto da molti, perché da vent’anni lottava
con passione contro lo sfruttamento. Come per dovere d’ufficio e per aver seguito i processi dei compagni, conosceva tutte le possibili provocazioni della questura, come anzi ai giovani militanti, fra le prime cose insegnava a resistere ai vari sistemi usati dalla polizia per stancare e deprimere.
Insomma non rispondeva mai con lo scoraggiamento alle difficoltà più o meno gravi; anche davanti a un’esibita confessione di infamia di un compagno, mai e poi mai
avrebbe reagito con uno choc. Sapeva che le esigenze di libertà e di uguaglianza sono profondamente radicate nell’uomo, quindi la frase: “È finita l’anarchia!” non può assolutamente averla pronunciata.
Era certo stanco, ma come a1 solito padrone di sé, dice il Valitutti che lo vide nello stanzone dal 13 pomeriggio fino al momento che uscì per l’ultimo interrogatorio.
Fu sempre il Valitutti a sentire, poco prima della caduta (un quarto d’ora o mezz’ora prima, non sa precisare) dei rumori che l’avevano messo in agitazione, “come qualcosa che cadesse o degli oggetti che si urtassero insieme.” Allora era stato bene attento se per caso nel corridoio passasse qualche funzionario, ma non aveva visto nessuno, nemmeno un sottufficiale. Fino al momento in cui (era già avvenuto il cambio della guardia, doveva essere mezzanotte), udì dei passi concitati, udì gridare una frase in seguito alla quale lui chiese chi mai fosse caduto dalla finestra, e allora venne preso per le spalle da cinque uomini e portato in un’altra stanza.
“Non capisco perché l’abbia fatto.” gli aveva detto di lì a pochi minuti il Calabresi, così precisando: “Lo stavamo interrogando scherzosamente sul Valpreda” (ma come? era dunque presente all’interrogatorio? E chi mai un quarto d’ora dopo lasciò capire ai giornalisti che in quella stanza si stava scherzando?). E, tanto per non smentirsi, il brigadiere Panessa invece: “Se l’ha fatto, avrà avuto i suoi motivi: era un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto.” Tutto qui il necrologio per il Pinelli, riecheggiato dopo dal questore, che, interrogati i suoi uomini, parla coi giornalisti.
Battaglia quindi nelle udienze a cavallo tra la fine di novembre e i primi di dicembre, sul fatto di citare o meno l’ex questore Guida, l’on. Malagugini, gli anarchici Faccioli e Braschi. La difesa di Baldelli esige questi testimoni: ma alla loro audizione Lener si oppone con violenza, adducendo i motivi legali già esposti un’altra volta (imputato in procedimento diverso ma connesso con questo qui Guida, testimone nel processo a carico di Guida l’onorevole, imputati in altro processo i due anarchici); e a lui si associa il PM.
Repliche vibrate della difesa, sostenuta tanto da argomenti di legge come da ragionamenti di buon senso (“Forse che una volta sulla pedana si offuscherebbe l’onore del Questore?” chiede l’avvocato Gentili. “Ma è solo come testimone che verrebbe sentito, in qualità di dirigente della questura che deve riferire su fatti accertati da lui.” Eppure il suo legale evidentemente teme che, come Calabresi, anche il questore, una volta in aula, finisca col fare la figura dell’imputato).
Allo stesso modo non si vogliono sentire i due anarchici detenuti Braschi e Faccioli, che dovrebbero rispondere sulle violenze che dicono d’aver subito in questura, tali da costringerli a firmare delle false confessioni. Sulla questione deciderà il tribunale. Una cosa ormai è chiara e tangibile: che una volta di più la verità fa paura.
Fa paura al punto che a una settimana di distanza il tribunale ribadisce quel che aveva già implicitamente affermato la Procura della Repubblica e l’ufficio istruzione milanese, cioè che la polizia può far tutto quello che vuole e i cittadini possono solo protestare (entro certi limiti, s’intende).
Il tribunale si chiude in camera di consiglio per ben due ore ed ecco il risultato: il Guida non può essere citato per la ragione che si è detta, cioè perché imputato in un procedimento connesso a quello in corso (benché per tale imputazione Caizzi abbia già chiesto per lui il proscioglimento con formula piena); i due anarchici nemmeno, perché non possono essere imputati nei processi degli anarchici e testimoni qui. Quanto all’on. Malagugini, non metterà piede in aula nemmeno lui, non solo perché testimone nel procedimento contro Guida, ma, ecco un passo avanti, perché potrebbe anche essere imputato a sua volta per “aver istigato o determinato l’allora questore a violare il segreto istruttorio.” (Assurda e minacciosa ipotesi ripresa tale e quale dagli argomenti della parte civile.)
Toccato con mano dunque quali sono i diritti dei questori, si confrontino ora con quelli della famiglia Pinelli: non le garanzie di legge quando arrestano lui, non la partecipazione dei familiari all’istruttoria sulla sua morte; non la possibilità di ricorrere contro l’archiviazione, non la condanna del Guida per diffamazione e quindi la riabilitazione ufficiale del loro caro, non infine il processo pubblico che oggi si celebra soltanto perché altri cittadini redattori di “Lotta continua,” accusando d’assassinio il Calabresi, hanno tirato per i capelli quest’ultimo perché sporgesse querela. Il diritto dei Pinelli dunque? Uno solo: star buoni in un angolo, piangere e tacere.
E così malinconicamente commentano i difensori: “È con profonda amarezza che dobbiamo constatare che ha degli insospettati limiti il ripetuto impegno del tribunale ad accertare la verità sulla morte di Pinelli! ”
Mentre a sbugiardare ancora una volta il questore e ì suoi accoliti arriva subito dopo il medico Nazzareno Fiorenzano, che, di guardia quella notte al Fatebenefratehi, prestò le ultime e purtroppo inutili cure all’anarchico morente. Dopo aver raccontato questi suoi sforzi, egli afferma testualmente che tanto i carabinieri e i poliziotti di scorta al Pinelli in ospedale, come poi il questore Guida in persona, rifiutarono di fornirgli le generalità del ferito sostenendo che non le sapevano. Che alle sue domande sul come fosse avvenuta la caduta, quelli avevan risposto che nel corso di un interrogatorio, all’anarchico era stata contestata precisa imputazione (vale a dire la falsa confessione di Valpreda); che allora egli aveva esclamato: ” È la fine dei Movimento! ” e si era gettato dalla finestra. Che inoltre il questore gli aveva raccomandato di fare ogni sforzo per salvare il ferito, in quanto questi era “assai importante” per le indagini sulla strage di piazza Fontana.
All’aria quindi, anche attraverso questa testimonianza, la tesi sostenuta in un secondo tempo dal coro di funzionari che la famosa frase senza conseguente suicidio fosse stata pronunciata quattro ore prima. Non solo, ma cade così anche la dichiarazione dell’appuntato Antonino Quartarone, segretario di Allegra, che aveva affermato di essere andato anche lui all’ospedale e di essere rimasto nella stanza (lei Pronto Soccorso fino alla morte del Pinelli “per fornire le generalità del ferito.” Ebbene, non aveva fatto niente di simile: il medico era riuscito a saper il nome dell’anarchico soltanto da una giornalista arrivata lì a prender notizie, precisamente dall’autrice di questo libro.
Chiaro che i poliziotti hanno mentito: ma il PM Guicciardi non chiede nemmeno un confronto, e il presidente 13iotti, che ha già ammonito il teste ad attenersi ai fatti (unico monito rivolto finora ai testimoni), perfino un tantino seccato, chiede al medico: “Ma chi precisamente le ha detto le cose che ci ha riferito?” Risposta delle più calme: “Il dottor Guida che conoscevo di vista, e che mi fece chiamare, e gli accompagnatori giunti prima di lui, che usarono quasi le stesse parole.”
Ma ancora non basta. Viene portato in aula un documento della Procura della Repubblica, il quale conferma che la convalida del fermo (mai segnalato) del Pinelli fu chiesta dalla questura alla Procura il 14 dicembre, e cioè due giorni dopo che l’anarchico era stato prelevato, e un giorno e mezzo prima che morisse; e quindi che il fermo era illegale. Era stato quindi fatto un rapporto alla Procura generale di cui la Procura della Repubblica non conosce l’esito. E la Procura generale, benché invitata ormai da dieci giorni dal tribunale a farne sapere i risultati, non ha ancora risposto. Allo stesso modo non ha risposto il ministero degli Interni circa quell’inchiesta amministrativa sulla morte di Pinelli (quel tale Catenacci che non interrogò nessuno dei testi oculari).
Ancora l’esibizione di un documento da parte dei difensori Gentili e Guidetti Serra: un parere tecnico firmato dai professori Benedetto Terracini, libero docente di anatomia ed istologia patologica di Torino, ed Enrico Turolla, libero docente di anatomia ed istologia patologica e primario delle stesse specialità all’ospedale di Legnano, sull’accertamento medico-legale compiuto sul cadavere di Pinelli, nel corso dell’inchiesta di Caizzi, e finita con l’archiviazione. I professori affermano che quell’accertamento è, assolutamente insufficiente per stabilire le cause della morte, e ciò perché il magistrato pose i termini in modo equivoco, perché gli esami furono incompleti, i risultati lacunosi e contraddittori, perché non è stato approfondito l’esame di una lesione riscontrata alla base del collo (quella che diede origine all’ipotesi del colpo di karaté), e perché le conclusioni favorevoli alla tesi del suicidio erano del tutto infondate. Per questo i difensori si accaniscono nel chiedere una nuova perizia, in particolare per stabilire se il Pinelli, quando precipitò dalla finestra, era già in stato di incoscienza il che evidentemente escluderebbe il suicidio. (Né vengon nascoste le difficoltà di una nuova perizia completa dopo tanto tempo e su reperti selezionati.) Al tribunale comunque la risposta.
Intanto un anno è passato dalla morte di Pinelli. Il penoso riassunto di quanto da allora è successo vien esposto in modo più che esauriente da Pier Luigi Gandini sull’ “Unità,” mentre sempre il 16 dicembre sul “Giorno,” per iniziativa del Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e contro la repressione, esce un’intera pagina di annunci funebri in memoria del ferroviere. Oltre alla famiglia ricordano e commemorano la vittima innocente una quantità di giornalisti, appunto i compagni del morto, infinite sezioni dei partiti socialisti, comunisti e psiuppini, professori, architetti, magistrati e insegnanti democratici, organizzazioni di partito, nuclei aziendali, gli amici del “Torchietto,” intere redazioni di riviste avanzate, cattoliche e socialiste, gruppi di assistenti sociali, gli studenti della scuola di sociologia che non vogliono dimenticare; e negli annunci ricorrono spesso le parole “rispetto, solidarietà, rimpianto, onore alla memoria, sacrificio, tragica e oscura morte, una morte che chiede di non essere dimenticata, la repressione non passerà.”
Tutta diversa la commemorazione che fa la magistratura. È proprio in quella data (16 dicembre) che il giudice istruttore di Milano deposita la sentenza istruttoria con cui assolve l’ex questore Guida dall’accusa di aver diffamato Pinelli e violato il segreto d’ufficio. Le affermazioni più assurde della sentenza sono queste: 1) Guida non intendeva diffamare Pinelli, bensì esaltarne la coerenza di anarchico che, di fronte ai gravissimi indizi, ha scelto, così signorilmente, la via del suicidio; 2) a carico di Pinelli erano effettivamente emersi gravi indizi, riassumibili in sostanza nella supposta inconsistenza del suo alibi (che viceversa era stato confermato); 3) il fermo presuppone gravi indizi di colpevolezza; Pinelli era in stato di fermo, quindi doveva essere gravemente indiziato (con questo semplice sillogismo si fa finta di non sapere che il fermo non era stato convalidato dal magistrato nei termini di legge); 4) non può esser stato violato il segreto d’ufficio perché la morte di Pinelli aveva ormai chiuso il caso. E si torna così al punto di prima, come se il processo non ci fosse mai stato, come se il PM non avesse dichiarato all’inizio l’assoluta innocenza di Pinelli, come se le testimonianze dei funzionari non fossero state tutto quell’arruffato garbuglio che sappiamo.
Gli anarchici scelgono ancora un altro modo per commemorare il compagno. In un composto corteo sfilano in duemila davanti al portone della questura gettando fiori
sul drappo nero che vi hanno steso davanti, dove c’è scritto: “In ricordo di Pinelli, ucciso dalla polizia.” Vietato a chiunque salire sul marciapiedi della questura: davanti al portone il questore con gli occhiali neri, il vicequestore Vittoria con le sue guance color peonia, il commissario Allegra che con la sua adiposa invadenza cerca di allontanare chi si avvicina un po’ troppo; e, ultimo tocco di lugubre gusto poliziesco, ecco che tra i grossi funzionari schierati lì davanti si vede che proprio quell’abete davanti al quale era caduto l’anarchico, oggi è trasformato in gioioso albero di Natale, tutto luci e colori per la ricreazione e gli auguri ai funzionari di ogni rango.
Si sa che come niente ci si abitua alle cose più strane; eppure, mi sembra sempre un fatto dei più singolari che io mi sia quasi acclimatata in quell’ambiente sinistro, proprio del tribunale (o forse son capitata in un angolo dei più bui?), a questi continui dialoghi tra sordi, alla conclamazione ininterrotta delle bugie e delle più demenziali decisioni, ai vari e aggrovigliati metodi per soffocare lo scandalo, per insabbiare la verità, allo spettacolo dei generosi continuamente battuti dai meschini insolenti. Ed è certo soltanto ingenuità la mia, ma ormai è da troppo tempo che son dentro il labirinto giudiziario per non rendermi conto che in quei tortuosi meandri la giustizia è un lussò soltanto.
Mi sono andata abituando anche al gergo del tribunale; quello legale, fatto apposta per rendere oscura qualsiasi decisione, anche delle più semplici; quello dei verbali, particolarissimo, che anch’esso non chiama mai le cose col loro nome, e quello del giudice presidente che, siccome ha letto verbali tutta la vita, detta al cancelliere le frasi dei testimoni tutte tradotte a modo suo, e con un tantino di eleganza in più, in confronto a come parlano i subalterni.
“Avevo l’abitudine,” dice semplicemente il teste o l’imputato, ed “ero uso” traduce il giudice. “Mi tornarono a dire di seguirli” diventa “un’altra volta mi rivolsero siffatto invito.” Quindi: “tornavano sempre a dirmi la stessa cosa” è “mi rivolgevano sempre il suaccennato discorso.” Mentre “fatto com’era ce l’avrebbe detto di certo,” viene dettato “data la sua essenza non si sarebbe astenuto dal farcene partecipi..” “In quel periodo” si trasforma in “in quel torno di tempo,” “quando” è sempre “laddove”; “misi dentro la testa” è “allora feci capolino” (anche se si tratta di on muscoloso brigadiere col testone); “mentre riponevo le carte” si trasforma in “mentre accudivo al riporre,” e “per trovarlo” è tradotto “al fine del rintraccio.”
Cosa fa poi un poliziotto quando torna in questura? “‘ Rientra nella sua sede naturale.” Quando guarda l’ora? “Compulsa l’orologio.” Quando va al gabinetto? “Si porta nel locale adibito a toilette.” Qualcuno arriva in un posto? “Guadagna il locale.” Se mangia un panino? “Lo consuma.” Se mette in dubbio l’autenticità di una firma? “Non riconosce la paternità della grafia.” Quando un infermiere tenta la prima rianimazione di un moribondo? “Esibisce un lieve massaggio.” Quando un altro crede di aver sentito l’urto fra due macchine (e invece è il tonfo di un uomo che sta cadendo dalla finestra)? “Pensai a due mezzi che avesser colliso.” Quando uno non ricorda, “non vale a precisare”; quando va dietro a un altro?. “Si adopera per seguire”; se uno parla non fa che “comunicare alcunché al riguardo.” Si vuol cominciare a interrogare? Allora “si dia la stura alle domande.” Mentre la minaccia “di cambiar la sede al processo” è “uscir dal naturale alvo dell’aula:”
E ora attenzione a quest’altro bel pezzo di prosa (legale): “…Per un’erronea valutazione da parte dell’organo di polizia del termine di decorrenza dello stato di fermo si era determinato un ritardo nella possibilità di addivenire al perfezionamento formale del relativo provvedimento. Per questa irregolarità, vagliati i chiarimenti di polizia e avuto riguardo alle eccezionali circostanze in cui l’ufficio di polizia si era trovato a dover operare, si è ritenuto giustificato un richiamo all’ufficio stesso.” Un esempio di oscurità e giravolte varie, che cade proprio a proposito, perché letto in aula dal giudice Biotti durante l’udienza del 18 dicembre, e tratto da un documento che anche lui affossa, insabbia e dichiara non responsabili chi aveva invece fior di pesanti responsabilità: è il procuratore generale dottor Domenico Riccomagno che, sollecitato a far conoscere l’esito della sua inchiesta, risponde finalmente insieme col ministero degli Interni, che da tempo era stato sollecitato anche lui.
Secondo il ministero degli Interni e la Procura generale di Milano la morte di Pinelli è da considerarsi un evento in cui la polizia non ebbe alcuna responsabilità, nemmeno per omessa vigilanza; e il fermo illegale è stato un semplice errore di calcolo da parte dei poliziotti. Cosí hanno risposto questi altissimi organi di stato, e la conclusione? Pinelli si è suicidato. L’ha mandata a dire Restivo, attraverso quel tale ispettore generale del ministero, che si diceva fantomatico, perché nessuno fuori di Allegra l’aveva mai visto né sentito, ma ora ne sappiamo anche il nome: “Elvio.”
È proprio Elvio Catenacci che ha potuto accertare la mancanza di responsabilità dei funzionari di questura nella morte di Pinelli, e quel che è strano, senza neppure aver interrogato gli stessi agenti testimoni oculari della morte. (Erano stati loro, una volta smentiti dal tribunale, a dire di non esser mai stati interrogati dal Catenacci, anzi di non sapere nemmeno che esistesse un’inchiesta amministrativa.) A sentire Riccomagno, invece, tanto Guida che Allegra e Calabresi avevano sbagliato a calcolare i termini del fermo e non avevano potuto quindi “perfezionarlo.” (Strano invece che Allegra avesse negato l’esistenza del fermo, sostenendo che era “un invito,” e solo il 14 dicembre la stessa questura aveva chiesto alla Procura la convalida del fermo, che non esisteva.)
La difesa di Baldelli chiede che siano acquisiti gli atti delle due inchieste, compresi i verbali degli interrogatori, che non esistono (e gli avvocati insistono proprio per questo), quindi si riserva di chieder nuovamente la citazione di Guida come testimone, dato che se prima era imputato e non poteva,, adesso invece è assolto (ma la sentenza non è ancora definitiva). Si può immaginare la reazione di Lener, che in fondo dev’esser convinto anche lui del suo compito imperioso: difendere il vero imputato qui dentro, cioè la questura. Perciò, quasi ringhiando, si oppone.
Ministero e Procura avvalorano 1a tesi del suicidio, ma nella stessa udienza il tribunale ordina una nuova e sia pur ristretta perizia medico-legale per accertare le cause della morte. Nonostante le asserzioni che vengono dall’alto, qualche dubbio infatti par che turbi le coscienze dei giudici. Non arrivano ancora a decidere una perizia vera e propria su quel che rimane di Pinelli nella tomba, ma nominano tre professori universitari, che accertino se la macchia ovulare riscontrata a suo tempo sul collo del Pinelli sia la conseguenza del rimbalzo del corpo sul cornicione o invece- di una violenza precedente la caduta. E si aspetterà un pò più di un mese per convocare i periti scelti dal tribunale, cioè il professor Aldo Franchini di Genova, il professar Francesco Introna di Padova, il professor Vittorio (Chiodi di Firenze, per farli giurare e dar loro i quesiti. Come consulenti di parte da convocare per quello stesso giorno e poi da risentire ancora un mese dopo, la difesa I, si é scelto il professor Enrico Turolla, dell’ospedale di Legnano, autore, come si ricorderà, di un “parere” duramente critico nei riguardi dell’accertamento ordinato a suo tempo dal PM conclusosi per il suicidio, e il professor Ideale Del Carpio, dell’università di Palermo, noto per aver messo in dubbio con i suoi esami la versione ufficiale della morte del bandito Giuliano.
Meglio che niente, dicono gli ottimisti di questa decisione che dai più viene considerata invece un mediocre compromesso: sono certo illustri i professori convocati, ma la loro perizia si ridurrà a un’inutile commedia; eccolo chino sulla carta questo trust di cervelli incaricato di far la perizia soltanto sui verbali, le fotografie del cadavere, le valutazioni dei primi esperti frettolosi.
L’aula viene abbandonata per un bel po’, ma di Pinelli, della sua morte, degli oscuri intrighi che ci son sotto, della gente che gli è stata intorno nelle ultime ore di vita (ricordare anche la deposizione di Mucilli: “Violenze morali al Pinelli? Ma che so, un ricattino; non so, negargli una sigaretta, negargli da bere se vuole. Un ricattino, non so, se tu non mi dici questo noi ti incastriamo”), si continua a parlare e a discutere: troppi sono i fatti che ci riportano alla memoria l’ambiente e il personaggio. (Senza contare le continue barzellette su Calabresi. Dicono che stanno per trasferirlo a Pescara, e che sulla facciata della questura della cittadina hanno scritto a grandi lettere: “Qui non ci servi, il tuo ufficio è al primo piano.”) Ma non lo trasferiscono, spera anzi in una promozione, e non si illude, come si vedrà.
Altri fatti avvengono che hanno qualcosa in comune col nostro caso. Il 12 dicembre 1970, a un anno preciso dalla strage, muore lo studente Saverio Saltarelli, la cui morte viene annunciata al paese dal ministro Restivo come provocata da “arresto cardiocircolatorio” (mentre due giorni dopo cambierà annuncio: è morto invece per schiacciamento di cuore ad opera di corpo contundente, cioè candelotto della polizia sparatogli in pieno petto). E come succede ormai con regolarità (vedi Ugo Paolillo a cui nel dicembre ’69 vien tolto il processo per portarlo a Roma, e anche lui seguiva l’istruttoria con intelligente prudenza; vedi il giudice Pulitanò che viene escluso dal processò “Calabresi-Lotta continua”), anche il sostituto procuratore Guido Viola che si occupa del caso Saltarelli con estrema coscienza, adesso con disinvoltura pari alla mancanza di forme, viene sostituito col collega Guido Pomarici. Decisione gravissima presa del procuratore-capo De Peppo. E perché? Perché Viola appartiene a “Magistratura democratica” e ha le idee troppo aperte, mentre Pomarici è quello che fece incriminare di falsa testimonianza i due testi che videro un giovane fascista sfilarsi un coltello dalla manica e aggredire uno studente in piazza Santo Stefano. (Dopo un po’, forse data “la pressione dell’opinione pubblica” si richiama il magistrato così bruscamente licenziato, ma solo per metterlo in un cantuccio, affidandogli cioè soltanto gli accertamenti peritali sulla morte del Saltarelli, mentre il Pomarici si occuperà delle testimonianze e di tutta l’istruttoria.)
Da metà dicembre inoltre continuano affollatissime nel suo capannone le repliche della commedia di Dario Fo dal titolo Morte accidentale di un anarchico, nella quale si racconta un fatto veramente accaduto in America nel 1921, quando un anarchico di nome Salsedo, un emigrante italiano, precipitò da una finestra del quattordicesimo piano della questura centrale di New York. Allora il comandante della polizia dichiarò trattarsi di suicidio. Poi durante mia prima inchiesta e quindi una superinchiesta da parte della magistratura, si scoprì che l’anarchico era stato letteralmente scaraventato dalla finestra dai poliziotti durante l’interrogatorio, così spiega Fo nel prologo. Quindi “al fine di rendere più attuale e più drammatica la vicenda, ci siamo permessi di mettere in opera uno di quegli stratagemmi ai quali spesso si ricorre in teatro. Cioè a dire: abbiamo trasportato l’intera vicenda ai giorni nostri, e invece che a New York l’abbiamo ambientata in una qualunque città italiana… facciamo Milano. È logico che per evitare anacronismi, siamo-stati costretti a chiamare commissari i vari sceriffi, questori gli ispettori, e cosí via.”
Così, anche chi si è tanto malinconicamente appassionato al caso Pinelli, nel capannone de “La Comune” finisce a ridere, almeno nella prima parte, come di raro gli capita, tante sono le gags di questo spettacolo che è una vera e propria farsa, per com’è bravo Fo nella parte del matto che si finge il superispettore venuto da Roma a cercar di veder chiaro nella faccenda del suicidio dell’anarchico. E quando conta i verbali davanti al signor questore dice: “venticinque, ventisei, ventisette, Ventotene,” quando incontra il giovane commissario sportivo dal maglione dolcevita, gli chiede subito perché non si fa curare di quel tic fastidioso (quel massaggiarsi di continuo la mano destra), quindi mette in opera tutto il ben noto rituale della questura, inganni, trappole, saltafossi, trabocchetti, violenze morali, ricattini, per “incastrare” a l’oro volta questore e commissario., per farli giocare a scaricabarile e far loro ammettere delle enormità nel tentativo di ricostruire la notte del tuffo, facendogli giustificare la retrocessione dell’ora, le tre scarpe, il colpo di karaté, e infine il raptus. Finché riesce a condurli addirittura sul davanzale della finestra, convincendoli che per loro è meglio, indiziati come sono, buttarsi di sotto.
Ambientata nel ’21 soltanto per gioco, la commedia non fa che alludere dunque alle vicende di adesso, vi si trova “il commissario Cavalcioni,” vi si leggono le lettere dal carcere degli anarchici picchiati, -non manca “l’opinione , pubblica che preme,” la migliore amica della polizia che è la magistratura, i vecchi imbecilli che spiegano cos’è il raptus, e avanti avanti fino allo smascheramento del matto e al rientro nei ranghi, dopo tanti choc, dei poliziotti colpevoli.
Alla fine di marzo comincia invece il processo contro i giovani anarchici imputati di diciotto attentati oltre a quelli del 25 aprile e che sono in carcere da quella data: e qui di udienza in udienza, sfumata la chiave satirica, ma non troppo, tornano a far capolino, come direbbe Biotti, sempre gli stessi personaggi e sempre affaccendati in manovre ambigue e fraudolente.
Identiche le costanti, tanto in questo procedimento come nei due grandi “gialli” nazionali venuti dopo, i casi Pinelli e Valpreda. Qualcosa scoppia, e son gli anarchici a venir subito acchiappati, anche se contemporaneamente e subito dopo si moltiplicano gli attentati fascisti. Si acchiappano gli anarchici e restano dentro, anche quando nel dicembre ’68 giornali come 1`Observer” e il “Guardian” pubblicano un documento segreto inviato al ministro degli Esteri di Atene (e poi ripreso dall’ Espresso”), in cui s’informa Papadopoulos sui risultati della campagna di provocazione che da tempo il governo greco sta attuando in Italia con la collaborazione dei gruppi fascisti. La campagna di provocazioni va benissimo, “le azioni previste,” vi si legge, “è stato possibile realizzarle solo il 25 aprile. La modifica dei nostri piani ci fu imposta dal fatto che era difficile entrare nel padiglione FIAT. Entrambi i fatti [cioè anche le bombe della stazione] hanno prodotto effetti considerevoli.” (“Ma che documento è mai questo?” si chiederà il presidente Curatolo. “I giornali io non li leggo mai.”)
E come se non bastassero le prove che almeno in parte scagionano gli attuali detenuti, ecco, proprio di pochissimo tempo prima, il capo d’imputazione contro l’editore Giovanni Ventura, il procuratore Franco Freda di Treviso, e Aldo Trinco. “Per aver in concorso con altri, al fine di incutere pubblico timore, fatto esplodere in Milano e Torino ordigni esplosivi nell’aprile-maggio ’69 e in varie località contro le ferrovie nella notte fra l’8 e il 9 agosto.” (Ma niente paura: siccome si tratta di fascisti, la loro detenzione è delle più brevi.)
Se le piste seguite tanto il 25 aprile che il 12 dicembre sono le stesse, non cambiano nemmeno i protagonisti. Ecco, primo fra tutti, il giudice Amati. Sappiamo che è lui che, secondo il “Corriere,” il 12 sera mette la polizia sulle tracce degli anarchici e poi fa arrestare Valpreda il 15 all’uscita dal suo ufficio: è lui che deposita quella perla di verbale d’archiviazione e accoglie dal PM la richiesta d’archiviazione della querela contro Guida, finché dopo due mesi ne chiede 1′assoluzione con un documento che non sta in piedi. È sempre Amati che imbastisce 1′istruttoria del 25 aprile, su prove, testimoni, riconoscimenti e perizie, destinati a crollare uno dopo l’altro, finché, a furia di nullità e buchi procedurali, si riduce letteralmente a brandelli: è dalle sue istruttorie che sbucan fuori le lampade Tiffany (sono gli anarchici a farle, è in casa di chi le fa che si trovano i fili di stagno, i saldatori e i famosi vetrini che diventeranno veri e propri capi d’accusa). È lui che mette in prigione quelli che, a suo personale parere, sono i due capibanda dinamitardi, cioè i coniugi Corradini, poi scarcerati dopo sette mesi per mancanza di indizi.
Due i pilastri su cui si regge questa istruttoria traballante come quella del Pinelli: 1) le perizie grafiche sui volantini trovati sui luoghi delle bombe e attribuiti al Faccio li e al Pulsinelli; 2 ) l’implacabile accusatrice, la supertestimone Rosemma Zublena. Ma le perizie risultano assolutamente negative, e la Zublena presto si rivela una povera diavola affetta da delirio persecutorio, definita da. molti una spia della polizia, al punto che se ne chiede l’incriminazione come teste falsa e reticente. (Calabresi l’ha interrogata mandandola poi da Amati, che la rispedisce alla polizia anche quando è lui che inizia gli interrogatori.)
Nell”`affair” che scoppia adesso c’è anche il solito perito balistico Teonesto Cerri che diventerà ancora più noto per la sua brillante trovata di fare esplodere la bomba alla Banca commerciale. Il Calabresi l’abbiamo già intravisto a proposito di Zublena, ma qui dentro ha molte altre brucianti responsabilità. È lui che, sostituendosi ai magistrati, va in carcere a far fare perizie calligrafiche ai, detenuti ed estrae il Braschi da San Vittore per fargli riconoscere ad ogni costo la cava fatale: è lui, che notifica i mandati di cattura rabbiosamente emessi da Amati dopo l’ordinanza della Corte d’Appello. È lui che insieme ai suoi tre fedelissimi percuote e minaccia Faccioli negli interrogatori, è lui che, secondo le deposizioni e le lettere degli anarchici, non lascia dormire né mangiare il Faccioli per tre giorni e tre notti e con un pretesto lo porta fuori Milano in macchina per farlo scendere ed ordinargli di correre avanti, mentre lui vien dietro a fari spenti (“Possiamo romperti le ossa come niente, e poi dire che è stato un incidente…”); é lui che, sempre secondo le deposizioni degli .imputati, picchia Braschi minacciando di imprigionare sua madre e di infilargli della droga in tasca; è in questo periodo che lo chiamano “i1 comm. Finestra”; è sempre Calabresi che mette la sua firma alla deposizione della Zublena “dimenticandosi” di farla firmare da lei: la deposizione riguarda le responsabilità dinamitarde degli imputati Corradini che in dibattimento la Zublena dichiarava di non conoscere; ed ecco che vien chiesta la incriminazione di Calabresi per falso ideologico e subornazione di testimoni.
Poteva mancare Allegra in questo triste pasticcio? Naturalmente no: é Allegra che nel giugno del ’69 trasmette al giudice il verbale firmato da Calabresi e non dalla Zublena, un verbale che tra l’altro ha causato l’arresto del Pulsinelli, ma che è scomparso dagli atti dopo la scarcerazione dei Corradini, quindi solo per 1′o.stinazione della difesa, è stato ritrovato e consegnato al presidente. Del resto già il 24 aprile, secondo una sua precisa asserzione, Allegra sapeva chi avrebbe arrestato per le bombe all’indomani, cioè gli anelli più deboli della catena di sinistra. “Non si è potuto fare questa azione prima del 25 aprile,” dice il rapporto greco, di cui il giornalista inglese Leslie Finer viene a Milano a confermare l’autenticità, ma il 2 5 sono provvidenzialmente a Milano Faccioli e Della Savia. Mentre gli attentati sui treni avvengono proprio la notte di agosto in cui Pinelli va a Roma, mentre il 12 dicembre scoppiano le bombe alla banca, ed è quando Amati chiama a Milano Valpreda; questo il collegamento che ormai sono molti a fare, riunendo un processo all’altro, per spiegare perché e quando è cominciata la strategia della tensione.
Sempre presenti inoltre là dove si picchia e si percuote, i brigadieri Mucilli, Panessa e Mainardi, tutti promossi marescialli nella primavera del ’71: è Panessa che con un pugno spacca un labbro al Faccioli. In questo processo emerge che anche Mucilli ha mentito e non è stato da meno il Panessa: per il foglietto trovato in tasca al Faccioli esistono infatti tre verbali e cinque versioni diverse.
Così si sgretola il processo degli anarchici, che su richiesta del PM sono rimessi tutti in libertà, e intanto si ottiene un buon successo nel dibattito Pinelli. Dall’incontro dei sei periti che hanno esaminato le carte e le fotografie, è venuto fuori ben poco: secondo i periti della parte civile 1a famosa macchia ovulare dev’essere soltanto una macchia dovuta alla lunga permanenza sul tavolo dell’obitorio, mentre quelli della difesa non escludono che possa essere il risultato di un colpo di karaté. Così (ed è passato un anno e mezzo dal 15 dicembre), all’ultima richiesta degli avvocati Gentili e Guidetti Serra, la prima sezione del tribunale decide che si faccia pure la perizia medico-legale completa “onde stabilire in modo incontrovertibile e definitivo com’è morto Pinelli”: insomma sia costretta a subire un pubblico controllo la tesi del suicidio, imposta dalla questura, dalla Procura della Repubblica, dalla Procura generale e dal ministro degli Interni.
Decisione che manda sulle furie l’avvocato Lener, secondo il quale una richiesta del genere mira soltanto “ad insabbiare il processo” e il sospetto di esercitare una buona dose di humour involontario non lo sfiora nemmeno. Quanto all’affermazione che al Pinelli è stata negata giustizia, “è solo frutto di una campagna di vittimismo.” Ma come facciamo a provare il nostro assunto dicono gli avvocati della difesa se una perizia completa non è mai stata fatta? Dall’accertamento legale compiuto subito dopo la morte sono stati esclusi i consulenti della difesa, e risibile è l’affermazione che due degli esperti della Procura fossero in realtà dei camuffati consulenti di fiducia dei Pinelli: basta pensare che costoro non si recarono nemmeno sui luoghi dell’interrogatorio e della caduta, né potevano disporre di rilievi e di misurazioni sugli stessi, sulla traiettoria del corpo, sulla posizione d’arrivo ecc., non sapevano se l’anarchico fosse morto all’ospedale o in cortile, non parlarono col medico di guardia e si limitarono ad esaminare gli indumenti intimi del morto, ma non la giacca e i pantaloni che potevano recar tracce corrispondenti alle lesioni, quindi non furono chiamati a rispondere al quesito se queste ultime fossero tutte successive alla caduta o se invece qualcuna fosse precedente.
Ecco perché gli avvocati ora si ostinano a chiedere una perizia completa che abbia come base i resti della vittima, previa riesumazione, tutti i reperti che si trovano all’Istituto di medicina legale e tutti i rilievi raccolti dal tribunale. Questa perizia l’avevano chiesta in dicembre e se fosse stata ordinata allora, sarebbe già compiuta e allora avrebbe dato certo qualche risultato utile. Ma è ancora possibile disporla senza rinviare gli atti al giudice istruttore, per cui l’accusa di insabbiamento da parte della difesa risulta ridicola e offensiva.
Un’ora e mezzo di camera di consiglio, e il presidente del tribunale esce a dire che la richiesta di perizia è accolta. A un anno e mezzo di distanza, questa è senza dubbio la vittoria più grossa della difesa. E come mai, ci si può chiedere il tribunale, con a capo il presidente Biotti, ha concesso la perizia andando contro una così agguerrita parie civile, in ciò associata a1 PM? Forse perché, decidendo w0sí, il collegio giudicante ora si spoglia di un caso che cominciava a scottare un po’ troppo. Di giorno in giorno diventavano infatti sempre più rischiose le richieste degli avvocati Gentili e Guidetti Serra: cercar di sapere per esempio perché la questura di Milano, pur sapendo dov’era, per un mese non aveva controllato l’alibi del Sottosanti(sentito in tribunale poco prima della decisione della perizia: colazione da Pinelli la mattina del 12, andato ad incassare l’assegno, preso l’autobus per andare in casa Pulsinelli a Pero).
Si chiedeva poi di mettere a confronto il Rolandi col professor Paulucci perché si accordassero sul famoso tragitto in taxi (perché mai al professore il Rolandi aveva dato una versione diversa?). Ed era sempre la difesa a fare un’altra ipotesi: che secondo un disegno prestabilito un uomo così somigliante al Valpreda come i1 Sottosanti (lo stesso Rolandi scambierà una sua fotografia per una di Valpreda “un po’ truccata”) fosse salito sul taxi del Rolandi in piazza Napoli per andare in piazza Fontana (e sarebbe così giustificata la cifra del percorso). Continuando con le con,(letture, il Sottosanti sarebbe dunque servito soltanto per la pantomima del taxi, tanto per mettere la bomba, quanto per incastrare il Valpreda.
A perizia accordata, l’avvocato Lener ingoia amaro, anzi non digerisce affatto. Così solleva “un incidente d’esecuzione” chiedendo al tribunale di revocare l’ordinanza. Ed è una battuta a vuoto, perché, ritenendola inammissibile, solo quattro ore dopo il giudice respinge l’istanza. Più arrabbiato che mai, di lí a pochi giorni, Lener ne presenta un’altra che si dovrà discutere alla ventunesima udienza, cioè il 29 aprile. All’udienza ci vado insieme coi colleghi, ma non ha luogo. Temendo infatti di sentirsi contraddetto un’altra volta, Lener si preclude perfino la possibilità che venga messa in discussione la sua seconda istanza, e prima ancora dell’udienza, usa l’arma della ricusazione (sulla quale dovrà rispondere la corte d’Appello di li a qualche settimana).
Insomma, attraverso il suo patrono, il commissario Calabresi non vuole più che sia Biotti a presiedere il consiglio giudicante. Come andargli a dire: “Non voglio più che tu mi giudichi, perché ho scoperto che hai un interesse specifico in questo processo, comunque non sei obiettivo.” (Circostanze che se fossero state vere, avrebbero dovuto causare fin dal principio l’astensione del magistrato.)
Stupita incredulità, sorpresa smisurata. Come mai Lener, per motivi che sulle prime rimangono misteriosi, vuole allontanare Biotti a cui è legato da trent’anni di cordiale amicizia e col quale ha fatto una quantità di processi per diffamazione a mezzo stampa, che è un uomo d’ordine e persona prudentissima, noto a sua volta per essere estremamente conservatore?
E perché, mentre all’inizio tanto il PM quanto là parte civile proclamavano in coro la necessità di far luce sul caso del “povero Pinelli”; perché nel momento in cui il tribunale per la prima volta accoglie l’istanza di una perizia seria sul corpo dell’anarchico, scatta questo meccanismo di irrigidimento spropositato al punto che l’amico ricusa l’amico? Se poi, come corre voce in tribunale, i fatti su cui si basa la ricusazione (confidenze fatte da Biotti a Lener sulla conclusione del processo, telefonate compromettenti, raccomandate che scottano) risalgono a qualche mese fa, è a dir poco incredibile che un avvocato se li tenga in serbo per usarli solo quando il giudice prende dei provvedimenti sfavorevoli a lui. (Lo fanno notare gli avvocati Gentili e Guidetti Serra in una dichiarazione deposta subito dopo la ricusazione, e naturalmente ne chiedono i motivi.)
E allora l’ipotesi che viene istintiva è una soltanto:
Anche a così lunga distanza, la difesa della questura e il querelante sono presi dal panico all’idea della perizia medico-legale eseguita finalmente sul corpo e non più su foto o verbali. Ma come possono far paura quei poveri resti sotto terra da tanto tempo? “Fanno paura perché `quelli sanno,” è la laconica risposta della signora Pinelli. E perché quella vecchia volpe di Lener ha agito così pur rendendosi conto che l’accanimento nel non voler scoperchiare la tomba viene interpretato dall’opinione pubblica nel Senso peggiore, cioè come paura, coda di paglia, complesso di colpa?
Anche lui forse sa di aver fatto un passo falso, ma ceri n lo ha meditato. Può darsi che non si aspettasse una difesa così agguerrita, comunque questo è un modo per permettere a Biotti di sganciarsi dal processo e a lui di iniziare un nuovo dibattimento con chi può rimediare a una situazione già tanto compromessa. Se Biotti viene ricusato, arriva un altro presidente, e sarà più facile attenuare gli errori di prima: se non altro la perizia è evitata. La ricusazione infatti può essere l’arma estrema in un processo – in cui sono state già date ampie prove almeno di omicidio colposo (fermo illegale, piccolezza della stanza, violenze psicologiche pesanti ammesse dagli stessi funzionari, e poi interrogatori notturni, costernanti contraddizioni, oltre alla testimonianza di Valitutti).
Ma a questo punto, l’assommarsi dei vecchi fatti coi nuovi più straordinari (ancora un commissario di polizia che querelando in modo arrogante un direttore di giornale, è poi costretto ad una difesa affannosa e disordinata, e infine, di fronte all’evidenza dei fatti, disperatamente si oppone alla prova-chiave, che potrebbe essere l’apertura di una tomba), provoca uno speciale atteggiamento nella maggioranza consapevole. A chi cioè sta a cuore che il nome e il mistero della morte di Pinelli non siano dimenticati, non interessa più tanto come andrà a finire il processo, come sarà la sentenza, e se faranno o no la perizia.
Per costoro, secondo il tribunale della loro coscienza, oggi il processo potrebbe considerarsi chiuso, perché è raggiunto lo scopo politico di chi ha analizzato con attenzione ed esercizio di logica il comportamento della questura. Se dal punto di vista giuridico, infatti, attraverso quel che è emerso finora nessuno può negare che sia provato quanto meno l’omicidio colposo, adesso è altrettanto chiaro che alla riesumazione del corpo la questura si oppone perché di lì potrebbe emergere anche la prova del dolo. Quindi per molti di quanti hanno seguito tutto fin dal principio con intensa partecipazione, il processo appare finito, con totale successo della difesa e decisa sconfitta della polizia.
A Musocco non sarà aperta la tomba di Pinelli? Una prova in più, se ce ne fosse bisogno, di come ha indovinato la vedova nel far riprodurre sulla lastra quella lunga epigrafe di Spoon River in memoria degli anarchici impiccati a Chicago. Ed eccone il brano centrale:
Vidi una donna
bellissima,
con gli occhi bendati,
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto un volto implorante,
nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia:
nella bilancia venivan gettate delle monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
con gli occhi bendati,
ritta sui gradini di un tempio marmoreo.
Una gran folla le passava dinanzi,
alzando al suo volto un volto implorante,
nella sinistra impugnava una spada.
Brandiva questa spada,
colpendo ora un bimbo, ora un operaio,
ora una donna che tentava ritrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia:
nella bilancia venivan gettate delle monete d’oro
da coloro che schivavano i colpi di spada.
E finisce
pressappoco così: mentre di quella bella donna un uomo in toga dice che “non
guarda in faccia a nessuno,” c’è un giovane dal berretto rosso che le strappa
di colpo la benda, e allora si vede che lì sotto gli occhi della giustizia sono
allucinati e per di più stan marcendo:
Va bene considerare chiuso e vinto il processo, ma ad accumulare un maggior numero ancora di prove di cattiva coscienza e di inquinamento morale dalla parte di chi tiene il coltello per il manico, concorrono i continui colpi di scena. La ricusazione è stata chiesta: contro ogni previsione il 7 giugno la Corte d’Appello l’accetta, e son venticinque pagine che l’intero palazzo di giustizia giudica allucinanti, e che allontanano Biotti dal banco del tribunale, dopo otto mesi di presidenza, gettando ombre sinistre sul suo equilibrio e sulla sua onestà.
Finalmente vengono a galla le ragioni che hanno spinto Lener a un gesto così clamoroso e la Corte d’Appello ad accettarle. Nel documento è scritto infatti che in un colloquio chiestogli il 21 novembre del 1970, Biotti prima gli avrebbe parlato dei suoi vari guai carrieristici e della pratica in corso per la sua promozione, quindi gli avrebbe rivelato le pressioni a cui veniva sottoposto dall’alto perché la causa si risolvesse in favore di Baldelli, infine gli avrebbe confidato che “tanto lui che gli altri due giudici ci-ano convinti che il famoso colpo di karaté fosse stato inferto a Pinelli e gli avesse leso il bulbo spinale.” La sua era insomma già una sentenza; proprio per questa convinzione Biotti aveva aggiunto che sarebbe arrivato a ordinare una vera perizia.
Al corrente di tutto ciò, Lener sta zitto per ben cinque mesi di processo, ma quando Biotti ordina che sia fatta la perizia, quindi venga riesumata la salma, lo ricusa. E l’ordinanza incredibilmente gli dà ragione, in quanto non ricusandolo prima, nel corso del processo Biotti avrebbe anche potuto cambiare idea.
Da tutto ciò cosa viene dimostrato? Che l’accusa di assassinio avanzata dalla difesa non era poi tanto avventata, se vien perfino confermata dai tre giudici, presidente compreso. Che Lener tiene nascosta la sua bomba per cinque mesi perché spera, in questo frattempo di poter far pressioni sul giudice. Che quando si accorge di aver persa la partita, pur di non accettare la perizia, fa saltare il. tribunale. Che l’opinione pubblica a questo punto può fare tutte le ipotesi che vuole, anche le più azzardate, dato che questo sorprendente ingranaggio è scattato per il solo fatto che non si è aperta una tomba: chissà che il genere di fratture ancora riscontrabili alla base del collo non denunci chiaramente la crudele percossa, e, estrema congettura, che una volta scoperchiata, la tomba non possa anche rivelarsi vuota.
Anche questa volta (come nel falloso, e quasi comico verbale di archivîazione, come in quegli altri mútili e traballanti documenti che son tanto la richiesta di archiviazione della querela per diffamazione contro il questore Guida quanto la richiesta della sua assoluzione), si tratta di un fascicolo assai sconcertante, un seguito di meschine confidenze, di tremori, pressioni (di cui però qui dentro non vien data prova), di anticipazioni, ritrattazioni, e aperte minacce, che,dà una catastrofica idea della giustizia e degli uomini di legge italiani, il tutto rivolto una volta di più, a dilazionare all’infinito il momento della verità.
Lo scandalo è gravissimo, la gente rimane sconcertata, i giusti si sentono offesi.
Sull`Espresso” appare una lettera, aperta alla pubblica sottoscrizione, scritta da un gruppo di uomini di cultura, in cui si riconoscono alcuni dei più ostinati di sempre, precisamente da Marino Berengo, Anna Maria Brizio, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella. Eccone il testo:
“Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di un’odiosa coercizione.
“Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Marcello Guida, e l’indegna copertura nelle persone. di Giovanni Caizzi e Antonio Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a questa fiducia senza la quale
Morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
“Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto-rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro clic abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di conoscere î n loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello stato, dei cittadini.” E grandinano le firme, sono migliaia e migliaia, son altri intellettuali, uomini politici, artisti, dirigenti sindacali, scienziati, registi, scrittori, editori, professori universitari, semplici cittadini. E quando il giornale dopo varie settimane, ne smette la pubblicazione, ne continuano ad arrivare da ogni parte d’Italia.
Va bene considerare chiuso e vinto il processo, ma ad accumulare un maggior numero ancora di prove di cattiva coscienza e di inquinamento morale dalla parte di chi tiene il coltello per il manico, concorrono i continui colpi di scena. La ricusazione è stata chiesta: contro ogni previsione il 7 giugno la Corte d’Appello l’accetta, e son venticinque pagine che l’intero palazzo di giustizia giudica allucinanti, e che allontanano Biotti dal banco del tribunale, dopo otto mesi di presidenza, gettando ombre sinistre sul suo equilibrio e sulla sua onestà.
Finalmente vengono a galla le ragioni che hanno spinto Lener a un gesto così clamoroso e la Corte d’Appello ad accettarle. Nel documento è scritto infatti che in un colloquio chiestogli il 21 novembre del 1970, Biotti prima gli avrebbe parlato dei suoi vari guai carrieristici e della pratica in corso per la sua promozione, quindi gli avrebbe rivelato le pressioni a cui veniva sottoposto dall’alto perché la causa si risolvesse in favore di Baldelli, infine gli avrebbe confidato che “tanto lui che gli altri due giudici ci-ano convinti che il famoso colpo di karaté fosse stato inferto a Pinelli e gli avesse leso il bulbo spinale.” La sua era insomma già una sentenza; proprio per questa convinzione Biotti aveva aggiunto che sarebbe arrivato a ordinare una vera perizia.
Al corrente di tutto ciò, Lener sta zitto per ben cinque mesi di processo, ma quando Biotti ordina che sia fatta la perizia, quindi venga riesumata la salma, lo ricusa. E l’ordinanza incredibilmente gli dà ragione, in quanto non ricusandolo prima, nel corso del processo Biotti avrebbe anche potuto cambiare idea.
Da tutto ciò cosa viene dimostrato? Che l’accusa di assassinio avanzata dalla difesa non era poi tanto avventata, se vien perfino confermata dai tre giudici, presidente compreso. Che Lener tiene nascosta la sua bomba per cinque mesi perché spera, in questo frattempo di poter far pressioni sul giudice. Che quando si accorge di aver persa la partita, pur di non accettare la perizia, fa saltare il. tribunale. Che l’opinione pubblica a questo punto può fare tutte le ipotesi che vuole, anche le più azzardate, dato che questo sorprendente ingranaggio è scattato per il solo fatto che non si è aperta una tomba: chissà che il genere di fratture ancora riscontrabili alla base del collo non denunci chiaramente la crudele percossa, e, estrema congettura, che una volta scoperchiata, la tomba non possa anche rivelarsi vuota.
Anche questa volta (come nel falloso, e quasi comico verbale di archivîazione, come in quegli altri mútili e traballanti documenti che son tanto la richiesta di archiviazione della querela per diffamazione contro il questore Guida quanto la richiesta della sua assoluzione), si tratta di un fascicolo assai sconcertante, un seguito di meschine confidenze, di tremori, pressioni (di cui però qui dentro non vien data prova), di anticipazioni, ritrattazioni, e aperte minacce, che,dà una catastrofica idea della giustizia e degli uomini di legge italiani, il tutto rivolto una volta di più, a dilazionare all’infinito il momento della verità.
Lo scandalo è gravissimo, la gente rimane sconcertata, i giusti si sentono offesi.
Sull`Espresso” appare una lettera, aperta alla pubblica sottoscrizione, scritta da un gruppo di uomini di cultura, in cui si riconoscono alcuni dei più ostinati di sempre, precisamente da Marino Berengo, Anna Maria Brizio, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giulio A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin e Mario Spinella. Eccone il testo:
“Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di un’odiosa coercizione.
“Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Marcello Guida, e l’indegna copertura nelle persone. di Giovanni Caizzi e Antonio Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a questa fiducia senza la quale
Morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
“Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto-rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro clic abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di conoscere î n loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello stato, dei cittadini.” E grandinano le firme, sono migliaia e migliaia, son altri intellettuali, uomini politici, artisti, dirigenti sindacali, scienziati, registi, scrittori, editori, professori universitari, semplici cittadini. E quando il giornale dopo varie settimane, ne smette la pubblicazione, ne continuano ad arrivare da ogni parte d’Italia.
Tutti i giornali
bollono, cominciano a venir fuori i nomi dei magistrati che, secondo Lener, a
detta di Biotti, avrebbero fatto pressioni su di lui, perché assolvesse
Baldelli, e sarebbero il consigliere Adolfo Beria d’Argentine, membro del
.Consiglio superiore della magistratura, e il vicepresidente della prima
sezione dottor Giacomo Martino. Quindi Lener accusa in prima persona il dottor
Edmondo Bruti Liberati (che è nipote di Beria, e senza far parte del collegio
giudicante, assisteva al processo per i1 normale tirocinio dei magistrati da
poco in carriera); così attacca un conservatore come Martino, un moderato come
Beria d’Argentine uscito da ” Magistratura democratica” nel ’68 (ma che per
l’estrema destra della magistratura resta ancora una quinta colonna delle
sinistre) e nel Bruti Liberati si scaglia contro la corrente di punta, in
quanto il, giovane appartiene a ” Magistratura democratica,” cioè; sempre per
gli stessi magistrati; rappresenta l’estrema sinistra. Dove si vuole arrivare?,
si chiedono quotidiani e settimanali. “Perché la Corte d’Appello non decide di
indagare sulle presunte pressioni?” e avanti con: “Nuovi clamorosi sviluppi per
lo scandalo Pinelli” “L’obiettivo dello scandalo Biotti è l’attacco ai giudici
democratici?” e chi insulta l’uno chi l’altro, chi tutti e due i protagonisti
della vicenda, davvero è difficile capire a fondo qualcosa. Si ha comunque
l’impressione (e questa volta si fa strada anche in una larga fetta di
indifferenti e di “tagliati fuori”), che il prestigio del potere e delle
autorità in genere, e in particolare della polizia, sia fortemente scosso.
Diventa ricorrente l’accostamento fra il caso Pinelli e il caso Dreyfus;
l’impegno politico di molti è appunto quello di portare la vicenda del
ferroviere anarchico all’altezza del caso famoso; la lettera di ricusazione
morale pubblicata sull’Espresso”, a firma dei professori universitari milanesi
(e che pure, per la quantità e la varietà delle adesioni ha un suo peso
politico), come notano tra gli altri l’on. Lombardi, i senatori Banfi e Parri,
se ha un limite, è quello di essere una ricusazione morale, e i tre
parlamentari vi aderiscono, ma con una motivazione politica più precisa.
Come anche gli appartenenti a “.Magistratura democratica” hanno rilevato con una mozione del 10 giugno dove si fanno risaltare, nella vicenda Lener-Biotti gli aspetti rilevatori dell’uso distorto della legalità come costante dell’attuale corso politico del potere.
E in tanta confusione cosa deve fare la giornalista per informare bene i suoi lettori? Un’inchiesta sulla magistratura, le sue correnti, i suoi conflitti interni andrebbe benissimo. Ma se però potesse raggiungere Biotti e parlargli? Ed ecco che faccio il suo numero, è lui che risponde, sdegnato ma affabile, e: “Venga pure se vuole, io son qui che l’aspetto.”
Come anche gli appartenenti a “.Magistratura democratica” hanno rilevato con una mozione del 10 giugno dove si fanno risaltare, nella vicenda Lener-Biotti gli aspetti rilevatori dell’uso distorto della legalità come costante dell’attuale corso politico del potere.
E in tanta confusione cosa deve fare la giornalista per informare bene i suoi lettori? Un’inchiesta sulla magistratura, le sue correnti, i suoi conflitti interni andrebbe benissimo. Ma se però potesse raggiungere Biotti e parlargli? Ed ecco che faccio il suo numero, è lui che risponde, sdegnato ma affabile, e: “Venga pure se vuole, io son qui che l’aspetto.”
È la prima volta
che mi capita di interrogare un giudice, è la prima volta che lo vedo fuori dal
plumbeo tribunale. Mi aspetta nel suo luminoso soggiorno (piante lustre,
l’angolo del pranzo, l’angolo della conversazione, infondo il salottino Luigi
XV che la suocera gli regalò per le nozze, mentre dal soffitto gocciola il
lampadario di cristallo), e pare che si sia un po’ appannata quella sua faccia
da zio rassicurante che nelle commedie arriva con buone notizie a predisporre
il lieto fine. Adesso i suoi miti occhi chiari si accendono dietro le lenti,
dall’impeto dei suoi gesti affiora lo sportivo di una volta, calciatore,
spadaccino, scattante centometrista, perché nel suo salotto ora l’ira
serpeggia, sparita la pacatezza di qualche mese fa, lieto fine addio.
“Lei deve scrivere dappertutto a lettere di scatola, che Biotti è un fesso, è sempre stato un fesso, tutto quello che mi è successo lo prova, non essermi -accorto per tanti anni di essere stato accanto a un serpente boa” (e invano tenta di calmarlo quella signora amabilmente polposa che è la sua bionda consorte). “Adesso aspetto che si insedi bene il nuovo procuratore generale Bianchi d’Espinosa, e appena possibile, sporgo denunzia e querela.” Contro chi? Contro il serpente boa, contro l’avvocato Lener per le sue temerarie fandonie, il suo malevolo delirio, la sua pretestuosa e impudente richiesta di ricusazione.
“E mi fanno arrabbiare i miei amici che lo chiamano Gíuda perché ha tradito una confidenza, ma chi gliene ha mai fatta una? Secondo lei, dica la verità, le sembrò così cretino d’andare da lui a compromettermi a quel modo? Le confidenze non le ha mai tradite,. per il semplice fatto che non gli ho mai confidato nulla.” Nella sua invettiva Biotti diventa lirico: giudicando l’operato di Lener, d’accordo con D’Annunzio, egli dovrebbe concludere che “parla per farnetico.”
Proprio questo io ero venuta a chiedergli, dopo aver letto il documento approvato dalla Corte d’Appello: quali le ragioni di un contegno così assurdo? Per concludere dal canto mio quello che a tanti era già venuto in mente: quei sospetti di collusione a cui portano i lunghi rapporti fra avvocati e magistrati, ecco perché i grossi avvocati spesso si vantano di fare i processi non in aula ma nei corridoi. Ma subito mi travolge la sua eloquenza difensiva: “Lener deve provare che sono andato a parlargli di baratto, di promozione, di pressioni, ho chiesto perfino un provvedimento disciplinare perché si faccia piena luce su tutto, e allora cada Sansone con tutti i Filistei.” Giacché sta sfogandosi, al punto di paragonare Lener al gigante capellone, non segue un filo logico, ma comincia dalla fine, quando dopo l’inoltro dell’istanza di ricusazione, lo chiamano a Roma per essere sentito dalla seconda commissione referente. Tema: l’eventuale trasferimento d’ufficio. È a Roma l’8 giugno in palazzo di giustizia con le sue cartelle sotto il braccio, quando per avvolgerle compra un giornale, e cosa ci vede?, la sua fotografia in prima pagina e la notizia che la Corte d’Appello ha accettato la ricusazione. Capito? “Quel che si dice un colpo alla fascista, mi hanno fatto partire apposta.”
Un’altra prova di livore e di malafede? La storia della sua promozione. Ogni anno il Consiglio superiore della magistratura indice un concorso per esami e per titoli a scelta del candidato. Lui aveva scelto di partecipare allo scrutinio (il parere del Consiglio giudiziario di Milano era più che favorevole: “rara competenza, onestissimo, quel che si dice un galantuomo”); in commissione c’erano altissimi magistrati, e che bisogno aveva di Lener? Lui sapeva soltanto che gli stava , a cuore l’andare in pensione con un titolo. Il 26, febbraio dunque Biotti si presenta alla commissione, cinque sono i giudici, e tre i voti favorevoli che riceve. Uno ancora, e sarebbe a posto. “Adesso indovini quando sarebbe stata la sessione del ricorso con il 99 per cento di probabilità di avere il voto in più? Il 18 giugno. Quasi in concomitanza con quella data, ecco la pugnalata alla schiena, la diffamazione.”
Ancora una premessa prima di arrivare al colloquio fatale. Tornato dalle ferie in settembre, Biotti fa il calendario per l’ottobre. Siccome il giudice Pulitanò non è in sede, forma il collegio Biotti-Favia-Cardona, per la prima udienza di ottobre. Ma non è il tribunale che decide la data dei processi: .è la Procura: Cosí il processo “Calabresi-Lotta continua” viene assegnato proprio al giorno in cui il collegio non contempla Pulitanò. “Certo è stato fissato apposta per questo. Pulitanò mi chiese d’esservi inserito, ma come facevo? Mi dispiaceva tanto togliere la signora Cardona e altrettanto dire a Pulitanò che sarebbe stato ricusato. E adesso mi darei degli schiaffi, perché non ho sostituito la signora, ecco come sono fesso. Allora Calabresi avrebbe detto forte e chiaro che lui non lo voleva il Pulitanò. Sarebbe saltato tutto il collegio, e a quest’ora io me ne sarei stato quieto e promosso.” (Che Lener temesse la presenza del giovane giudice è certo, dato che da tre anni egli svolge-una serie di attività politiche qualificate in seno a ” Magistratura democratica”; temeva ohc prendesse in mano il processo o avesse un certo peso nella sua conduzione.)
“Che impressione ha avuto sentendo Lener?” mi chiede subito. “Penso che sia d’accordo con me: sempre contrario, rabbioso, ringhioso, in lui io sentivo una sfida, ma ero deciso a tenergli testa: Di udienza in udienza poi si faceva sempre più animoso, ogni volta che accordo qualche cosa alla difesa di Baldelli, quando faccio venire il. registro della questura, mi accerto del fermo abusivo, tento un’inchiesta sull’orologio sparito, permetto il sopralluogo in questura, allora si son davvero tutti `rizzelati,’ Lener e i poliziotti, né io potevo trattenermi dal dire che nello schizzo del `Corriere’ la stanza pareva molto più grande (a parte che Lener il processo l’avrebbe voluto a porte chiuse).”
Avanti con le udienze per tutto ottobre, il sopralluogo è il 6 novembre, poi ancora udienze il 13 e il 16 novembre. È a questa data, a sentir Biotti, che lui comincia a seccarsi. Come un muro ostile, si sente crescere intorno il malumore di Lener; si accorge poi che il telefono di casa funziona a modo suo, tutto un cric, un’interruzione, anomali squilli e lui che parla senza che l’altro senta o viceversa: in strada è seguito, anche sull’autobus e in tram. (così decide d’andare a trovare Lener “per vedere se questo messere mi è nemico acerrimo o conserva un briciolo di onestà.” Gli telefona, lui non c’è, quando torna si mettono d’accordo per l’incontro, e Biotti, sempre per misure cautelative; chiede di entrare da una porta secondaria.
“Sono le cinque del 21 novembre 1970, piove a secchi, entro da via Monte Napoleone invece che da corso Matteotti, e li mi aspetta l’autista che mi fa traversare due cortili; poi su con l’ascensore, ed ecco questa pulce che io sono, in casa del plurimiliardario, e poi ha anche uno yacht, quattro cabine, due marinai tutto l’anno.
“Lo vedo subito nero, incupito, nemico. Allora mi arrabbio anch’io: `Lei mi ha rotto l’anima,’ gli dico, `mi sta provocando un sacco di guai, mi ha ricusato il Pulitanò e adesso me lo perseguita.’ `Non solo, ma l’ho anche denunciato,’ risponde quello, furente.” (In novembre infatti era stata aperta un’inchiesta preliminare contro questo magistrato in seguito a un esposto di Lener sulla faccenda dell’esclusione dal collegio e le conseguenti notizie sulla stampa.) E avanti con un delirante discorso in cui, invocando il giudice Calamari, grida che bisogna “finirla per sempre con quelli di sinistra, affossarli, distruggerli.” “Non parliamo poi della cosa più imbecille che è la perizia” (quella sulle foto e i reperti sulla macchia ovulare con sospetto colpo di karaté). A1 che Biotti risponde: “Il tribunale farà quello che deve fare; se deve fare una perizia la farà.” E qui, sempre a detta del giudice, finisce l’incontro, e lui se ne va dopo nove minuti in tutto.
Tempestoso il colloquio, normali le tre udienze seguenti, benché Lener presenti un inutile schizzo del corpo umano discutendone la circolazione del sangue, il bulbo e la macchia, esibendo oltre a tutto, per far scena, le tremende foto a colori della strage di piazza Fontana. Si arriva così al 27, quando tornando a casa alle tre, ai primi bocconi della sua colazione, Biotti decide di leggere quella lettera di Lener li in vista a pochi centimetri su un tavolino. La legge, quasi si strozza: “Lei è un pazzo,” grida nel telefono all’avvocato, “questa lettera io la straccio.” “E io la conservo,” fa Lener. ” E io me la metto dove lei pensa,” conclude Biotti infuriato.
Si può vederla questa lettera? azzardo. No, si, no, “Ma si, che me n’importa?” E Biotti me la legge. È del 26 novembre, e comincia così: “Signor Presidente, ieri mi è venuta un’idea” e l’idea gli è venuta in seguito a “una sconcertante impressione,” a “un’insolita scena”: Baldelli che si avvicina a Biotti, gli dice qualcosa sorridendo, e gli stringe la mano. (Avvertiva il presidente che sarebbe mancato alla prossima udienza, e Biotti usa stringer la mano a chi gliela tende.)
Lener prosegue con la storia della telefonata, in cui Biotti propone di vederlo “anche in un bar” (lui che non ci mette mai piede, e la moglie, se ha sete, se la tiene). Quando Lener torna da Roma dove assisteva il Credito lombardo di Milano si mette a sua disposizione per l’incontro. Ed ecco, secondo Lener (nel suo solito stile, puntini compresi, zoppicante sintassi, personali scoperte e deduzioni), i motivi della visita. Era in corso una pratica presso il Consiglio superiore per la promozione di Biotti, pratica controllata da persone di sua fiducia e di cui Biotti non si sentiva di turbar l’andamento. “Il discorso semipatetico si spostava:.. sul processo in corso. Lei m’informava delle molte pressioni… capitanate dal vicepresidente della sezione dottor Martino:
“Feci due osservazioni: avevo visto che l’uditore alla Sua destra si incontrava spesso col giudice Martino dopo ,l’udienza, evidentemente informandolo di quanto era avvenuto. Alla mia seconda domanda se l’uditore era nipote o congiunto di Beria d’Argentine, e se questi era la persona che controllava la sua pratica, Lei sorrise senza rispondermi.”
Quindi la confessione che tanto Biotti che il giudice a latere erano inclini a credere al colpo di karatè con lesione al bulbo spinale, che l’orologio fantasma sarebbe stato portato via per non rivelare l’orario della caduta e delle percosse. “Fu allora che mi impennai,” continua Lener, “dimostrando il `dato’ più imbecille che si era materializzato nel corso della campagna di stampa. Ecco perché alla ripresa dell’udienza ho cercato di dimostrare l’assurdità scandalosa di quel `dato’ e lessi la mia nota disperando della Sua buona volontà di leggere gli atti. Ma il Suo sguardo durante la mia lettura era assente e dimostrava fastidio e disattenzione. Lei mi informò che il collegio, non conferendo alcuna importanza alla perizia ordinata e fatta eseguire dal dottor Caizzi, era deciso a ordinarne un’altra… Rimasi di stucco, non supponendo che le influenze esercitate avessero anche potuto incrinare il riguardo verso la Procura della Repubblica.”
“Allargai le braccia per esprimere lo scoramento di chi si trovi di fronte improvvisamente a una frana di tutto un mondo nel quale era vissuto per cinquant’anni.” Dopo lo scoramento espresso a braccia, Lener gli chiede se crede alle “atroci accuse rivolte al Calabresi e alla polizia in genere;” e “Lei, abbassando gli occhi fece cenno di sì, con un gesto che significava… qualcosa di più.” Quindi, “per medicare il colpo inferto nonostante la trentennale amicizia,” Biotti avrebbe offerto la scelta della terna dei nomi dei periti di prossima nomina.
Poi “andando a ritroso col pensiero,” Lener si spiega molte cose, l’applauso alla lettura della dichiarazione di Baldelli, il “linciaggio morale” del suo cliente in aula, il disordine del sopralluogo nel caos di tutta quella gente, la sua osservazione che la stanza era troppo piccola, perché il Pinelli potesse deambulare, “frase captata dalla giornalista `Cederna’.” Ciò per tacere di altre affermazioni e confidenze sul processo fatte in altre occasioni, anche nello stadio di San Siro..(A San Siro Biotti giura che parla unicamente di calcio.)
“Signor Presidente, Lei . non ha potuto o voluto rendersi contò né del merito della causa né delle sue ripercussioni nell’ambito nazionale, consentendo, e concludo, che il processo che riguarda strettamente Calabresi come prescrive la legge sulla obiettività rigorosa della prova di fatto, investisse tutta la polizia.” Le conclusioni? Due commi tecnici che significano: “O ti ritiri o ti ricuso.”
Perché non ha mostrato la lettera al presidente del tribunale?, vien spontaneo di chiedergli. Perché, risponde Biotti, “era una lettera privata di cui faccio l’uso che credo, sono forte della mia coscienza, e sono sotto l’usbergo del sentirmi puro.” Il resto è noto. Altre tre udienze in dicembre, il 24 un’altra lettera di Lener che “augura al Presidente Biotti e alla Sua gentile famiglia Buon Natale e un 1971 di successo e di serenità.” (“Pensi un po’!”), Quindi si incaricano cinque periti di far la perizia sulla foto della macchia ovulare, il 25 marzo rispondono praticamente con un nulla di fatto, il 26 marzo il tribunale autorizza la perizia con riesumazione. Il primo incidente di esecuzione di Lener viene respinto, il 29 maggio è fissata l’udienza per discutere il secondo, e nel frattempo Biotti sa che è stata presentata l’istanza di ricusazione. Offeso, si astiene dall’udienza, e va in cancelleria dove vede che l’istanza è ammessa.
Morale: la tomba resta chiusa, la Corte d’Appello accetta la ricusazione, Biotti ricorre in Cassazione, vuole essere anche ascoltato dal plenum del Consiglio superiore, definendo ‘Tatto di ricusazione la più inaudita ribellione che sia mai stata posta in essere contro la decisione del tribunale che una volta era sovrana,” e: “Io sono solo e ho contro di me forze che son montagne dolomitiche, dietro Lener chi sa cosa c’è, certo non agisce da solo, lui ha il potere alle spalle.”
Finisce qui la mia “immersione” personale sulla vicenda; così da questo momento tenterò soltanto di raccogliere quel che succede dopo un fatto di tale gravità. Passa qualche giorno di sbigottimento ad ogni livello, poi si scatena il caos. Il consigliere istruttore Amati e il sostituto procuratore Caizzi fanno appello al Consiglio superiore della magistratura perché giudicano “gravemente lesivo della loro probità nell’esercizio delle funzioni giudiziarie” il passo che in quella lettera degli intellettuali li riguarda da vicino; Lener manda un biglietto ad. ognuno dei dieci firmatari per spiegar loro grosso modo che non hanno capito niente e che non dovevano lasciarsi plagiare da una matura sibilla “un po’ bionda e no, eppur sculettante nei suoi giovanili pantaloncini” (ebbene, allude alla vostra cronista, che in un’intervista, rilasciata poco tempo dopo al “Tempo” di Roma, egli definirà qualcosa come una mitomane isterica).
La Cassazione decide di aprire un procedimento nei confronti di Biotti.
Biotti si sceglie come difensore l’avvocato Federico Sordillo, diventato proprio in questi giorni presidente del Milan (non bisogna dimenticare che Biotti stesso ne è consigliere amministrativo). La questura smentisce d’aver controllato i suoi movimenti e il suo telefono: anzi fa un rapporto alla Procura della Repubblica perché le hanno falsamente attribuito tali fatti illeciti.
Il giudice Martino e il dottor Bruti Liberati respingono sdegnosamente le accuse di esser stati il tramite delle pressioni del giudice, chiedendo che un’indagine approfondita ristabilisca la verità. Anche Beria d’Argentine sollecita un accertamento per quel che lo riguarda al Consiglio superiore, esigendo che i risultati siano resi pubblici alla stampa e che addirittura i giornalisti possano essere presenti alla riunione del consiglio in cui questi verranno discussi.
Lener chiede al Consiglio milanese dell’Ordine degli avvocati di aprire un’inchiesta sul suo conto, e chi ne dà notizia ai giornalisti è il presidente del consiglio dell’Ordine, avvocato Giuseppe Prisco. Ma Lener smentisce e Prisca conferma. Il penalista Alberto Dall’Ora scrive su “Epoca” un articolo in cui prende vagamente posizione per Biotti, criticando questo modo di ricusare, e ne ha in risposta una furiosa lettera di Lener, per cui si rompono definitivamente i rapporti fra i due. (E il numero dopo, smentendo Dall’Ora, “Epoca” fa scrivere un articolo riparatore ad Augusto Guerriero che scarica tutta la colpa del pasticcio sull’attuale “politicizzazione” della magistratura.) In tanto sdegno contro corrotti e corruttori c’è infatti anche questo pericolo: la posizione di Guerriero è comune a tutti quei reazionari che identificano le cause dello scandalo recente nel Consiglio superiore della magistratura, situato secondo loro su posizioni troppo avanzate, quindi da riformare, se non da abolire, per riportare tutti i giudici alle dipendenze del ministro della giustizia.
Ecco come sempre su “Tempo” di Roma, Lener geme su quanto è stato poi lui a provocare, ahimè i cittadini stanno perdendo la fiducia nella giustizia, perché “si è aperto uno squarcio su quel cancro del quale è infettata una sia pur piccola parte della nostra magistratura,” e addita come responsabili non certo gli istruttori del caso Pinelli o tutti i bugiardi annessi, ma altri non precisati magistrati, mescolando Biotti coi suoi colleghi di Milano finora accusati senza la minima prova, oltre a tutti quelli, che, denunciando la repressione, hanno spesso e duramente pagato di persona.
Se invece ci sarà ancora il processo, affermano le correnti di punta, è indispensabile dar battaglia su due piani, uno interna al processo, l’altro che tenda a chiarire la situazione dentro la magistratura, tirandone a galla tutto il marciume: è molto importante, così dicono, che un bubbone come questo sia scoppiato, si tratta di .episodi che mostrano la necessità di introdurre dei meccanismi istituzionali e di controllo che d’ora innanzi possano impedirli.
Ed è proprio questo il discorso che fa perdere la testa alla destra politica e a quella giudiziaria: le quali hanno tutto l’interesse a rovesciare ogni responsabilità di scandalo della giustizia proprio sugli “innovatori.” Di qui, partendo dal cancro e dal bubbone, viene sferrato un massiccio attacco di destra contro il Consiglio superiore della magistratura, non tanto considerato solamente quel tal bastione avanzato a cui si accennava prima, ma nel quale si vuol vedere proprio chi ha suggerito a Biotti di voler condannare Calabresi, quindi il colpevole in generale di aver diffuso quell’altro mortale bacillo, e ci risiamo un’altra volta: il bacillo è la politicizzazione della magistratura.
Il quotidiano “Tempo” se ne fa il portavoce, e il primo a partire all’attacco è l’ex guardasigilli del re, Alfredo De Marsico, già ministro della giustizia di Mussolini, già componente del Gran consiglio del fascismo, che da tempo conduce una campagna contro il Consiglio superiore che egli definisce addirittura il corruttore politico della magistratura (mentre tutto si potrà dire di questo consiglio tranne che sia un organo dominato dalla sinistra). E “non si tratta di un attacco improvvisato,” spiegherà poi Marco Ramat su “Il Ponte” ma: “è un attacco che risale a tempo addietro, sia da parte dello stesso De Marsico, sia da parte di altri personaggi ben paludati di accademia (pensiamo a Salvatore Satta che da anni, anche in sede giornalistica, porta attacchi costanti contro i magistrati democratici, contro ogni forma di maturazione politica dei magistrati, e perfino, da ultimo, contro lo Statuto dei lavoratori che non è certo una legge rivoluzionaria, invitando – coerenza del sistema di diritto! – i giudici a violarlo).”
Nel coro non può mancare, com’è naturale, anche “Magistratura democratica,” con un comunicato che reagendo agli attacchi rovesciati sul Consiglio superiore (organo costituzionale della repubblica nata.dalla Resistenza) “denuncia invece la connessione fra queste manovre e il disegno politico eversivo contro le istituzioni democratiche, indica alle forze politiche democratiche e popolari, al mondo sindacale e del lavoro la necessità di reagire agli attacchi reazionari contro il Consiglio superiore e soprattutto richiama ai partiti politici antifascisti l’urgenza assoluta di riformare tale Consiglio per renderlo pm democratico e rappresentativo, affinché possa in avvenire meglio rispondere alle esigenze del paese e garantire la corretta amministrazione della giustizia, oggi come sempre soggetta a pressioni di destra.”
“Lei deve scrivere dappertutto a lettere di scatola, che Biotti è un fesso, è sempre stato un fesso, tutto quello che mi è successo lo prova, non essermi -accorto per tanti anni di essere stato accanto a un serpente boa” (e invano tenta di calmarlo quella signora amabilmente polposa che è la sua bionda consorte). “Adesso aspetto che si insedi bene il nuovo procuratore generale Bianchi d’Espinosa, e appena possibile, sporgo denunzia e querela.” Contro chi? Contro il serpente boa, contro l’avvocato Lener per le sue temerarie fandonie, il suo malevolo delirio, la sua pretestuosa e impudente richiesta di ricusazione.
“E mi fanno arrabbiare i miei amici che lo chiamano Gíuda perché ha tradito una confidenza, ma chi gliene ha mai fatta una? Secondo lei, dica la verità, le sembrò così cretino d’andare da lui a compromettermi a quel modo? Le confidenze non le ha mai tradite,. per il semplice fatto che non gli ho mai confidato nulla.” Nella sua invettiva Biotti diventa lirico: giudicando l’operato di Lener, d’accordo con D’Annunzio, egli dovrebbe concludere che “parla per farnetico.”
Proprio questo io ero venuta a chiedergli, dopo aver letto il documento approvato dalla Corte d’Appello: quali le ragioni di un contegno così assurdo? Per concludere dal canto mio quello che a tanti era già venuto in mente: quei sospetti di collusione a cui portano i lunghi rapporti fra avvocati e magistrati, ecco perché i grossi avvocati spesso si vantano di fare i processi non in aula ma nei corridoi. Ma subito mi travolge la sua eloquenza difensiva: “Lener deve provare che sono andato a parlargli di baratto, di promozione, di pressioni, ho chiesto perfino un provvedimento disciplinare perché si faccia piena luce su tutto, e allora cada Sansone con tutti i Filistei.” Giacché sta sfogandosi, al punto di paragonare Lener al gigante capellone, non segue un filo logico, ma comincia dalla fine, quando dopo l’inoltro dell’istanza di ricusazione, lo chiamano a Roma per essere sentito dalla seconda commissione referente. Tema: l’eventuale trasferimento d’ufficio. È a Roma l’8 giugno in palazzo di giustizia con le sue cartelle sotto il braccio, quando per avvolgerle compra un giornale, e cosa ci vede?, la sua fotografia in prima pagina e la notizia che la Corte d’Appello ha accettato la ricusazione. Capito? “Quel che si dice un colpo alla fascista, mi hanno fatto partire apposta.”
Un’altra prova di livore e di malafede? La storia della sua promozione. Ogni anno il Consiglio superiore della magistratura indice un concorso per esami e per titoli a scelta del candidato. Lui aveva scelto di partecipare allo scrutinio (il parere del Consiglio giudiziario di Milano era più che favorevole: “rara competenza, onestissimo, quel che si dice un galantuomo”); in commissione c’erano altissimi magistrati, e che bisogno aveva di Lener? Lui sapeva soltanto che gli stava , a cuore l’andare in pensione con un titolo. Il 26, febbraio dunque Biotti si presenta alla commissione, cinque sono i giudici, e tre i voti favorevoli che riceve. Uno ancora, e sarebbe a posto. “Adesso indovini quando sarebbe stata la sessione del ricorso con il 99 per cento di probabilità di avere il voto in più? Il 18 giugno. Quasi in concomitanza con quella data, ecco la pugnalata alla schiena, la diffamazione.”
Ancora una premessa prima di arrivare al colloquio fatale. Tornato dalle ferie in settembre, Biotti fa il calendario per l’ottobre. Siccome il giudice Pulitanò non è in sede, forma il collegio Biotti-Favia-Cardona, per la prima udienza di ottobre. Ma non è il tribunale che decide la data dei processi: .è la Procura: Cosí il processo “Calabresi-Lotta continua” viene assegnato proprio al giorno in cui il collegio non contempla Pulitanò. “Certo è stato fissato apposta per questo. Pulitanò mi chiese d’esservi inserito, ma come facevo? Mi dispiaceva tanto togliere la signora Cardona e altrettanto dire a Pulitanò che sarebbe stato ricusato. E adesso mi darei degli schiaffi, perché non ho sostituito la signora, ecco come sono fesso. Allora Calabresi avrebbe detto forte e chiaro che lui non lo voleva il Pulitanò. Sarebbe saltato tutto il collegio, e a quest’ora io me ne sarei stato quieto e promosso.” (Che Lener temesse la presenza del giovane giudice è certo, dato che da tre anni egli svolge-una serie di attività politiche qualificate in seno a ” Magistratura democratica”; temeva ohc prendesse in mano il processo o avesse un certo peso nella sua conduzione.)
“Che impressione ha avuto sentendo Lener?” mi chiede subito. “Penso che sia d’accordo con me: sempre contrario, rabbioso, ringhioso, in lui io sentivo una sfida, ma ero deciso a tenergli testa: Di udienza in udienza poi si faceva sempre più animoso, ogni volta che accordo qualche cosa alla difesa di Baldelli, quando faccio venire il. registro della questura, mi accerto del fermo abusivo, tento un’inchiesta sull’orologio sparito, permetto il sopralluogo in questura, allora si son davvero tutti `rizzelati,’ Lener e i poliziotti, né io potevo trattenermi dal dire che nello schizzo del `Corriere’ la stanza pareva molto più grande (a parte che Lener il processo l’avrebbe voluto a porte chiuse).”
Avanti con le udienze per tutto ottobre, il sopralluogo è il 6 novembre, poi ancora udienze il 13 e il 16 novembre. È a questa data, a sentir Biotti, che lui comincia a seccarsi. Come un muro ostile, si sente crescere intorno il malumore di Lener; si accorge poi che il telefono di casa funziona a modo suo, tutto un cric, un’interruzione, anomali squilli e lui che parla senza che l’altro senta o viceversa: in strada è seguito, anche sull’autobus e in tram. (così decide d’andare a trovare Lener “per vedere se questo messere mi è nemico acerrimo o conserva un briciolo di onestà.” Gli telefona, lui non c’è, quando torna si mettono d’accordo per l’incontro, e Biotti, sempre per misure cautelative; chiede di entrare da una porta secondaria.
“Sono le cinque del 21 novembre 1970, piove a secchi, entro da via Monte Napoleone invece che da corso Matteotti, e li mi aspetta l’autista che mi fa traversare due cortili; poi su con l’ascensore, ed ecco questa pulce che io sono, in casa del plurimiliardario, e poi ha anche uno yacht, quattro cabine, due marinai tutto l’anno.
“Lo vedo subito nero, incupito, nemico. Allora mi arrabbio anch’io: `Lei mi ha rotto l’anima,’ gli dico, `mi sta provocando un sacco di guai, mi ha ricusato il Pulitanò e adesso me lo perseguita.’ `Non solo, ma l’ho anche denunciato,’ risponde quello, furente.” (In novembre infatti era stata aperta un’inchiesta preliminare contro questo magistrato in seguito a un esposto di Lener sulla faccenda dell’esclusione dal collegio e le conseguenti notizie sulla stampa.) E avanti con un delirante discorso in cui, invocando il giudice Calamari, grida che bisogna “finirla per sempre con quelli di sinistra, affossarli, distruggerli.” “Non parliamo poi della cosa più imbecille che è la perizia” (quella sulle foto e i reperti sulla macchia ovulare con sospetto colpo di karaté). A1 che Biotti risponde: “Il tribunale farà quello che deve fare; se deve fare una perizia la farà.” E qui, sempre a detta del giudice, finisce l’incontro, e lui se ne va dopo nove minuti in tutto.
Tempestoso il colloquio, normali le tre udienze seguenti, benché Lener presenti un inutile schizzo del corpo umano discutendone la circolazione del sangue, il bulbo e la macchia, esibendo oltre a tutto, per far scena, le tremende foto a colori della strage di piazza Fontana. Si arriva così al 27, quando tornando a casa alle tre, ai primi bocconi della sua colazione, Biotti decide di leggere quella lettera di Lener li in vista a pochi centimetri su un tavolino. La legge, quasi si strozza: “Lei è un pazzo,” grida nel telefono all’avvocato, “questa lettera io la straccio.” “E io la conservo,” fa Lener. ” E io me la metto dove lei pensa,” conclude Biotti infuriato.
Si può vederla questa lettera? azzardo. No, si, no, “Ma si, che me n’importa?” E Biotti me la legge. È del 26 novembre, e comincia così: “Signor Presidente, ieri mi è venuta un’idea” e l’idea gli è venuta in seguito a “una sconcertante impressione,” a “un’insolita scena”: Baldelli che si avvicina a Biotti, gli dice qualcosa sorridendo, e gli stringe la mano. (Avvertiva il presidente che sarebbe mancato alla prossima udienza, e Biotti usa stringer la mano a chi gliela tende.)
Lener prosegue con la storia della telefonata, in cui Biotti propone di vederlo “anche in un bar” (lui che non ci mette mai piede, e la moglie, se ha sete, se la tiene). Quando Lener torna da Roma dove assisteva il Credito lombardo di Milano si mette a sua disposizione per l’incontro. Ed ecco, secondo Lener (nel suo solito stile, puntini compresi, zoppicante sintassi, personali scoperte e deduzioni), i motivi della visita. Era in corso una pratica presso il Consiglio superiore per la promozione di Biotti, pratica controllata da persone di sua fiducia e di cui Biotti non si sentiva di turbar l’andamento. “Il discorso semipatetico si spostava:.. sul processo in corso. Lei m’informava delle molte pressioni… capitanate dal vicepresidente della sezione dottor Martino:
“Feci due osservazioni: avevo visto che l’uditore alla Sua destra si incontrava spesso col giudice Martino dopo ,l’udienza, evidentemente informandolo di quanto era avvenuto. Alla mia seconda domanda se l’uditore era nipote o congiunto di Beria d’Argentine, e se questi era la persona che controllava la sua pratica, Lei sorrise senza rispondermi.”
Quindi la confessione che tanto Biotti che il giudice a latere erano inclini a credere al colpo di karatè con lesione al bulbo spinale, che l’orologio fantasma sarebbe stato portato via per non rivelare l’orario della caduta e delle percosse. “Fu allora che mi impennai,” continua Lener, “dimostrando il `dato’ più imbecille che si era materializzato nel corso della campagna di stampa. Ecco perché alla ripresa dell’udienza ho cercato di dimostrare l’assurdità scandalosa di quel `dato’ e lessi la mia nota disperando della Sua buona volontà di leggere gli atti. Ma il Suo sguardo durante la mia lettura era assente e dimostrava fastidio e disattenzione. Lei mi informò che il collegio, non conferendo alcuna importanza alla perizia ordinata e fatta eseguire dal dottor Caizzi, era deciso a ordinarne un’altra… Rimasi di stucco, non supponendo che le influenze esercitate avessero anche potuto incrinare il riguardo verso la Procura della Repubblica.”
“Allargai le braccia per esprimere lo scoramento di chi si trovi di fronte improvvisamente a una frana di tutto un mondo nel quale era vissuto per cinquant’anni.” Dopo lo scoramento espresso a braccia, Lener gli chiede se crede alle “atroci accuse rivolte al Calabresi e alla polizia in genere;” e “Lei, abbassando gli occhi fece cenno di sì, con un gesto che significava… qualcosa di più.” Quindi, “per medicare il colpo inferto nonostante la trentennale amicizia,” Biotti avrebbe offerto la scelta della terna dei nomi dei periti di prossima nomina.
Poi “andando a ritroso col pensiero,” Lener si spiega molte cose, l’applauso alla lettura della dichiarazione di Baldelli, il “linciaggio morale” del suo cliente in aula, il disordine del sopralluogo nel caos di tutta quella gente, la sua osservazione che la stanza era troppo piccola, perché il Pinelli potesse deambulare, “frase captata dalla giornalista `Cederna’.” Ciò per tacere di altre affermazioni e confidenze sul processo fatte in altre occasioni, anche nello stadio di San Siro..(A San Siro Biotti giura che parla unicamente di calcio.)
“Signor Presidente, Lei . non ha potuto o voluto rendersi contò né del merito della causa né delle sue ripercussioni nell’ambito nazionale, consentendo, e concludo, che il processo che riguarda strettamente Calabresi come prescrive la legge sulla obiettività rigorosa della prova di fatto, investisse tutta la polizia.” Le conclusioni? Due commi tecnici che significano: “O ti ritiri o ti ricuso.”
Perché non ha mostrato la lettera al presidente del tribunale?, vien spontaneo di chiedergli. Perché, risponde Biotti, “era una lettera privata di cui faccio l’uso che credo, sono forte della mia coscienza, e sono sotto l’usbergo del sentirmi puro.” Il resto è noto. Altre tre udienze in dicembre, il 24 un’altra lettera di Lener che “augura al Presidente Biotti e alla Sua gentile famiglia Buon Natale e un 1971 di successo e di serenità.” (“Pensi un po’!”), Quindi si incaricano cinque periti di far la perizia sulla foto della macchia ovulare, il 25 marzo rispondono praticamente con un nulla di fatto, il 26 marzo il tribunale autorizza la perizia con riesumazione. Il primo incidente di esecuzione di Lener viene respinto, il 29 maggio è fissata l’udienza per discutere il secondo, e nel frattempo Biotti sa che è stata presentata l’istanza di ricusazione. Offeso, si astiene dall’udienza, e va in cancelleria dove vede che l’istanza è ammessa.
Morale: la tomba resta chiusa, la Corte d’Appello accetta la ricusazione, Biotti ricorre in Cassazione, vuole essere anche ascoltato dal plenum del Consiglio superiore, definendo ‘Tatto di ricusazione la più inaudita ribellione che sia mai stata posta in essere contro la decisione del tribunale che una volta era sovrana,” e: “Io sono solo e ho contro di me forze che son montagne dolomitiche, dietro Lener chi sa cosa c’è, certo non agisce da solo, lui ha il potere alle spalle.”
Finisce qui la mia “immersione” personale sulla vicenda; così da questo momento tenterò soltanto di raccogliere quel che succede dopo un fatto di tale gravità. Passa qualche giorno di sbigottimento ad ogni livello, poi si scatena il caos. Il consigliere istruttore Amati e il sostituto procuratore Caizzi fanno appello al Consiglio superiore della magistratura perché giudicano “gravemente lesivo della loro probità nell’esercizio delle funzioni giudiziarie” il passo che in quella lettera degli intellettuali li riguarda da vicino; Lener manda un biglietto ad. ognuno dei dieci firmatari per spiegar loro grosso modo che non hanno capito niente e che non dovevano lasciarsi plagiare da una matura sibilla “un po’ bionda e no, eppur sculettante nei suoi giovanili pantaloncini” (ebbene, allude alla vostra cronista, che in un’intervista, rilasciata poco tempo dopo al “Tempo” di Roma, egli definirà qualcosa come una mitomane isterica).
La Cassazione decide di aprire un procedimento nei confronti di Biotti.
Biotti si sceglie come difensore l’avvocato Federico Sordillo, diventato proprio in questi giorni presidente del Milan (non bisogna dimenticare che Biotti stesso ne è consigliere amministrativo). La questura smentisce d’aver controllato i suoi movimenti e il suo telefono: anzi fa un rapporto alla Procura della Repubblica perché le hanno falsamente attribuito tali fatti illeciti.
Il giudice Martino e il dottor Bruti Liberati respingono sdegnosamente le accuse di esser stati il tramite delle pressioni del giudice, chiedendo che un’indagine approfondita ristabilisca la verità. Anche Beria d’Argentine sollecita un accertamento per quel che lo riguarda al Consiglio superiore, esigendo che i risultati siano resi pubblici alla stampa e che addirittura i giornalisti possano essere presenti alla riunione del consiglio in cui questi verranno discussi.
Lener chiede al Consiglio milanese dell’Ordine degli avvocati di aprire un’inchiesta sul suo conto, e chi ne dà notizia ai giornalisti è il presidente del consiglio dell’Ordine, avvocato Giuseppe Prisco. Ma Lener smentisce e Prisca conferma. Il penalista Alberto Dall’Ora scrive su “Epoca” un articolo in cui prende vagamente posizione per Biotti, criticando questo modo di ricusare, e ne ha in risposta una furiosa lettera di Lener, per cui si rompono definitivamente i rapporti fra i due. (E il numero dopo, smentendo Dall’Ora, “Epoca” fa scrivere un articolo riparatore ad Augusto Guerriero che scarica tutta la colpa del pasticcio sull’attuale “politicizzazione” della magistratura.) In tanto sdegno contro corrotti e corruttori c’è infatti anche questo pericolo: la posizione di Guerriero è comune a tutti quei reazionari che identificano le cause dello scandalo recente nel Consiglio superiore della magistratura, situato secondo loro su posizioni troppo avanzate, quindi da riformare, se non da abolire, per riportare tutti i giudici alle dipendenze del ministro della giustizia.
Ecco come sempre su “Tempo” di Roma, Lener geme su quanto è stato poi lui a provocare, ahimè i cittadini stanno perdendo la fiducia nella giustizia, perché “si è aperto uno squarcio su quel cancro del quale è infettata una sia pur piccola parte della nostra magistratura,” e addita come responsabili non certo gli istruttori del caso Pinelli o tutti i bugiardi annessi, ma altri non precisati magistrati, mescolando Biotti coi suoi colleghi di Milano finora accusati senza la minima prova, oltre a tutti quelli, che, denunciando la repressione, hanno spesso e duramente pagato di persona.
Se invece ci sarà ancora il processo, affermano le correnti di punta, è indispensabile dar battaglia su due piani, uno interna al processo, l’altro che tenda a chiarire la situazione dentro la magistratura, tirandone a galla tutto il marciume: è molto importante, così dicono, che un bubbone come questo sia scoppiato, si tratta di .episodi che mostrano la necessità di introdurre dei meccanismi istituzionali e di controllo che d’ora innanzi possano impedirli.
Ed è proprio questo il discorso che fa perdere la testa alla destra politica e a quella giudiziaria: le quali hanno tutto l’interesse a rovesciare ogni responsabilità di scandalo della giustizia proprio sugli “innovatori.” Di qui, partendo dal cancro e dal bubbone, viene sferrato un massiccio attacco di destra contro il Consiglio superiore della magistratura, non tanto considerato solamente quel tal bastione avanzato a cui si accennava prima, ma nel quale si vuol vedere proprio chi ha suggerito a Biotti di voler condannare Calabresi, quindi il colpevole in generale di aver diffuso quell’altro mortale bacillo, e ci risiamo un’altra volta: il bacillo è la politicizzazione della magistratura.
Il quotidiano “Tempo” se ne fa il portavoce, e il primo a partire all’attacco è l’ex guardasigilli del re, Alfredo De Marsico, già ministro della giustizia di Mussolini, già componente del Gran consiglio del fascismo, che da tempo conduce una campagna contro il Consiglio superiore che egli definisce addirittura il corruttore politico della magistratura (mentre tutto si potrà dire di questo consiglio tranne che sia un organo dominato dalla sinistra). E “non si tratta di un attacco improvvisato,” spiegherà poi Marco Ramat su “Il Ponte” ma: “è un attacco che risale a tempo addietro, sia da parte dello stesso De Marsico, sia da parte di altri personaggi ben paludati di accademia (pensiamo a Salvatore Satta che da anni, anche in sede giornalistica, porta attacchi costanti contro i magistrati democratici, contro ogni forma di maturazione politica dei magistrati, e perfino, da ultimo, contro lo Statuto dei lavoratori che non è certo una legge rivoluzionaria, invitando – coerenza del sistema di diritto! – i giudici a violarlo).”
Nel coro non può mancare, com’è naturale, anche “Magistratura democratica,” con un comunicato che reagendo agli attacchi rovesciati sul Consiglio superiore (organo costituzionale della repubblica nata.dalla Resistenza) “denuncia invece la connessione fra queste manovre e il disegno politico eversivo contro le istituzioni democratiche, indica alle forze politiche democratiche e popolari, al mondo sindacale e del lavoro la necessità di reagire agli attacchi reazionari contro il Consiglio superiore e soprattutto richiama ai partiti politici antifascisti l’urgenza assoluta di riformare tale Consiglio per renderlo pm democratico e rappresentativo, affinché possa in avvenire meglio rispondere alle esigenze del paese e garantire la corretta amministrazione della giustizia, oggi come sempre soggetta a pressioni di destra.”
Finché a tutti i magistrati e gli avvocati di Milano arriva una lunga lettera dell’avvocato Massimo De Carolis (capogruppo democristiano in Palazzo Marino, e sostenitore delle manifestazioni fasciste della maggioranza silenziosa) e del suo collega avvocato Lodovico Isolabella. Nella lettera essi si scagliano in un linguaggio strano contro la “reiterata” pubblicazione, su tre numeri dell’ “Espresso,” della lettera aperta sottoscritta da tutte le persone sdegnate per l’andamento della vicenda “Calabresi-Lotta continua.” Schierati insieme con la questura questi due legali risultano strenui difensori di Caizzi e di Amati: Scrivono infatti che essi “hanno agito secondo l’imperativo della verità alla luce della loro coscienza,” che Caizzi, iniziati gli accertamenti preliminari “li ha conclusi con fulminea rapidità, accurati, meticolosi, complessi.” Infine Amati, (;aizzi e Calabresi, secondo la lettera, sarebbero “persone libere e oneste che giorno per giorno spendono la loro esistenza sulla tutela di un sistema che si regge su ossatura pregna di autentici valori e che rivendica sicure grandezze.”
Si son citati
finora personaggi molto in vista con le sorprese che ci riservano; ma una
sorpresa, e sconcertante anche questa, ora ci viene anche dal basso. Un giovane
avvocato sta parlando con un magistrato in un ufficio di palazzo di giustizia,
ed ecco entrare a un tratto un cancelliere con un fascicolo in mano. Corretto
saluto, giù il fascicolo a via. È uno dei nuovi, fa il magistrato. Ma dove l’ho
già visto? si chiede l’avvocato, quel tipo lì lo conosco, così massiccio, gli
occhiali e tutti quei capelli.
Certo che è una vecchia conoscenza: è l’ex brigadiere ed ora maresciallo Pietro Mucilli, già appartenente all’ufficio politico della questura, uno degli inquisitori del caso Pinelli presenti alla sua morte, nonché principale teste di accusa contro i giovani che avevano manifestato per l’eccidio di Battipaglia, e ancora teste a carico nel processo contro gli anarchici, buon picchiatore, sospettato d’aver messo in tasca a uno degli imputati “per incastrarlo” lo schema di uri ordigno esplosivo. Ed ora, chi se l’aspettava?, c stato assunto, quindi premiato, dall’ufficio Istruzione.
Un’altra vecchia conoscenza, ma in posizione eccelsa, si ritrova nel tetro palazzo, e questo è un ritorno di prestigio, è Luigi Bianchi d’Espinosa, che si è insediato a Milano da poco come procuratore generale: È lí che lavora nel suo ufficio il 24 giugno, un giorno di gran caldo, mentre a un certo punto gli si fa annunciare l’avvocato Carlo Smuraglia. Si conoscono da vent’anni, cordiale l’incontro, molti gli argomenti e i ricordi comuni.
Il procuratore parla volentieri, ed è noto per il suo humour quieto ma pungente, che non si smorza neppure quando l’avvocato gli comunica, che oltre a venirgli a dire com’è contento che sia tornato, anche a nome del collega Domenico Contestabile, deve consegnargli un documento, anzi glielo consegna personalmente, dato che è molto grave e delicato. “Lei sa che mi interessano casi così,” fa Bianchi d’Espinosa, e col suo piccolo sorriso ironico, senza sapere quanto è esplosivo, tende la mano verso il fascicolo.
È certo più delicato e più grave di quanto egli non pensasse, è il bruciante esposto di una donna crudelmente ferita. Tramite i suoi legali, essa fa una critica lucida e amara del tenebroso evento che l’ha coinvolta, e che a un certo punto scoppia in aperta denuncia. Sono ventun pagine infatti in cui Licia Pinelli chiede la riapertura della istruttoria e l’incriminazione di tutti i poliziotti meritevoli di ogni sospetto, i commissari Allegra e Calabresi, i sottufficiali Panessa, Caracuta, Mucilli, Mainardi, oltre al capitano dei carabinieri Lo Grano. I reati? Omicidio volontario, violenze private, sequestro di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità.
Tutte in fila dunque le pecche dell’inchiesta ufficiale sulla morte condotta dalla Procura (da cui eran stati esclusi i familiari Pinelli), quindi di quel farraginoso sfacelo di istruttoria con relativo decreto d’archiviazione, zeppo a sua volta di inaudite prove di parzialità verso gli agenti di polizia, di deposizioni mutevoli ad ogni voltar di pagina, e tutte col piombo nelle ali, per arrivare a un altro incredibile fatto, a quando cioè l’istruttoria sulle cause della morte di Pinelli finisce per svolgersi in un processo diverso con un imputato diverso, ancora una volta senza alcuna partecipazione di chi vi ha diritto, particolarmente della vedova. (E qui bisogna riconoscere che di rado si è assistito a qualcosa di più aberrante.)
Insomma un dizionario di gaffes, decisioni arbitrarie, ragionamenti del tutto inaccessibili alla normale ragione, di persecuzioni ed interrogatori insidiosi, intimidatori e fraudolenti, di rievocazioni confuse e contraddittorie su quella tal notte dal 15 al 16 dicembre ’69 (mai un confronto tra quanti, pur volendo dare una comune versione di innocenze, per scempiaggine, raptus o distrazione, finiscono sempre con lo smentire i compari); in più colpevoli vuoti di memoria, orari che vischiosamente spostandosi, si sovrappongono o si dilatano senza che nessuno riesca nemmeno ad accordarsi né sull’ora delle provocazioni né sull’ora della chiamata dell’autoambulanza.
Nessuno poi che sappia spiegare il perché tanto di quel segno d’agopuntura alla piega del gomito (mentre a 21 mesi di distanza salterà fuori la cartella clinica con la pro va dell’iniezione), quanto dell’esistenza alla base del collo della famosa macchia di forma ovale. Questa macchia, continua l’esposto (se non riguarda contusioni o lesioni da caduta, come riconoscono i periti) non può essere il segno di violenze commesse contro il Pinelli diventato ormai “persona scomoda” quando era ancora vivo in quella stanzetta? Non si fa dunque attendibile la tesi del karatè, accolta, a quanto Lener ha imprudentemente affermato, anche dallo stesso consiglio giudicante?
Prende corpo allora l’esposto della vedova, “un estremo tentativo di ottenere giustizia nel nome del marito tragicamente privato della vita, e delle bambine, che hanno diritto almeno di veder restituita al padre quell’integrità morale e quella saldezza che conobbero in lui. Spera infine che ancora una volta non vada delusa l’attesa che oggi non è più soltanto sua, ma dell’intera collettività.”
È una decisione maturata a lungo, a cui Licia Pinelli è arrivata responsabilmente in seguito alla somma di insensatezze dell’anno scorso e agli ultimi sviluppi (tentativo di far saltare il processo, certezza che sia stato truccato). Insomma, visto che la magistratura non ha fatto il suo dovere e si tenta di chiudere il canale Baldelli, ecco che la vedova ne apre un altro, il piú logico, il più diretto.
C’è un’altra ragione ancora perché ora esca fuori questo documento, ed è la presenza al vertice della Procura di quest’uomo nuovo, che gode fama di democratico, che è antifascista per costituzione, è nato e cresciuto alla scuola di Calamandrei, è considerato un enfant prodige della magistratura, perché approdato giovanissimo in Cassazione, e subito noto per i suoi atteggiamenti contrari al conservatorismo ambientale. (Quando arrivò a Milano come presidente del tribunale, prese in mano personalmente i processi penali di spicco come la “Zanzara” e il processo Riva, in questo andando contro Lener, allora difensore del malaugurato Felicino. )
Diventato capogabinetto del ministro repubblicano Reale dopo una parentesi veneziana, appena a Milano di nuovo, nella sua lunga intervista al “Corriere” (un’intervista da “Corriere,” appunto, senza nessuna impennata) c’è però una frase che piace ai democratici: “II mio compito è di far rispettare la legge nei confronti di chiunque.” Così si spera che per una volta nel “chiunque” sia compresa la polizia.
Ci si domanda ora cosa possa fare di questo esposto il procuratore generale che ha sempre amato le situazioni rischiose. Deve decidere prestissimo, perché son prossime le ferie. È difficile che possa consultarsi col suo avvocato generale, quel Pontrelli che a suo tempo aveva promosso il procedimento di trasferimento a Genova del processo della “Zanzara” per legittima suspicione. Deve decidere da solo, e nella sua decisione si misurerà l’autenticità dei suoi sentimenti democratici.
Posizione tutt’altro che invidiabile la sua; stretto com’è fra due fuochi. Da un lato la sua ambizione, il suo prestigio, e dall’altro la sua carriera. E qualsiasi decisione in questo affare può essere un errore per lui: a lui l’errore che ripugna meno alla sua coscienza.
Bianchi d’Espinosa può dunque trasmettere gli atti al giudice istruttore con richiesta d’archiviazione (ma non lo farà; certo, non ama mettersi al livello di Caizzi ed Amati). Può avocare a sé l’istruttoria ricominciando daccapo oppure continuando con gli atti che crede (nuovi interrogatori e la riesumazione). Può lavarsene le mani, deferendo gli atti al giudice istruttore con richiesta di procedere con istruttoria formale (trentaquattro sono i magistrati di cui Amati dispone). Se no potrebbe emettere gli ordini di cattura e procedere contro gli imputati. Questo in poche righe il nuovo test per Bianchi d’Espinosa.
Benché, anche per ragioni di vacanze, egli incarichi della nuova istruttoria il sostituto procuratore generale Mauro Gresti, sarà presente all’interrogatorio di Licia Pinelli, la donna che in un anno e mezzo non ha mai sbagliato un colpo, che questo suo ultimo atto lo considera un dovere morale, che non ha mai avuto un cedimento sentimentale né una lacrima, esemplare per dignità e controllo, occhi impavidi ed un pallore quasi magnetico nel suo bel viso di italiana antica.
Parlerà con Lener, 1′atrabiliare, intorno al quale si è urcato un vuoto fisico e morale da incubo e che con le sue intemperanze ha ottenuto il peggiore dei risultati per il suo cliente; vedrà il giudice Biotti, che per ora sta pagando per tutti e per il quale è stata chiesta la sospensione dall’ufficio c dallo stipendio. E naturalmente Calabresi che, sempre ” Milano, partecipa attivamente alle cariche contro l’Unione Inquilini.
La prima risposta alla denuncia della signora Pinelli? È incredibile, viene dall’alto ed è la promozione di Calabresi da commissario aggiunto a commissario capo.
Certo che è una vecchia conoscenza: è l’ex brigadiere ed ora maresciallo Pietro Mucilli, già appartenente all’ufficio politico della questura, uno degli inquisitori del caso Pinelli presenti alla sua morte, nonché principale teste di accusa contro i giovani che avevano manifestato per l’eccidio di Battipaglia, e ancora teste a carico nel processo contro gli anarchici, buon picchiatore, sospettato d’aver messo in tasca a uno degli imputati “per incastrarlo” lo schema di uri ordigno esplosivo. Ed ora, chi se l’aspettava?, c stato assunto, quindi premiato, dall’ufficio Istruzione.
Un’altra vecchia conoscenza, ma in posizione eccelsa, si ritrova nel tetro palazzo, e questo è un ritorno di prestigio, è Luigi Bianchi d’Espinosa, che si è insediato a Milano da poco come procuratore generale: È lí che lavora nel suo ufficio il 24 giugno, un giorno di gran caldo, mentre a un certo punto gli si fa annunciare l’avvocato Carlo Smuraglia. Si conoscono da vent’anni, cordiale l’incontro, molti gli argomenti e i ricordi comuni.
Il procuratore parla volentieri, ed è noto per il suo humour quieto ma pungente, che non si smorza neppure quando l’avvocato gli comunica, che oltre a venirgli a dire com’è contento che sia tornato, anche a nome del collega Domenico Contestabile, deve consegnargli un documento, anzi glielo consegna personalmente, dato che è molto grave e delicato. “Lei sa che mi interessano casi così,” fa Bianchi d’Espinosa, e col suo piccolo sorriso ironico, senza sapere quanto è esplosivo, tende la mano verso il fascicolo.
È certo più delicato e più grave di quanto egli non pensasse, è il bruciante esposto di una donna crudelmente ferita. Tramite i suoi legali, essa fa una critica lucida e amara del tenebroso evento che l’ha coinvolta, e che a un certo punto scoppia in aperta denuncia. Sono ventun pagine infatti in cui Licia Pinelli chiede la riapertura della istruttoria e l’incriminazione di tutti i poliziotti meritevoli di ogni sospetto, i commissari Allegra e Calabresi, i sottufficiali Panessa, Caracuta, Mucilli, Mainardi, oltre al capitano dei carabinieri Lo Grano. I reati? Omicidio volontario, violenze private, sequestro di persona, abuso di ufficio, abuso di autorità.
Tutte in fila dunque le pecche dell’inchiesta ufficiale sulla morte condotta dalla Procura (da cui eran stati esclusi i familiari Pinelli), quindi di quel farraginoso sfacelo di istruttoria con relativo decreto d’archiviazione, zeppo a sua volta di inaudite prove di parzialità verso gli agenti di polizia, di deposizioni mutevoli ad ogni voltar di pagina, e tutte col piombo nelle ali, per arrivare a un altro incredibile fatto, a quando cioè l’istruttoria sulle cause della morte di Pinelli finisce per svolgersi in un processo diverso con un imputato diverso, ancora una volta senza alcuna partecipazione di chi vi ha diritto, particolarmente della vedova. (E qui bisogna riconoscere che di rado si è assistito a qualcosa di più aberrante.)
Insomma un dizionario di gaffes, decisioni arbitrarie, ragionamenti del tutto inaccessibili alla normale ragione, di persecuzioni ed interrogatori insidiosi, intimidatori e fraudolenti, di rievocazioni confuse e contraddittorie su quella tal notte dal 15 al 16 dicembre ’69 (mai un confronto tra quanti, pur volendo dare una comune versione di innocenze, per scempiaggine, raptus o distrazione, finiscono sempre con lo smentire i compari); in più colpevoli vuoti di memoria, orari che vischiosamente spostandosi, si sovrappongono o si dilatano senza che nessuno riesca nemmeno ad accordarsi né sull’ora delle provocazioni né sull’ora della chiamata dell’autoambulanza.
Nessuno poi che sappia spiegare il perché tanto di quel segno d’agopuntura alla piega del gomito (mentre a 21 mesi di distanza salterà fuori la cartella clinica con la pro va dell’iniezione), quanto dell’esistenza alla base del collo della famosa macchia di forma ovale. Questa macchia, continua l’esposto (se non riguarda contusioni o lesioni da caduta, come riconoscono i periti) non può essere il segno di violenze commesse contro il Pinelli diventato ormai “persona scomoda” quando era ancora vivo in quella stanzetta? Non si fa dunque attendibile la tesi del karatè, accolta, a quanto Lener ha imprudentemente affermato, anche dallo stesso consiglio giudicante?
Prende corpo allora l’esposto della vedova, “un estremo tentativo di ottenere giustizia nel nome del marito tragicamente privato della vita, e delle bambine, che hanno diritto almeno di veder restituita al padre quell’integrità morale e quella saldezza che conobbero in lui. Spera infine che ancora una volta non vada delusa l’attesa che oggi non è più soltanto sua, ma dell’intera collettività.”
È una decisione maturata a lungo, a cui Licia Pinelli è arrivata responsabilmente in seguito alla somma di insensatezze dell’anno scorso e agli ultimi sviluppi (tentativo di far saltare il processo, certezza che sia stato truccato). Insomma, visto che la magistratura non ha fatto il suo dovere e si tenta di chiudere il canale Baldelli, ecco che la vedova ne apre un altro, il piú logico, il più diretto.
C’è un’altra ragione ancora perché ora esca fuori questo documento, ed è la presenza al vertice della Procura di quest’uomo nuovo, che gode fama di democratico, che è antifascista per costituzione, è nato e cresciuto alla scuola di Calamandrei, è considerato un enfant prodige della magistratura, perché approdato giovanissimo in Cassazione, e subito noto per i suoi atteggiamenti contrari al conservatorismo ambientale. (Quando arrivò a Milano come presidente del tribunale, prese in mano personalmente i processi penali di spicco come la “Zanzara” e il processo Riva, in questo andando contro Lener, allora difensore del malaugurato Felicino. )
Diventato capogabinetto del ministro repubblicano Reale dopo una parentesi veneziana, appena a Milano di nuovo, nella sua lunga intervista al “Corriere” (un’intervista da “Corriere,” appunto, senza nessuna impennata) c’è però una frase che piace ai democratici: “II mio compito è di far rispettare la legge nei confronti di chiunque.” Così si spera che per una volta nel “chiunque” sia compresa la polizia.
Ci si domanda ora cosa possa fare di questo esposto il procuratore generale che ha sempre amato le situazioni rischiose. Deve decidere prestissimo, perché son prossime le ferie. È difficile che possa consultarsi col suo avvocato generale, quel Pontrelli che a suo tempo aveva promosso il procedimento di trasferimento a Genova del processo della “Zanzara” per legittima suspicione. Deve decidere da solo, e nella sua decisione si misurerà l’autenticità dei suoi sentimenti democratici.
Posizione tutt’altro che invidiabile la sua; stretto com’è fra due fuochi. Da un lato la sua ambizione, il suo prestigio, e dall’altro la sua carriera. E qualsiasi decisione in questo affare può essere un errore per lui: a lui l’errore che ripugna meno alla sua coscienza.
Bianchi d’Espinosa può dunque trasmettere gli atti al giudice istruttore con richiesta d’archiviazione (ma non lo farà; certo, non ama mettersi al livello di Caizzi ed Amati). Può avocare a sé l’istruttoria ricominciando daccapo oppure continuando con gli atti che crede (nuovi interrogatori e la riesumazione). Può lavarsene le mani, deferendo gli atti al giudice istruttore con richiesta di procedere con istruttoria formale (trentaquattro sono i magistrati di cui Amati dispone). Se no potrebbe emettere gli ordini di cattura e procedere contro gli imputati. Questo in poche righe il nuovo test per Bianchi d’Espinosa.
Benché, anche per ragioni di vacanze, egli incarichi della nuova istruttoria il sostituto procuratore generale Mauro Gresti, sarà presente all’interrogatorio di Licia Pinelli, la donna che in un anno e mezzo non ha mai sbagliato un colpo, che questo suo ultimo atto lo considera un dovere morale, che non ha mai avuto un cedimento sentimentale né una lacrima, esemplare per dignità e controllo, occhi impavidi ed un pallore quasi magnetico nel suo bel viso di italiana antica.
Parlerà con Lener, 1′atrabiliare, intorno al quale si è urcato un vuoto fisico e morale da incubo e che con le sue intemperanze ha ottenuto il peggiore dei risultati per il suo cliente; vedrà il giudice Biotti, che per ora sta pagando per tutti e per il quale è stata chiesta la sospensione dall’ufficio c dallo stipendio. E naturalmente Calabresi che, sempre ” Milano, partecipa attivamente alle cariche contro l’Unione Inquilini.
La prima risposta alla denuncia della signora Pinelli? È incredibile, viene dall’alto ed è la promozione di Calabresi da commissario aggiunto a commissario capo.
Poche sono le
novità comprese fra i primi di luglio e le prime tre settimane d’agosto. La
Procura generale, come ci si aspettava, decide di riaprire l’istruttoria (ma
perché Bianchi d’Espinosa non conduce personalmente le indagini come ai tempi
di Riva e della “Zanzara”?); si ascolta la vedova Pinelli che conferma punto
per punto la denuncia presentata il 25 giugno: muore improvvisamente Cornelio
Rolandi il supertestimone del processo Valpreda; alla Corte d’Appello di
Firenze inizia l’istruttoria penale contro Biotti (essendo magistrato a Milano,
non può esser giudicato dal procuratore della stessa città) e gli contestano
omissione d’atti d’ufficio, rivelazione di segreto istruttorio c corruzione;
quindi il magistrato che indaga sul giudice interroga anche Lener, Calabresi e
il segretario di Lener, cioè gli altri protagonisti del più recente scandalo
politicogiudiziario.
Si arriva finalmente a qualcosa di più concreto il 26 agosto. È il giorno in cui due commissari di polizia vengono indiziati di reato, cosa che capita certe volte al cine ma, quasi mai in questo nostro paese. Eppure, a due mesi dalla denuncia della vedova, il. sostituto procuratore generale Mauro Gresti, incaricato della nuova istruttoria, mette sotto accusa i due più alti funzionari implicati nella vicenda al di fuori del questore Guida: al capo dell’ufficio politico Antonino Allegra contesta il fermo illegale dell’anarchico, al commissario Calabresi l’omicidio colposo.
Può cadere così dalla buona coscienza dei cittadini tranquilli, quel peso che a furia di infiammate campagne di stampa, se non altro a intervalli deve averli turbati, e hanno buon gioco i moderati di sempre: non è affatto vero che i poliziotti non pagano, la legge è uguale per tutti. Ma tutto lascia pensare che gli indiziati pagheranno pochissimo. Sempre difeso dall’avvocato Lener, Calabresi dimostrerà facilmente che é stata minima la sua negligenza nel sorvegliare l’anarchico (tra l’altro non ha sempre affermato di essersi allontanato dalla stanza al momento giusto?). Quanto all’atto doloso contestato ad Allegra (che si è scelto un altro grosso calibro come difensore, l’avvocato Giacomo Delitala), cioè l’arresto illegale, d’altronde non inconsueto nella tradizione delle questure (ammesso in tribunale dallo stesso Allegra, che a suo tempo era stato censurato dal Procuratore generale Riccomagno con una lettera definita semplicemente “un buffetto,” mentre avrebbe dovuto aprire un procedimento disciplinare contro di lui e procedere penalmente), l’accusa è già coperta dall’amnistia.
Un fatto positivo comunque può essere considerato, nello svolgimento del caso Pinelli, questa riapertura di un procedimento penale, che se non altro incrimina qualcuno, e sempre con molte precauzioni, trasforma i querelanti in imputati, quindi supera, rinnegandolo, l’incredibile documento del giudice istruttore Amati, che archiviando 1′intera faccenda, aveva chiuso ermeticamente ogni sbocco all’istruttoria: nessun reato era stato commesso, il fermo non era illegale, tutti innocenti dunque, fuori il povero Pinelli, perlomeno affetto (e anche Amati finiva con lo scagionarlo da ogni accusa) da invincibile nervosismo.
Non è però il caso di veder troppo rosa; perché a guardare bene si tratta di una mossa più astuta che producente, più di compromesso che promettente, l’unica che, per non suscitare tutto quel vespaio, avrebbe dovuto venire in mente all’inizio ad Amati e a Caizzi. Infatti, nel momento in cui, attraverso i vari processi politici, andava offuscandosi il buon nome della polizia e della magistratura, col metter motto accusa due della polizia, oggi si sta tentando di ridar credibilità alle istituzioni intaccate dall’istruttoria Amati, dall’assurdo processo contro gli anarchici, da tutte le nebbie che avevano avvolto il processo “Calabresi-Lotta continua”: in questura la trasgressione come regola corrente, in tribunale quella serie di contraddizioni e incompatibilità che soltanto nei governi e nei tribunali si possono trovare, quindi a livello di magistratura colpi mancini, tradimenti, sconcertanti ammissioni.
All’apertura dell’istruttoria si approda anche perché mai prima d’ora su un fatto del genere si era mobilitata l’opinione pubblica in modo tanto massiccio da giungere addirittura a una forma di battaglia democratica. Ma a una soluzione come questa si arriva con due anni di ritardo, ed è una soluzione che non può soddisfare, perché troppe cose nono venute a galla in due anni, e di tale peso, da far ritenere molto più grave l’accusa.
Proprio per via del ritardo, partire dall’ipotesi neutra nel 1971 non è certo un acquisto di nuovo credito da parte della magistratura e della polizia: insomma in seguito nel dibattito che c’è stato in tribunale e alla marea montante nell’opinione pubblica, questa neutralità dell’accusa è difficile accettarla.
Anzi, scegliendo l’omicidio colposo (mancanza di diligenza, violazione di norme regolamentari, ritornata alla luce quell’equivoca deposizione di Oronzo Perrone, autista di Calabresi, che parla già di tentato suicidio alla vigilia della morte), è stata fatta a priori una scelta che equivale a una condanna definitiva delle istituzioni. Con l’aria di far giustizia si dà un contentino a quanti hanno appassionatamente seguito il caso schierandosi contro uomini e modi della questura; e contemporaneamente, dopo la denuncia della vedova, si offre un comodo salvagente ai due poliziotti, non contestando niente a tutti gli altri presenti quella tal notte nella stanza, fuorviando l’attenzione dal processo “Calabresi-Lotta continua,” tagliando corto alla tesi che aveva preso piede anche fra gli stessi magistrati, quando il giudice Biotti aveva dichiarato che non solo lui, ma anche i suoi colleghi a latere erano persuasi del mortale colpo di karaté.
Si è seguita così la linea contraria a quella che di solito si segue nei processi politici, in cui per primo si contesta il reato più grave per arrivare a provare il più leggero. (Se per un’ipotesi assurda, da una stanza dove si trovava con una mezza dozzina di operai di sinistra, Calabresi fosse caduto dalla finestra, gli operai sarebbero stati incriminati di omicidio colposo?) Ed ecco che, come nel gioco dell’oca, dopo quello che a prima vista poteva sembrare un bel salto in avanti, si torna al posto di prima, avvalorando la tesi della polizia, che è quella del suicidio. (A meno che, come affermano gli ottimisti, si tratti di un primo passo per aprire maggiormente e più oltre il campo delle indagini.)
E c’è anche qualcuno che si rattrista dell’invio di questi avvisi di reato, per esempio il democristiano on. Speranza, vicecapogruppo dc alla Camera. Il quale di ciò si lamenta scrivendo una lettera all’on. Andreotti. “Potrebbe trattarsi di un reale grave reato compiuto dai funzionari” egli scrive, bontà sua, “il che giustificherebbe la gravissima decisione della Procura generale milanese. Ma potrebbe essere anche un abbaglio.”
A parte la scelta del sostantivo (che in questo caso è quasi irresistibile), la possibilità dell’abbaglio, cioè il rischio di perseguire un innocente, secondo lui dovrebbe esser sufficiente a bloccare un processo? Quel che scrive l’on. Speranza è proprio quanto occorre non solo per giustificare ma per imporre l’avvio di un’istruttoria penale. E chi sulla stampa critica Speranza, o contro di lui protesta in Parlamento, torna ad usare quel verbo che da tanto tempo non poi tanto inutilmente ha martellato e scandito i tempi di questa vicenda: “far luce, allo scopo di far luce, si faccia luce al più presto.” Vuol dire che, nonostante tutto, anzi a causa di tutto quel che è saltato fuori, la luce che è stata fatta, nelle alte sfere non è stata gradita, anzi si è tentato di intorbidire le acque sempre di più. L’importante ora è che le indagini si svolgano rapide e complete, senza indugi né indebite pressioni.
Si arriva finalmente a qualcosa di più concreto il 26 agosto. È il giorno in cui due commissari di polizia vengono indiziati di reato, cosa che capita certe volte al cine ma, quasi mai in questo nostro paese. Eppure, a due mesi dalla denuncia della vedova, il. sostituto procuratore generale Mauro Gresti, incaricato della nuova istruttoria, mette sotto accusa i due più alti funzionari implicati nella vicenda al di fuori del questore Guida: al capo dell’ufficio politico Antonino Allegra contesta il fermo illegale dell’anarchico, al commissario Calabresi l’omicidio colposo.
Può cadere così dalla buona coscienza dei cittadini tranquilli, quel peso che a furia di infiammate campagne di stampa, se non altro a intervalli deve averli turbati, e hanno buon gioco i moderati di sempre: non è affatto vero che i poliziotti non pagano, la legge è uguale per tutti. Ma tutto lascia pensare che gli indiziati pagheranno pochissimo. Sempre difeso dall’avvocato Lener, Calabresi dimostrerà facilmente che é stata minima la sua negligenza nel sorvegliare l’anarchico (tra l’altro non ha sempre affermato di essersi allontanato dalla stanza al momento giusto?). Quanto all’atto doloso contestato ad Allegra (che si è scelto un altro grosso calibro come difensore, l’avvocato Giacomo Delitala), cioè l’arresto illegale, d’altronde non inconsueto nella tradizione delle questure (ammesso in tribunale dallo stesso Allegra, che a suo tempo era stato censurato dal Procuratore generale Riccomagno con una lettera definita semplicemente “un buffetto,” mentre avrebbe dovuto aprire un procedimento disciplinare contro di lui e procedere penalmente), l’accusa è già coperta dall’amnistia.
Un fatto positivo comunque può essere considerato, nello svolgimento del caso Pinelli, questa riapertura di un procedimento penale, che se non altro incrimina qualcuno, e sempre con molte precauzioni, trasforma i querelanti in imputati, quindi supera, rinnegandolo, l’incredibile documento del giudice istruttore Amati, che archiviando 1′intera faccenda, aveva chiuso ermeticamente ogni sbocco all’istruttoria: nessun reato era stato commesso, il fermo non era illegale, tutti innocenti dunque, fuori il povero Pinelli, perlomeno affetto (e anche Amati finiva con lo scagionarlo da ogni accusa) da invincibile nervosismo.
Non è però il caso di veder troppo rosa; perché a guardare bene si tratta di una mossa più astuta che producente, più di compromesso che promettente, l’unica che, per non suscitare tutto quel vespaio, avrebbe dovuto venire in mente all’inizio ad Amati e a Caizzi. Infatti, nel momento in cui, attraverso i vari processi politici, andava offuscandosi il buon nome della polizia e della magistratura, col metter motto accusa due della polizia, oggi si sta tentando di ridar credibilità alle istituzioni intaccate dall’istruttoria Amati, dall’assurdo processo contro gli anarchici, da tutte le nebbie che avevano avvolto il processo “Calabresi-Lotta continua”: in questura la trasgressione come regola corrente, in tribunale quella serie di contraddizioni e incompatibilità che soltanto nei governi e nei tribunali si possono trovare, quindi a livello di magistratura colpi mancini, tradimenti, sconcertanti ammissioni.
All’apertura dell’istruttoria si approda anche perché mai prima d’ora su un fatto del genere si era mobilitata l’opinione pubblica in modo tanto massiccio da giungere addirittura a una forma di battaglia democratica. Ma a una soluzione come questa si arriva con due anni di ritardo, ed è una soluzione che non può soddisfare, perché troppe cose nono venute a galla in due anni, e di tale peso, da far ritenere molto più grave l’accusa.
Proprio per via del ritardo, partire dall’ipotesi neutra nel 1971 non è certo un acquisto di nuovo credito da parte della magistratura e della polizia: insomma in seguito nel dibattito che c’è stato in tribunale e alla marea montante nell’opinione pubblica, questa neutralità dell’accusa è difficile accettarla.
Anzi, scegliendo l’omicidio colposo (mancanza di diligenza, violazione di norme regolamentari, ritornata alla luce quell’equivoca deposizione di Oronzo Perrone, autista di Calabresi, che parla già di tentato suicidio alla vigilia della morte), è stata fatta a priori una scelta che equivale a una condanna definitiva delle istituzioni. Con l’aria di far giustizia si dà un contentino a quanti hanno appassionatamente seguito il caso schierandosi contro uomini e modi della questura; e contemporaneamente, dopo la denuncia della vedova, si offre un comodo salvagente ai due poliziotti, non contestando niente a tutti gli altri presenti quella tal notte nella stanza, fuorviando l’attenzione dal processo “Calabresi-Lotta continua,” tagliando corto alla tesi che aveva preso piede anche fra gli stessi magistrati, quando il giudice Biotti aveva dichiarato che non solo lui, ma anche i suoi colleghi a latere erano persuasi del mortale colpo di karaté.
Si è seguita così la linea contraria a quella che di solito si segue nei processi politici, in cui per primo si contesta il reato più grave per arrivare a provare il più leggero. (Se per un’ipotesi assurda, da una stanza dove si trovava con una mezza dozzina di operai di sinistra, Calabresi fosse caduto dalla finestra, gli operai sarebbero stati incriminati di omicidio colposo?) Ed ecco che, come nel gioco dell’oca, dopo quello che a prima vista poteva sembrare un bel salto in avanti, si torna al posto di prima, avvalorando la tesi della polizia, che è quella del suicidio. (A meno che, come affermano gli ottimisti, si tratti di un primo passo per aprire maggiormente e più oltre il campo delle indagini.)
E c’è anche qualcuno che si rattrista dell’invio di questi avvisi di reato, per esempio il democristiano on. Speranza, vicecapogruppo dc alla Camera. Il quale di ciò si lamenta scrivendo una lettera all’on. Andreotti. “Potrebbe trattarsi di un reale grave reato compiuto dai funzionari” egli scrive, bontà sua, “il che giustificherebbe la gravissima decisione della Procura generale milanese. Ma potrebbe essere anche un abbaglio.”
A parte la scelta del sostantivo (che in questo caso è quasi irresistibile), la possibilità dell’abbaglio, cioè il rischio di perseguire un innocente, secondo lui dovrebbe esser sufficiente a bloccare un processo? Quel che scrive l’on. Speranza è proprio quanto occorre non solo per giustificare ma per imporre l’avvio di un’istruttoria penale. E chi sulla stampa critica Speranza, o contro di lui protesta in Parlamento, torna ad usare quel verbo che da tanto tempo non poi tanto inutilmente ha martellato e scandito i tempi di questa vicenda: “far luce, allo scopo di far luce, si faccia luce al più presto.” Vuol dire che, nonostante tutto, anzi a causa di tutto quel che è saltato fuori, la luce che è stata fatta, nelle alte sfere non è stata gradita, anzi si è tentato di intorbidire le acque sempre di più. L’importante ora è che le indagini si svolgano rapide e complete, senza indugi né indebite pressioni.
Bando agli
indugi; mentre Gresti è in vacanza (ci star1 quaranta giorni), chi conduce le
indagini è Bianchi d’Espinosa. Da lui vengono sentiti i primi tre testi, Oronzo
Perrone, autista di Calabresi e gli agenti Buccella e Spalletta (Oronzo quello
che riferì a Caizzi del tentato suicidio di. Pinelli, gli agenti i due che
erano presenti a tale tentativo). Poco trapela dal palazzo di giustizia, ma
quel che è sicuro è che, a braccetto dei suoi due fidi, Oronzo fa il suo bel
passo indietro, come, da quando la conosciamo, si usa in questura.
Il tentativo di suicidio (infatti chi ci aveva creduto se non Caizzi? e come mai era venuto a galla dopo quattro mesi? ) era stato soltanto una sua impressione, una semplice supposizione venutagli in mente durante lo stato di choc che l’aveva preso dopo il salto del ferroviere; quanto ai due agenti, non eran stati neppure sfiorati dall’idea clic, volendo aprire la finestra per via del fumo, Pinelli avesse l’intenzione di suicidarsi. Interessante retromarcia clie viene a puntino, per salvare un’altra volta e un poco di più il commissario capo Calabresi, il quale potrebbe così essere sollevato perfino dall’accusa di omicidio colposo: non c’era il minimo sospetto, non può essere quindi accusato di scarsa vigilanza.
Il tentativo di suicidio (infatti chi ci aveva creduto se non Caizzi? e come mai era venuto a galla dopo quattro mesi? ) era stato soltanto una sua impressione, una semplice supposizione venutagli in mente durante lo stato di choc che l’aveva preso dopo il salto del ferroviere; quanto ai due agenti, non eran stati neppure sfiorati dall’idea clic, volendo aprire la finestra per via del fumo, Pinelli avesse l’intenzione di suicidarsi. Interessante retromarcia clie viene a puntino, per salvare un’altra volta e un poco di più il commissario capo Calabresi, il quale potrebbe così essere sollevato perfino dall’accusa di omicidio colposo: non c’era il minimo sospetto, non può essere quindi accusato di scarsa vigilanza.
11 settembre: Come un ricorrente contrappunto, si rifanno vivi i
legali della vedova Pinelli con una serie di richieste istruttorie. Si faccia
un’ispezione nei locali della questura dove si trovava il Pinelli la notte
della sua morte, previa notifica dell’avviso di procedimento a tutti quelli che
allora si trovavano lì dentro: per mezzo di un manichino della statura e del
peso di Pinelli vengano studiate le modalità di caduta a seconda della parabola
del corpo e dello slancio impressogli. E si indaghi su quel segno di agopuntura
sul braccio sinistro, interrogando medico, barellieri, periti.
12 settembre: Si fa sempre più frequente la voce che la Procura
generale ha l’intenzione di disporre la perizia necroscopica, anche se a
distanza di quasi due anni sono poche le probabilità di scorgere in quelle
povere ossa qualche segno rivelatore. Ed è proprio l’iniziativa sulla quale la
parte civile si era opposta ogni volta e in modo talmente accanito da far
scoppiare il famoso bubbone.
Chiaro come il sole che a questo punto insorga la solita destra, quella insomma che vuol stare al buio. Ricordate la campagna condotta dal professor Satta contro il Consiglio superiore della magistratura al tempo del bubbone? Si fa sentire un’altra volta, e precisamente in un articolo di fondo sul “Gazzettino,” in cui attacca il procuratore generale, perché interferisce in un processo pendente che è già allo studio del pubblico giudizio, e lo accusa di volersi sostituire al giudice. Insomma, a sentir lui, Bianchi d’Espinosa si è reso colpevole di un vero e proprio reato, come l’abuso di ufficio, un reato che viene punito rigorosamente dal codice penale. Manovra tanto grossolana come intimidatoria, che ha uno scopo soltanto.
14 settembre : Bianchi d’Espinosa trasmette gli atti al giudice istruttore perché proceda all’istruttoria formale nei confronti di Allegra e Calabresi. (Ed ecco che dopo due anni si ricomincia tutto daccapo.) Nello stesso giorno chiede la riesumazione dei resti dell’anarchico e la perizia necroscopica, a cui assisteranno finalmente i periti di parte nominati dai familiari. La pratica così passa all’ufficio Istruzione, diretto da Amati; ma se non in vera vacanza, Amati è in vacanza diplomatica, e naturalmente se ne occuperà un altro giudice.
Chiaro come il sole che a questo punto insorga la solita destra, quella insomma che vuol stare al buio. Ricordate la campagna condotta dal professor Satta contro il Consiglio superiore della magistratura al tempo del bubbone? Si fa sentire un’altra volta, e precisamente in un articolo di fondo sul “Gazzettino,” in cui attacca il procuratore generale, perché interferisce in un processo pendente che è già allo studio del pubblico giudizio, e lo accusa di volersi sostituire al giudice. Insomma, a sentir lui, Bianchi d’Espinosa si è reso colpevole di un vero e proprio reato, come l’abuso di ufficio, un reato che viene punito rigorosamente dal codice penale. Manovra tanto grossolana come intimidatoria, che ha uno scopo soltanto.
14 settembre : Bianchi d’Espinosa trasmette gli atti al giudice istruttore perché proceda all’istruttoria formale nei confronti di Allegra e Calabresi. (Ed ecco che dopo due anni si ricomincia tutto daccapo.) Nello stesso giorno chiede la riesumazione dei resti dell’anarchico e la perizia necroscopica, a cui assisteranno finalmente i periti di parte nominati dai familiari. La pratica così passa all’ufficio Istruzione, diretto da Amati; ma se non in vera vacanza, Amati è in vacanza diplomatica, e naturalmente se ne occuperà un altro giudice.
15 settembre: Viene reso noto che la salma di Pinelli sarà
riesumata ai primi d’ottobre. (E cosa farà Lener?) Non si sa ancora chi sarà il
giudice istruttore, ma si parla di Ovilio Urbisci, un nome che ai democratici
dà serio affidamento.
17 settembre: Non è Urbisci, invece, perché il fascicolo viene
consegnato al giovane magistrato Gerardo D’Ambrosio che tra l’altro ha
insistito per averlo. Di lui non si conoscono le opinioni politiche, si sa
soltanto che fa la stia professione con entusiasmo, e che è il magistrato a cui
si deve la soluzione del mistero dell’assassinio di piazzale Lotto. Per quel
che riguarda Calabresi: “Concorreva,” si legge nel capo d’imputazione, “a
causare la morte di Giuseppe Pinelli in quanto nella sua qualità di funzionario
che aveva ricevuto dal dirigente stesso l’incarico di interrogare la persona
sopraindicata… dopo che nel corso del lungo interrogatorio eran state rivolte
al Pinelli domande e contestazioni ‘ad effetto’ dalle quali avrebbe potuto
derivare all’interrogato il convincimento che la polizia era a conoscenza di
gravi elementi a suo carico in ordine a sue eventuali responsabilità per la
strage o per precedenti attentati dinamitardi o comunque in ordine alle
responsabilità di elementi anarchici in relazione alla strage predetta,
ometteva, a interrogatorio ultimato, di impartire le opportune disposizioni per
la vigilanza e custodia del fermato. In particolare, ometteva di disporre che
lo stesso venisse adeguatamente custodito in un locale interno dell’edificio a
tale-uopo adibito o venisse quanto meno strettamente sorvegliato a vista da
personale specificatamente incaricato, cosicché il Pinelli, rimasto in sua
momentanea assenza in condizione di relativa libertà di movimenti nella sua
stanza con finestra a balcone… poteva con mossa improvvisa e tale da prevenire
il possibile intervento delle altre persone casualmente presenti nell’ufficio
stesso, precipitarsi dalla finestra sita al quarto piano dell’edificio…”
Al dottor Allegra si contesta di aver abusato dei poteri inerenti alle sue funzioni avendo proceduto al fermo di Pinelli e di averlo trattenuto per un tempo ben superiore a quello strettamente necessario per i suoi interrogatori, omettendo di farlo tradurre immediatamente nelle carceri giudiziarie a disposizione del procuratore della Repubblica, e dando notizia a quest’ultimo con notevole ritardo.
E cosa farà Lener, ci si chiede ormai che lo si conosce così bene, davanti alla ripresa dell’istruttoria, davanti all’incriminazione e a quella tomba che finalmente sta per aprirsi a Musocco? Son tutti sicuri che avrà le sue acri proteste da fare, e basta aver pazienza qualche giorno, lasciargli scegliere quello che, anche consultando Roma, secondo lui è la miglior forma di protesta, perché a questo punto succeda quello che è sempre successo quando si arriva al momento in cui stanno per essere schiarite le nebbie, rimossi gli ostacoli e fugate le ombre. Con una regolarità pari soltanto alla sfacciataggine, si può esser sicuri che anche adesso agiscono le solite trappole che chiudono e insabbiano, se no si alza un gran polverone e si scatena il caos. Ora infatti è lo stesso. Maestro nei colpi di scena Lener scatta il
Al dottor Allegra si contesta di aver abusato dei poteri inerenti alle sue funzioni avendo proceduto al fermo di Pinelli e di averlo trattenuto per un tempo ben superiore a quello strettamente necessario per i suoi interrogatori, omettendo di farlo tradurre immediatamente nelle carceri giudiziarie a disposizione del procuratore della Repubblica, e dando notizia a quest’ultimo con notevole ritardo.
E cosa farà Lener, ci si chiede ormai che lo si conosce così bene, davanti alla ripresa dell’istruttoria, davanti all’incriminazione e a quella tomba che finalmente sta per aprirsi a Musocco? Son tutti sicuri che avrà le sue acri proteste da fare, e basta aver pazienza qualche giorno, lasciargli scegliere quello che, anche consultando Roma, secondo lui è la miglior forma di protesta, perché a questo punto succeda quello che è sempre successo quando si arriva al momento in cui stanno per essere schiarite le nebbie, rimossi gli ostacoli e fugate le ombre. Con una regolarità pari soltanto alla sfacciataggine, si può esser sicuri che anche adesso agiscono le solite trappole che chiudono e insabbiano, se no si alza un gran polverone e si scatena il caos. Ora infatti è lo stesso. Maestro nei colpi di scena Lener scatta il
22 settembre: E denuncia per calunnia e a titolo personale il
professor Carlo Smuraglia, patrono della signora Pinelli. In duecento pagine
egli lo accusa di aver calunniato tutti i poliziotti che sappiamo, di aver
ricostruito, travisato e distorto calunniosamente i fatti su cui si basa la
denuncia della vedova, e lo stile è quello tipico dell’enfatico legale, si
parla di “infame documento,” di “nascondersi dietro gonne o pantaloni,” di
“callido riepilogo,” di “furbesca ragna,” di “sovvertimento che viene dal
convincimento,” e di “letame dei pettegolezzi.”
La denuncia per omicidio, secondo Lener, poteva esser fatta molto tempo prima (fin dal luglio ’70), ma per farla si è voluto aspettare 1′insediamento del nuovo procuratore generale, mentre i magistrati di allora “avevano vissuto la vicenda ora per ora, pagina per pagina e non avrebbero tollerato inganni.” Alla sua, di denuncia, Lener allega quaranta fascicoli tra cui una statistica di tutti i suicidi avvenuti in un anno a Milano, di centoquattro dei quali restano ignote le cause; sottolinea poi che “niente fu tralasciato per l’accertamento dei fatti”; mentre in un altro allegato si scaglia contro una certa stampa che, frugando appunto in quel tal letame, ha aiutato a mistificare e distorcere la verità.
Il polverone si alza, infuriano le proteste. La stampa ` unanime nello scrivere che per la prima volta nella storia giudiziaria c’è un avvocato che ne denuncia un “altro per atti compiuti nello svolgimento del suo mandato, accusandolo di essere il responsabile di quanto sottoscrive il suo assistito. Si dimenticano però che un precedente c’è stato, e manco a dirlo, ad opera di Lener, quando, qualche anno fa, egli denunciò in proprio per circonvezione d’incapace un altro suo avversario, il prof. Mario Rotondi, e la causa è ancora pendente.
Arteriosclerosi galoppante, rabbia senile? È questo certo il primo commento, ma è anche un’ipotesi da non avallare, perché Lener segue invece una sua logica precisa. Mette infatti a riparo Calabresi e il ministero degli Interni che così restano dietro le quinte; non attacca la vedova Pinelli che, sostenuta dall’opinione pubblica, è diventata il dignitoso simbolo dell’intera vicenda; e tende a gettare le solite ombre e i soliti sospetti su tutti gli elementi già noti, facendoli considerare come manipolati a freddo da un avvocato. Il punto debole sta nel prestarsi ad esporsi in proprio per un gioco che di sicuro va molto aldilà della sua persona, mentre una mossa astuta è quella di metter giù duecento pagine che ricostruiscono i fatti intesi a scagionare Calabresi e compagni, presentando cioè una difesa sotto forma di accusa. (Numero dei suicidi compreso; ma quanti di questi poveretti son volati giù da una finestra di notte in questura?)
La denuncia per omicidio, secondo Lener, poteva esser fatta molto tempo prima (fin dal luglio ’70), ma per farla si è voluto aspettare 1′insediamento del nuovo procuratore generale, mentre i magistrati di allora “avevano vissuto la vicenda ora per ora, pagina per pagina e non avrebbero tollerato inganni.” Alla sua, di denuncia, Lener allega quaranta fascicoli tra cui una statistica di tutti i suicidi avvenuti in un anno a Milano, di centoquattro dei quali restano ignote le cause; sottolinea poi che “niente fu tralasciato per l’accertamento dei fatti”; mentre in un altro allegato si scaglia contro una certa stampa che, frugando appunto in quel tal letame, ha aiutato a mistificare e distorcere la verità.
Il polverone si alza, infuriano le proteste. La stampa ` unanime nello scrivere che per la prima volta nella storia giudiziaria c’è un avvocato che ne denuncia un “altro per atti compiuti nello svolgimento del suo mandato, accusandolo di essere il responsabile di quanto sottoscrive il suo assistito. Si dimenticano però che un precedente c’è stato, e manco a dirlo, ad opera di Lener, quando, qualche anno fa, egli denunciò in proprio per circonvezione d’incapace un altro suo avversario, il prof. Mario Rotondi, e la causa è ancora pendente.
Arteriosclerosi galoppante, rabbia senile? È questo certo il primo commento, ma è anche un’ipotesi da non avallare, perché Lener segue invece una sua logica precisa. Mette infatti a riparo Calabresi e il ministero degli Interni che così restano dietro le quinte; non attacca la vedova Pinelli che, sostenuta dall’opinione pubblica, è diventata il dignitoso simbolo dell’intera vicenda; e tende a gettare le solite ombre e i soliti sospetti su tutti gli elementi già noti, facendoli considerare come manipolati a freddo da un avvocato. Il punto debole sta nel prestarsi ad esporsi in proprio per un gioco che di sicuro va molto aldilà della sua persona, mentre una mossa astuta è quella di metter giù duecento pagine che ricostruiscono i fatti intesi a scagionare Calabresi e compagni, presentando cioè una difesa sotto forma di accusa. (Numero dei suicidi compreso; ma quanti di questi poveretti son volati giù da una finestra di notte in questura?)
22 settembre
sera: La signora Pinelli reagisce
immediatamente con un comunicato fermissimo: “Confermo che la denuncia da me
presentata è l’espressione autentica del la mia convinzione sulle cause che
hanno provocato la morte di mio marito, denuncia fondata su una precisa
conoscenza degli atti, e riconfermo la mia volontà di andare fino in fondo
affinché venga anche giudizialmente dichiarata la verità su come è morto Pino.
Sono grata ai miei difensori per aver dato espressione ai miei pensieri e alla
mia volontà, e rinnovo loro la mia piena fiducia.” Anche l’avvocato Domenico
Contestabile dichiara subito la sua solidarietà col collega: “La denuncia fu
presentata materialmente dal solo professor Smuraglia, perché io ero assente,
ma fu in realtà stilata da Smuraglia e da me, collegialmente.” Aggiunge inoltre
che l’azione di Lener “non può aver nessun pregio in diritto e non raggiungerà,
in fatto, effetti intimidatori. Evidentemente, la vicenda Pinelli scotta tanto
da far infrangere le regole del gioco giudiziale: evidentemente, come in Grecia
anche in questo paese, si vuole che il banco di certi avvocati si avvicini
sempre di più a quello degli imputati.”
23 settembre: Il procuratore generale Bianchi d’Espinosa
trasmette all’ufficio Istruzione le duecentosette pagine della denuncia e i
quaranta allegati con i quali Lener sostiene la tesi che Smuraglia ha
calunniato Calabresi e compagni. Formalizzazione accompagnata dalla richiesta
che la posizione del professor Smuraglia “imputato” di calunnia venga esaminata
dopo l’istruttoria sulla morte dell’anarchico. Gesto ritenuto un po’ troppo
immediato. Insomma, mentre per avere un fascicolo con in testa il nome
Calabresi ci son voluti quasi due anni, per Smuraglia son bastate poche ore. E
perché, è la domanda di molti, il procuratore non ha richiesto l’archiviazione
della denuncia per manifesta infondatezza? Poteva farlo, perché la denuncia è
presentata contro l’avvocato che nel processo è in veste di difensore, mentre
lui sapeva che la denuncia era della vedova; al punto che, perché la
convalidasse, l’aveva mandata a chiamare, ascoltandola per un’ora.
Sempre il 23 tanto la segreteria dell’Associazione dei giuristi democratici quanto i redattori della rivista “Democrazia e diritto” presentano una denuncia presso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati e alla Procura generale di Milano perché l’avvocato Lener sia cancellato dall’albo professionale, e contro di lui si inizi un processo penale.
Sempre il 23 tanto la segreteria dell’Associazione dei giuristi democratici quanto i redattori della rivista “Democrazia e diritto” presentano una denuncia presso il Consiglio dell’Ordine degli avvocati e alla Procura generale di Milano perché l’avvocato Lener sia cancellato dall’albo professionale, e contro di lui si inizi un processo penale.
24 settembre: Il gesto di Lener è aspramente criticato un’altra
volta in via ufficiale. Infatti il Sindacato avvocati e procuratori di Milano e
Lombardia in un suo comunicato afferma tra l’altro che la denuncia di Lener
contro Smuraglia è anche un attacco al procuratore generale Bianchi d’Espinosa,
che “l’episodio costituisce l’ultimo, in ordine di tempo, di una serie di
tentativi già denunciati diretti a ostacolare il corso della giustizia in un
caso sul quale l’opinione pubblica ha il diritto che sia fatta piena luce,”
infine denuncia “l’intollerabile intimidazione che anima l’iniziativa e che
pone in pericolo il libero esercizio tanto della difesa quanto delle funzioni
della magistratura e così le basi stesse di un sistema democratico,” infine
chiede provvedimenti contro Lener al Consiglio dell’Ordine degli avvocati.
Contemporaneamente il dottor D’Ambrosio fa un’ispezione all’ospedale Fatebenefratelli, interrogando infermieri, barellieri, portieri e agenti di PS, e a distanza di ventun mesi dalla morte dell’anarchico, sequestra la cartella medica di Pinelli, ignorata dall’inchiesta di prima (a proposito del “niente fu tralasciato per l’accertamento dei fatti” sottolineato nella denuncia di Lener! ). A ventun mesi dalla morte la cartella clinica rivela che, nel tentativo di rianimarlo, al Pinelli è stata fatta una fleboclisi: di qui il segno d’agopuntura. (Utile qui risentire l’interrogatorio del dottor Fiorenzano, reso in aula il 2 dicembre 1970.)
Giudice : Lei avrà redatto una cartella clinica, no?
Teste : La cartella clinica non venne fatta, credo, perché [Pinelli] rimase sempre in Pronto Soccorso, e il decesso avvenne poco dopo l’una, nonostante il trattamento. Quindi piú avanti nell’interrogatorio:
Giudice : Allora non venne redatta una cartella clinica poiché…
Teste : Le cartelle si fanno quando si ricoverano in un reparto; quando rimangono in Pronto Soccorso no. (E se la cartella adesso c’è, vuol dire che l’avrà fatta l’anestesista.)
Contemporaneamente il dottor D’Ambrosio fa un’ispezione all’ospedale Fatebenefratelli, interrogando infermieri, barellieri, portieri e agenti di PS, e a distanza di ventun mesi dalla morte dell’anarchico, sequestra la cartella medica di Pinelli, ignorata dall’inchiesta di prima (a proposito del “niente fu tralasciato per l’accertamento dei fatti” sottolineato nella denuncia di Lener! ). A ventun mesi dalla morte la cartella clinica rivela che, nel tentativo di rianimarlo, al Pinelli è stata fatta una fleboclisi: di qui il segno d’agopuntura. (Utile qui risentire l’interrogatorio del dottor Fiorenzano, reso in aula il 2 dicembre 1970.)
Giudice : Lei avrà redatto una cartella clinica, no?
Teste : La cartella clinica non venne fatta, credo, perché [Pinelli] rimase sempre in Pronto Soccorso, e il decesso avvenne poco dopo l’una, nonostante il trattamento. Quindi piú avanti nell’interrogatorio:
Giudice : Allora non venne redatta una cartella clinica poiché…
Teste : Le cartelle si fanno quando si ricoverano in un reparto; quando rimangono in Pronto Soccorso no. (E se la cartella adesso c’è, vuol dire che l’avrà fatta l’anestesista.)
26 settembre: Contrattacco di Lener che querela il Sindacato
degli avvocati e procuratori di Milano, minacciando inoltre un’azione legale
contro chi ha chiesto la sua radiazione dall’albo.
27 settembre: Risposta del professor Smuraglia, che manda una sua
memoria al giudice istruttore. Memoria che “non è e non vuol essere
un’autodifesa poiché un’aggressione come quella dell’avvocato Lener si
distrugge e si svaluta da se stessa, essendo ben chiari tutti gli obiettivi non
solo giudiziari che si propone.” Non vuole entrare nel merito delle assurdità
di cui Lener lo accusa, ma non si sente di non rilevare “la profonda perfidia
con cui, sotto le parvenze di un certo qual rispetto per la vedova Pinelli, in
realtà la si colpisce ancor più duramente, quantomeno sul piano morale.” E qui
ricorda quello che Lener finge di dimenticare, cioè che fin dall’epoca in cui
aveva altri legali, la signora Licia ha sempre sostenuto con fermezza che la
tesi del suicidio era assolutamente inaccettabile e che occorreva accertare la
verità fino in fondo e perseguire i responsabili. Adesso la si vuol far passare
per una specie di minorata o, peggio, di “plagiata,” mentre anche l’avvocato
Lener non può non essersi accorto nell’aula del processo Baldelli “della
presenza pressoché costante della vedova Pinelli, il cui sguardo deciso e
implacabile è rimasto impresso a caratteri indelebili nella mente di tutti
coloro che assistevano allo spettacolo miserando delle contraddizioni e delle.
incertezze di quanti non testimoni avrebbero dovuto essere, ma imputati.”
Curioso, sempre secondo Smuraglia, che Lener abbia saputo che il documento era controfirmato anche da lui (lo fece, per autenticarlo, al momento della consegna a Bianchi d’Espinosa); non è forse un atto coperto dal segreto istruttorio? E infondata, oltreché risibile, l’accusa di aver aspettato a presentare la denuncia della vedova in concomitanza con l’arrivo a Milano di un nuovo procuratore generale. Perché l’azione decisiva la si è fatta quando stavano per andare a fondo gli accertamenti nel processo contro Ba1dclli; e tanto meglio se in quel momento si stava insediando un procuratore generale totalmente estraneo ai fatti.
Quanto al reato di calunnia, esso esiste quando il presunto calunniatore incolpa qualcuno che “egli sa innocente. ” Ora, secondo Smuraglia, il fatto è che non c’è nessuno io Italia (escluso, forse, l’avvocato Lener) che sia certo dell’innocenza di Calabresi e compagni. Non lo era, come si è visto, il tribunale di Milano; non lo era il procuratore generale, il quale, pur chiedendo di contestare solo l’omicidio colposo, ha disposto la riesumazione; non lo erano gli studiosi che criticarono la prima perizia; non lo è nemmeno l’attuale giudice istruttore, che sta compiendo indagini mai condotte prima; non lo è, come è ormai stranoto, la maggior parte dell’opinione pubblica. E “come è possibile, allora, sostenere che solo il sottoscritto o la signora Pinelli abbiano o debbano avere la consapevole certezza che Calabresi e gli altri sono innocenti? ”
Curioso, sempre secondo Smuraglia, che Lener abbia saputo che il documento era controfirmato anche da lui (lo fece, per autenticarlo, al momento della consegna a Bianchi d’Espinosa); non è forse un atto coperto dal segreto istruttorio? E infondata, oltreché risibile, l’accusa di aver aspettato a presentare la denuncia della vedova in concomitanza con l’arrivo a Milano di un nuovo procuratore generale. Perché l’azione decisiva la si è fatta quando stavano per andare a fondo gli accertamenti nel processo contro Ba1dclli; e tanto meglio se in quel momento si stava insediando un procuratore generale totalmente estraneo ai fatti.
Quanto al reato di calunnia, esso esiste quando il presunto calunniatore incolpa qualcuno che “egli sa innocente. ” Ora, secondo Smuraglia, il fatto è che non c’è nessuno io Italia (escluso, forse, l’avvocato Lener) che sia certo dell’innocenza di Calabresi e compagni. Non lo era, come si è visto, il tribunale di Milano; non lo era il procuratore generale, il quale, pur chiedendo di contestare solo l’omicidio colposo, ha disposto la riesumazione; non lo erano gli studiosi che criticarono la prima perizia; non lo è nemmeno l’attuale giudice istruttore, che sta compiendo indagini mai condotte prima; non lo è, come è ormai stranoto, la maggior parte dell’opinione pubblica. E “come è possibile, allora, sostenere che solo il sottoscritto o la signora Pinelli abbiano o debbano avere la consapevole certezza che Calabresi e gli altri sono innocenti? ”
29 settembre: Sempre a un anno e mezzo di distanza alla Vigilanza
Urbana viene sequestrato dal dottor D’Ambrosio un documento che avrebbe dovuto
essere in mano alle autorità il giorno dopo la morte di Pinelli: è il registro
delle chiamate delle autoambulanze richieste dalla questura. (Ricordarsi qui il
controcanto di Lener nella sua denuncia, quando parla dei magistrati d’allora
che “avevano vissuto la vicenda ora per ora, pagina per pagina.”)
Ed ecco che, oltre a tutto il resto, di una pagina si son dimenticati: precisamente di quella che nel registro riguarda il 16 dicembre, da cui risulta una chiamata da parte della questura alle 0,01. (Ricordarsi qui il primo e unico rapporto di Allegra diretto alla procura della repubblica in cui si dichiara che l’anarchico, durante un interrogatorio condotto da Calabresi, si era gettato dalla finestra alle 0,15.) Mentre, stando all’orario delle chiamate segnate sul registro, risulterebbe che l’autoambulanza ha raggiunto un vero e proprio record di velocità. Chiamata alle 0,01, corsa in questura da piazza 5 Giornate, raccolta del moribondo nel cortile e suo trasporto all’ospedale, dove viene ricoverato alle 0,1.0. (Qui ricordarsi della deposizione del teste Nunzio Bovolenta, autista dell’ambulanza, secondo il quale la sirena aveva scaricato la batteria, così la macchina non riusciva più a partire dal cortile della questura e furono in molti a dover aiutare a spingerla. Quanto al capo servizio Flavio Peralda, in tribunale disse che cominciò sul luogo della caduta a far un po’ di massaggio cardiaco al Pinelli “già due o tre colpi in cortile.”)
Ancora documenti, ma di solidarietà con Smuraglia da parte della FESAPI (Federazione sindacati avvocati e procuratori italiani); del gruppo repubblicano del Consiglio regionale lombardo, che parla di “inammissibilità di tali azioni” (denuncia di Lener), e delle segreterie provinciali milanesi dei sindacati metallurgici.
Ed ecco che, oltre a tutto il resto, di una pagina si son dimenticati: precisamente di quella che nel registro riguarda il 16 dicembre, da cui risulta una chiamata da parte della questura alle 0,01. (Ricordarsi qui il primo e unico rapporto di Allegra diretto alla procura della repubblica in cui si dichiara che l’anarchico, durante un interrogatorio condotto da Calabresi, si era gettato dalla finestra alle 0,15.) Mentre, stando all’orario delle chiamate segnate sul registro, risulterebbe che l’autoambulanza ha raggiunto un vero e proprio record di velocità. Chiamata alle 0,01, corsa in questura da piazza 5 Giornate, raccolta del moribondo nel cortile e suo trasporto all’ospedale, dove viene ricoverato alle 0,1.0. (Qui ricordarsi della deposizione del teste Nunzio Bovolenta, autista dell’ambulanza, secondo il quale la sirena aveva scaricato la batteria, così la macchina non riusciva più a partire dal cortile della questura e furono in molti a dover aiutare a spingerla. Quanto al capo servizio Flavio Peralda, in tribunale disse che cominciò sul luogo della caduta a far un po’ di massaggio cardiaco al Pinelli “già due o tre colpi in cortile.”)
Ancora documenti, ma di solidarietà con Smuraglia da parte della FESAPI (Federazione sindacati avvocati e procuratori italiani); del gruppo repubblicano del Consiglio regionale lombardo, che parla di “inammissibilità di tali azioni” (denuncia di Lener), e delle segreterie provinciali milanesi dei sindacati metallurgici.
30 settembre: Presente il procuratore generale d’Espinosa, il
dottor D’Ambrosio interroga la signora Pinelli. Tema del colloquio: la
ricostruzione, minuto per minuto, del tempo trascorso da lei dopo il suo arrivo
al Fatebenefratelli la notte del 15, quando suo marito era già morto da venti
minuti. Si parla anche dei vestiti del morto che non sono mai stati ritrovati.
(Nel processo “Calabresí-Lotta continua” i difensori avevano chiesto più volte
che venissero cercati ed esaminati per riscontrarvi la corrispondenza di
eventuali lacerazioni con le lesioni; accolta dal tribunale la richiesta, ma
tutto saltato in seguito alla ricusazione.) Viene interrogato anche l’avvocato
Marcello Gentili.
Né accenna ad acquietarsi la polemica tra gli avvocati. Lener manda al giudice venti pagine che vogliono, essere “una replica dell’esposto di Smuraglia per fronteggiare una coalizione che tende a degradarmi a livello di tutte le indegnità.” Per concludere, ostinatissimo, che “lo Smuraglia ha tutto distorto, mutilato, falsato,” che “abbiamo attinto alle stesse fonti attraverso uno studio che i rispettivi clienti non potevano fare e non hanno fatto, arrivando a due conclusioni diametralmente opposte: lo Smuraglia ha dimostrato che i sette accusati sono omicidi e quanto altro. lo ho dimostrato che sono innocenti e calunniati. Quel materiale artefatto lo Smuraglia lo ha sottoposto alla sua cliente ottenendone la firma: dunque l’ha ingannata. Il mio materiale l’ho firmato da solo assumendone la responsabilità. Ripeto: in questo la vedova Pinelli è stata ingannata, anche se dice di no.” Convinto lui, ecco tutto.
Né accenna ad acquietarsi la polemica tra gli avvocati. Lener manda al giudice venti pagine che vogliono, essere “una replica dell’esposto di Smuraglia per fronteggiare una coalizione che tende a degradarmi a livello di tutte le indegnità.” Per concludere, ostinatissimo, che “lo Smuraglia ha tutto distorto, mutilato, falsato,” che “abbiamo attinto alle stesse fonti attraverso uno studio che i rispettivi clienti non potevano fare e non hanno fatto, arrivando a due conclusioni diametralmente opposte: lo Smuraglia ha dimostrato che i sette accusati sono omicidi e quanto altro. lo ho dimostrato che sono innocenti e calunniati. Quel materiale artefatto lo Smuraglia lo ha sottoposto alla sua cliente ottenendone la firma: dunque l’ha ingannata. Il mio materiale l’ho firmato da solo assumendone la responsabilità. Ripeto: in questo la vedova Pinelli è stata ingannata, anche se dice di no.” Convinto lui, ecco tutto.
2 ottobre: Conferenza-stampa dell’avvocato Marcello Gentili
che si rivede con molto piacere, costante il sorriso sulle labbra, azzurro quel
cupo ardore degli occhi, pesantissima, come al solito, -la sua gran borsa in
mano. Anche tr nome dell’avv. Bianca Guidetti Serra, ha appena presentato
un’istanza al tribunale per chiedere che continui il processo “Calabresi-Lotta
continua,” di cui è stata fissata l’udienza per il 6 ottobre. All’istanza ha
poi allegato un parere “pro veritate” firmato dai professori Mario Chiavario, straordinario
di procedura penale all’università di Perugia, Oreste Dominioni, assistente di
procedura penale all’università di Milano, Gaetano Pecorella, incaricato in
istituzioni di diritto e procedura penale all’università di Milano, e Metelio
Scaparone, incaricato di procedura penale all’università di Cagliari. Due
dozzine di cartelle in cui si arriva a due conclusioni: che la ricusazione non
può impedire il processo, e che un altro processo (cioè quello che dovrebbe
seguire alla denuncia della signora Pinelli) non può passar davanti al
precedente “Calabresi-Lotta continua. ”
Visto poi il capo d’imputazione contestato a Calabresi dal procuratore generale, gli avvocati Gentili e Guidetti Serra prendono atto: 1) che esiste una presunzione di suicidio che trascura quanto è stato acquisito e consacrato nei verbali dell’istruttoria dibattimentale del processo in cui sono difensori; 2 ) che si arriva a descrivere le ragioni che avrebbero indotto l’anarchico all’estremo gesto; 3 ) che si ipotizza una sua più o meno diretta responsabilità nella strage di Milano (decisamente esclusa nell’istruttoria condotta su tali fatti) e in altri attentati dinamitardi di cui Pinelli non è mai stato sospettato. Una presunzione di suicidio, dunque, che poggia sulle responsabilità nella strage, che sembra escludere l’opportunità di ogni altra indagine sulle cause della sua morte e implicare un’archiviazione della denuncia della vedova.
Mentre l’opposta presunzione di omicidio volontario, avanzata nella denuncia, trova un fondamento in molti elementi fra cui tutte quelle reticenze e insanabili contraddizioni sulla versione dei fatti. “In relazione a questa presunzione di omicidio volontario, abbiamo chiesto di provare, fin dalla prima udienza, elementi di fatto tendenti a verificare un collegamento fra l’omicidio di Giuseppe Pinelli e la strage, collegamento evidentemente opposto a quello che viene ipotizzato ora dall’accusa. E tutto ciò diventa importantissimo non solo per la vicenda Pinelli, ma anche per la tutela e l’esercizio dei diritti di difesa dell’imputato Pio Baldelli.” Secondo Gentili, i due processi potrebbero andare avanti insieme, a meno che l’imputazione a Calabresi non venisse aggravata, e allora la difesa si riterrebbe soddisfatta.
I giornalisti interrogano, l’avvocato risponde. Non si fa sempre più oscura la dibattuta questione degli orari? Certamente, se si calcola che il “rapportino” di Allegra segna il volo dalla finestra a un quarto d’ora dopo la mezzanotte e il registro delle chiamate delle autoambulanze segna invece la chiamata della questura a un minuto dopo la mezzanotte (cioè ben quattordici minuti prima). E adesso Gentili comunica quel che è scritto nella relazione dell’ispettore capo di PS Elvio Catenacci, inviata il 28 dicembre 1969 al capo della polizia: “Il fatto avvenne,” egli scrive, “intorno alle 0,04,” cioè tre minuti dopo la telefonata per l’autoambulanza. Invece i tre volontari della Croce Bianca, Paolo Chersi, Nunzio Bovolenta e Claudio Peralda hanno testimoniato che la telefonata è avvenuta senza alcun dubbio prima della mezzanotte.
Ritorna dunque l’inquietante interrogativo: l’autoambulanza è stata chiamata prima di quello che il Catenacci definisce “il fatto”? Altro mistero: i vestiti. Al Fatebenefratelli il Pinelli aveva addosso giacca e pantaloni, mentre all’obitorio era in mutande e maglietta. Dove sono finiti? Se non vengono reclamati dalla famiglia, pare che dopo un anno vengano bruciati. Ma la madre di Pinelli ne fece richiesta all’obitorio per sentirsi rispondere che per averli indietro ci voleva un decreto del giudice istruttore (e pare che non sia vero): Va annotata così fra le insensate omissioni dei primi periti, anche quella di non aver subito richiesto ed esaminato gli indumenti di Pinelli.
Visto poi il capo d’imputazione contestato a Calabresi dal procuratore generale, gli avvocati Gentili e Guidetti Serra prendono atto: 1) che esiste una presunzione di suicidio che trascura quanto è stato acquisito e consacrato nei verbali dell’istruttoria dibattimentale del processo in cui sono difensori; 2 ) che si arriva a descrivere le ragioni che avrebbero indotto l’anarchico all’estremo gesto; 3 ) che si ipotizza una sua più o meno diretta responsabilità nella strage di Milano (decisamente esclusa nell’istruttoria condotta su tali fatti) e in altri attentati dinamitardi di cui Pinelli non è mai stato sospettato. Una presunzione di suicidio, dunque, che poggia sulle responsabilità nella strage, che sembra escludere l’opportunità di ogni altra indagine sulle cause della sua morte e implicare un’archiviazione della denuncia della vedova.
Mentre l’opposta presunzione di omicidio volontario, avanzata nella denuncia, trova un fondamento in molti elementi fra cui tutte quelle reticenze e insanabili contraddizioni sulla versione dei fatti. “In relazione a questa presunzione di omicidio volontario, abbiamo chiesto di provare, fin dalla prima udienza, elementi di fatto tendenti a verificare un collegamento fra l’omicidio di Giuseppe Pinelli e la strage, collegamento evidentemente opposto a quello che viene ipotizzato ora dall’accusa. E tutto ciò diventa importantissimo non solo per la vicenda Pinelli, ma anche per la tutela e l’esercizio dei diritti di difesa dell’imputato Pio Baldelli.” Secondo Gentili, i due processi potrebbero andare avanti insieme, a meno che l’imputazione a Calabresi non venisse aggravata, e allora la difesa si riterrebbe soddisfatta.
I giornalisti interrogano, l’avvocato risponde. Non si fa sempre più oscura la dibattuta questione degli orari? Certamente, se si calcola che il “rapportino” di Allegra segna il volo dalla finestra a un quarto d’ora dopo la mezzanotte e il registro delle chiamate delle autoambulanze segna invece la chiamata della questura a un minuto dopo la mezzanotte (cioè ben quattordici minuti prima). E adesso Gentili comunica quel che è scritto nella relazione dell’ispettore capo di PS Elvio Catenacci, inviata il 28 dicembre 1969 al capo della polizia: “Il fatto avvenne,” egli scrive, “intorno alle 0,04,” cioè tre minuti dopo la telefonata per l’autoambulanza. Invece i tre volontari della Croce Bianca, Paolo Chersi, Nunzio Bovolenta e Claudio Peralda hanno testimoniato che la telefonata è avvenuta senza alcun dubbio prima della mezzanotte.
Ritorna dunque l’inquietante interrogativo: l’autoambulanza è stata chiamata prima di quello che il Catenacci definisce “il fatto”? Altro mistero: i vestiti. Al Fatebenefratelli il Pinelli aveva addosso giacca e pantaloni, mentre all’obitorio era in mutande e maglietta. Dove sono finiti? Se non vengono reclamati dalla famiglia, pare che dopo un anno vengano bruciati. Ma la madre di Pinelli ne fece richiesta all’obitorio per sentirsi rispondere che per averli indietro ci voleva un decreto del giudice istruttore (e pare che non sia vero): Va annotata così fra le insensate omissioni dei primi periti, anche quella di non aver subito richiesto ed esaminato gli indumenti di Pinelli.
5 ottobre: Che finalmente stia filtrando quel tal raggio di
luce in tutta l’oscura vicenda? C’è sempre chi continua a parlare di fumo negli
occhi, affermando che non bisogna fidarsi troppo di queste schiarite. Ma una
cosa positiva succede: prendendo finalmente sul serio la denuncia della vedova
Pinelli, il giudice D’Ambrosio invia sei avvisi di reato (“in relazione a una
denuncia per omicidio volontario”) contro Luigi Calabresi, e i sottufficiali di
PS Panessa, Caracuta, Mainardi, Mucilli e il capitano dei carabinieri Savino Lo
Grano, cinque testimoni-chiave, questi ultimi, che diventano di colpo imputati
anche loro.
Chiaro che il magistrato ha in mente di allargare al massimo il campo delle indagini, contemplando la possibilità che queste abbiano esiti diversi, e anche più gravi, rispetto al loro punto di partenza. Nel suo documento inoltre egli parla di “atti processuali” rispetto ai quali la legge riconosce determinati diritti alle parti private “cioè la prossima [ahimè quanto ritardata!] esumazione delle spoglie del Pinelli con relative perizie e l’esperimento giudiziale che consiste nel lancio di un manichino di gomma dalla finestra dalla quale il Pinelli è precipitato.”
E Lener? Ormai ha deciso di sparare in tutte le direzioni. Manda infatti la sua solita bollente memoria per dire che la cartella clinica non è stata mai chiesta prima perché il medico di guardia Nazzareno Fiorenzano “è stato reticente durante tutti i suoi interrogatori e ha mentito al dibattimento nel processo ‘Calabresi-Lotta continua’” (per la verità era stato uno dei pochissimi testi credibili e coerenti dal principio alla fine). Com’è noto, il Fiorenzano aveva detto che la cartella clinica lui non l’aveva fatta. E se adesso l’hanno trovata in archivio, vuol dire che è stata redatta poi nel reparto rianimazione, e non nel Pronto Soccorso dov’era lui il capoturno. Comunque quest’ultimo ha deposto il 2 dicembre 1970; e prima di allora, cioè a un anno di distanza dalla morte, nessun magistrato s’era mai sognato di chiederla. E Lener naturalmente vuole iniziare un’azione penale contro Fiorenzano.
Gli avvocati per i quattro sottufficiali sono già pronti. Il Lo Grano si è scelto l’avvocato Armando Cillario; quanto a Calabresi, si è costituito un vero collegio. Oltre a Lener infatti, ora ha anche i professori Giacomo Delitala e Alberto Crespi. Sono tutti avvocati costosissimi: chiaro quindi che o difendono gratis Calabresi (e in quanto professori, gli ultimi due avranno grossi problemi coi loro studenti), se no sono pagati dal ministero. Per ora fermiamoci qui, in attesa dei soliti “nuovi clamorosi sviluppi,” che certo non mancheranno se il giudice D’Ambrosio continuerà a dimostrare come son state fallose le “oneste fatiche” dei precedenti magistrati, e finché sarà di scena l’avvocato Lener. (Di una cosa si può esser sicuri: che non si è fermato, ma quale sarà il suo nuovo bersaglio? Non gli resta che il procuratore generale, anzi circola la voce che stia preparando un dossier contro di lui.)
Resta aperta così una vicenda alla quale in questi due anni mi sono estremamente appassionata, che mi ha colpito e inquietato come a poco a poco ha colpito e inquietato un sempre crescente numero di persone. E quel che é risultato è un’abbastanza,ordinata successione di fatti (con ripetizioni qualche volta ossessive, ma utili, credo, a quanti nella vicenda non si erano calati in profondo o a chi, magari, traumatizzato dalla lettura, potrebbe spesso pensare di non aver afferrato bene). Se qualcuno però voleva la rivelazione clamorosa, qua dentro non l’ha trovata.
La rivelazione vien fuori dal nudo e plumbeo racconto con tutti i suoi incredibili accostamenti ed intrecci, sotterfugi e passi indietro. Credo infatti che agli onesti questo libretto apparirà addirittura un “giallo” aberrante, anche perché in un’epoca in cui come niente si sfreccia sulla luna e le più complete diagnosi mediche son fatte dai calcolatori, leggendolo, essi verranno a contatto con una realtà delle più abnormi, offensiva per il buon senso, ripugnante alle coscienze.
Una realtà fatta da personaggi che rimbalzano di pagina in pagina, cupamente efficienti in un carosello di ipocrisie, violenze e menzogne. Ma non bisogna lasciarsi ingannare; perché le responsabilità non vanno cercate soltanto nel cortile o nelle stanze di via Fatebenefratelli: per capir bene la vicenda, è necessario andar più in alto a scovarle, risalendo a tutto ciò ché è accaduto in Italia dal G8 ad oggi.
È necessario risalire a quegli anni di vera e propria febbre aziendale, a quando, come sé si svegliassero da un lungo sonno, gli operai mettono in discussione bruscamente la loro condizione; bisogna rifarsi alle contestazioni davanti ai cancelli, alle rivendicazioni non soltanto sindacali ma politiche, ché coinvolgono anche il problema delle riforme, alle dimostrazioni e ai cortei che a spinte di centomila per volta; paralizzano le città, alle vaste azioni di volantinaggio che chiedono la partecipazione di tutti, ai sit-in di operai in tuta, alle serrate, alle sospensioni, agli scioperi che, cominciati con quello generale del 25 settembre ’69, si susseguono con ritmi precisi, ai primi schieramenti di polizia armata davanti alle fabbriche. Finché, quasi a firmare un accordo di lavoro comune, per la prima volta gli operai entrano nell’università; finché si arriva allo sciopero generale in tutta Italia (15 ottobre), allo sciopero generale di Milano per il caro-vita con gran comizio di sindacati al Lirico; e la data é il 19 novembre, il giorno degli incidenti provocati dalla polizia e della morte di Annarumma.
Il novembre porta lo sciopero dei metalmeccanici a Roma, ma anche i primi arresti e le prime denunce; anzi 1e denunce diluviano (sono quattordicimila in tutta Italia), mentre centomila sono i metalmeccanici che in piazza del Duomo protestano per l’arresto di quattro operai. Il 9 dicembre si firma l’accordo tra il sindacato metalmeccanici e l’Intersind, e sta per concludersi anche quello con la Confindustria quando il 12 dicembre scoppiano le bombe di piazza Fontana.
Scoppiano una volta che gli operai hanno vinto la loro battaglia, quando gli strateghi della tensione hanno già lavorato a puntino; basta con questi operai che mandano alla rovina il paese, basta coi disordini, le pretese e gli ingorghi del traffico, basta col caos, non è ora di finirla con questi gruppuscoli extraparlamentari che si infiltrano nelle fabbriche, coi cattolici di sinistra che inquinano il governo, coi comunisti che soffiano sul , fuoco? E si fanno ad alta voce e sui giornali i discorsi che si facevano da due anni più o meno sottovoce: ci vuole la mano forte, il pugno di ferro, l’uomo forte e perché no i colonnelli?, al tempo dei fascisti certo non c’erano gli scioperi. È al funerale di Annarumma che vien gettato il seme della maggioranza silenziosa, ecco i labari fascisti, ecco l’ex comandante della Muti, insieme ai borghesi benpensanti in paltò di cammello, ecco la provocazione della polizia, il clima del linciaggio.
Sono bombe di destra, lascia capire l’autrice di questo Pinelli sull’ “Espresso” del 21 dicembre ’69, e un gruppo di degni milanesi s’infuria, addirittura fanno un plenum per deplorare la provocante supposizione, si accusa Li sottoscritta di gettar fango sulla parte ancora sana della nazione. (Finché il 4 agosto 1971 anche sul “Corriere della Sera” si potrà leggera a firma di Alfredo Pieroni e a proposito dei “fanatici del colpo di stato;” che “la strategia della tensione” è stata “tipicamente fascista,” che “Borghese aveva sicuramente trovato dei finanziamenti. Aveva ordinato ai suoi uomini di infiltrarsi in movimenti estremisti della parte opposta: soprattutto anarchici, col compito di aumentare la tensione nel paese e produrre una situazione di allarme e di aspirazione all’ordine. Una serie di date potrebbe avere correlazioni segrete. Borghese andò organizzandosi tra la primavera e l’inizio dell’estate del ’69. Il fronte `Italia Unita’ si costituì il 7 novembre. Il 19 moriva la guardia Annarumma. Il 12 dicembre ci fu la strage di piazza Fontana, che assai probabilmente fu dovuta a un calcolo sbagliato, ma che aveva tutta l’aria di voler essere una delle tante mosse calcolate per aumentare la tensione.”)
Non sono dunque una combinazione queste bombe, in questa data, e non è una combinazione che gli autori siano subito e come sempre cercati fra gli anarchici, in un gruppo da sempre non protetto, più confuso degli altri, comunque la parte più debole dello schieramento di sinistra, il gruppo che durante tutto il ’69 è stato accusato di molteplici attentati contro chiese, stazioni di carabinieri, carceri e caserme dell’esercito, tutti attentati che in un secondo tempo sono puntualmente risultati opera di neofascisti. E tra gli atti, naturalmente, quello del 25 aprile, da cui, tanto per cambiare, sono risultati estranei gli anarchici, e quelli dell’agosto sui treni, per cui sono stati indiziati i tre fascisti veneti. Il telegramma di Saragat subito dopo la strage è una conferma dei sospetti generali. “L’attentato di Milano,” così comincia, “è un anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata ad ogni costo per salvaguardare la vita e la libertà dei cittadini.”
Un’altra volta dunque gli anarchici funzionano da capro espiatorio: si prende Valpreda e Pinelli muore. Chi ha messo le bombe sa come è morto Pinelli e perché. Pinelli è volato dalla finestra perché quella sera lì serviva un morto, dato che le bombe erano due: una l’aveva messa il Valpreda ma l’altra alla Banca commerciale? (Non si dimentichi che a meno di un’ora di distanza dalla morte del ferroviere, il questore aveva mostrato a Rolandi una foto di Valpreda, e: “Bravo Rolandi! ” gli aveva detto, dandogli un buffetto sulla guancia dopo .il riconoscimento, “Hai finito di fare il tassista. Ti sei sistemato.”) Pinelli serviva come l’accusatore di Valpreda e non sarebbe finito così se si fosse prestato a calunniarlo. O se no serviva come suicida per dar credibilità alla tesi che a metter le bombe erano stati proprio gli anarchici.
Pinelli è infine un simbolo che va al di là del suo tremendo destino. P, la prova che la giustizia non è uguale per tutti: da una parte lo stato coi suoi baluardi da difendere, dall’altra un cittadino senza diritti, ed è proprio per questo che, per la prima volta nel dopoguerra, il suo caso ha mosso in modo così massiccio una così larga schiera di opinione pubblica democratica. I baluardi dello stato non si toccano, la magistratura non si discute (ed è per questo che vien messa in crisi dalla sua parte migliore), la polizia è al di sopra di ogni sospetto, va coperta, va giustificata.
La scoperchiatura della tomba (che, sia ben chiaro, a tanto tempo di distanza, non si sa che valore possa avere) è un fatto di principio. Non l’hanno aperta all’inizio quando sarebbe stato utile, perché sarebbe stato come andar contro la sacralità del sistema. Mentre da tutto l’insieme (ricusazione compresa) si è visto che Lener non difende soltanto Calabresi, ma una posta molto più grossa, giusto lo stato con le sue istituzioni. E chi mette in dubbio stato e istituzioni ha la peggio, tanto nel ’69 che nel ’71. Perché, come allora anche nel ’71 sono in pericolo le libertà assicurate dalla Costituzione della repubblica, la parola “riforme” fa ancora paura, e, come due anni fa, oggi incombono un’altra volta grossi tentativi di autoritarismo e infiltrazioni restauratrici a tutti i livelli.
Per questo il caso Pinelli è importantissimo. Importantissimo perché, se è necessario che gli scandali avvengano, è colpevole lasciarli smorzare in un clima di rassegnato torpore. Pinelli è stato la vittima innocente di un gioco più vasto e più crudele, anche sul quale va fatta luce al più presto, cioè il caso Valpreda. Ristabilire la verità sulla sua morte è un dovere politico e morale; è indispensabile per aiutare a far sì che la giustizia in Italia non sia soltanto quella statua melensa ritta nel cortile di un tribunale che si è rivelato incapace di assolvere i suoi compiti. Ed è la premessa per evitare che vi sia una seconda vittima innocente: Pietro Valpreda.
Chiaro che il magistrato ha in mente di allargare al massimo il campo delle indagini, contemplando la possibilità che queste abbiano esiti diversi, e anche più gravi, rispetto al loro punto di partenza. Nel suo documento inoltre egli parla di “atti processuali” rispetto ai quali la legge riconosce determinati diritti alle parti private “cioè la prossima [ahimè quanto ritardata!] esumazione delle spoglie del Pinelli con relative perizie e l’esperimento giudiziale che consiste nel lancio di un manichino di gomma dalla finestra dalla quale il Pinelli è precipitato.”
E Lener? Ormai ha deciso di sparare in tutte le direzioni. Manda infatti la sua solita bollente memoria per dire che la cartella clinica non è stata mai chiesta prima perché il medico di guardia Nazzareno Fiorenzano “è stato reticente durante tutti i suoi interrogatori e ha mentito al dibattimento nel processo ‘Calabresi-Lotta continua’” (per la verità era stato uno dei pochissimi testi credibili e coerenti dal principio alla fine). Com’è noto, il Fiorenzano aveva detto che la cartella clinica lui non l’aveva fatta. E se adesso l’hanno trovata in archivio, vuol dire che è stata redatta poi nel reparto rianimazione, e non nel Pronto Soccorso dov’era lui il capoturno. Comunque quest’ultimo ha deposto il 2 dicembre 1970; e prima di allora, cioè a un anno di distanza dalla morte, nessun magistrato s’era mai sognato di chiederla. E Lener naturalmente vuole iniziare un’azione penale contro Fiorenzano.
Gli avvocati per i quattro sottufficiali sono già pronti. Il Lo Grano si è scelto l’avvocato Armando Cillario; quanto a Calabresi, si è costituito un vero collegio. Oltre a Lener infatti, ora ha anche i professori Giacomo Delitala e Alberto Crespi. Sono tutti avvocati costosissimi: chiaro quindi che o difendono gratis Calabresi (e in quanto professori, gli ultimi due avranno grossi problemi coi loro studenti), se no sono pagati dal ministero. Per ora fermiamoci qui, in attesa dei soliti “nuovi clamorosi sviluppi,” che certo non mancheranno se il giudice D’Ambrosio continuerà a dimostrare come son state fallose le “oneste fatiche” dei precedenti magistrati, e finché sarà di scena l’avvocato Lener. (Di una cosa si può esser sicuri: che non si è fermato, ma quale sarà il suo nuovo bersaglio? Non gli resta che il procuratore generale, anzi circola la voce che stia preparando un dossier contro di lui.)
Resta aperta così una vicenda alla quale in questi due anni mi sono estremamente appassionata, che mi ha colpito e inquietato come a poco a poco ha colpito e inquietato un sempre crescente numero di persone. E quel che é risultato è un’abbastanza,ordinata successione di fatti (con ripetizioni qualche volta ossessive, ma utili, credo, a quanti nella vicenda non si erano calati in profondo o a chi, magari, traumatizzato dalla lettura, potrebbe spesso pensare di non aver afferrato bene). Se qualcuno però voleva la rivelazione clamorosa, qua dentro non l’ha trovata.
La rivelazione vien fuori dal nudo e plumbeo racconto con tutti i suoi incredibili accostamenti ed intrecci, sotterfugi e passi indietro. Credo infatti che agli onesti questo libretto apparirà addirittura un “giallo” aberrante, anche perché in un’epoca in cui come niente si sfreccia sulla luna e le più complete diagnosi mediche son fatte dai calcolatori, leggendolo, essi verranno a contatto con una realtà delle più abnormi, offensiva per il buon senso, ripugnante alle coscienze.
Una realtà fatta da personaggi che rimbalzano di pagina in pagina, cupamente efficienti in un carosello di ipocrisie, violenze e menzogne. Ma non bisogna lasciarsi ingannare; perché le responsabilità non vanno cercate soltanto nel cortile o nelle stanze di via Fatebenefratelli: per capir bene la vicenda, è necessario andar più in alto a scovarle, risalendo a tutto ciò ché è accaduto in Italia dal G8 ad oggi.
È necessario risalire a quegli anni di vera e propria febbre aziendale, a quando, come sé si svegliassero da un lungo sonno, gli operai mettono in discussione bruscamente la loro condizione; bisogna rifarsi alle contestazioni davanti ai cancelli, alle rivendicazioni non soltanto sindacali ma politiche, ché coinvolgono anche il problema delle riforme, alle dimostrazioni e ai cortei che a spinte di centomila per volta; paralizzano le città, alle vaste azioni di volantinaggio che chiedono la partecipazione di tutti, ai sit-in di operai in tuta, alle serrate, alle sospensioni, agli scioperi che, cominciati con quello generale del 25 settembre ’69, si susseguono con ritmi precisi, ai primi schieramenti di polizia armata davanti alle fabbriche. Finché, quasi a firmare un accordo di lavoro comune, per la prima volta gli operai entrano nell’università; finché si arriva allo sciopero generale in tutta Italia (15 ottobre), allo sciopero generale di Milano per il caro-vita con gran comizio di sindacati al Lirico; e la data é il 19 novembre, il giorno degli incidenti provocati dalla polizia e della morte di Annarumma.
Il novembre porta lo sciopero dei metalmeccanici a Roma, ma anche i primi arresti e le prime denunce; anzi 1e denunce diluviano (sono quattordicimila in tutta Italia), mentre centomila sono i metalmeccanici che in piazza del Duomo protestano per l’arresto di quattro operai. Il 9 dicembre si firma l’accordo tra il sindacato metalmeccanici e l’Intersind, e sta per concludersi anche quello con la Confindustria quando il 12 dicembre scoppiano le bombe di piazza Fontana.
Scoppiano una volta che gli operai hanno vinto la loro battaglia, quando gli strateghi della tensione hanno già lavorato a puntino; basta con questi operai che mandano alla rovina il paese, basta coi disordini, le pretese e gli ingorghi del traffico, basta col caos, non è ora di finirla con questi gruppuscoli extraparlamentari che si infiltrano nelle fabbriche, coi cattolici di sinistra che inquinano il governo, coi comunisti che soffiano sul , fuoco? E si fanno ad alta voce e sui giornali i discorsi che si facevano da due anni più o meno sottovoce: ci vuole la mano forte, il pugno di ferro, l’uomo forte e perché no i colonnelli?, al tempo dei fascisti certo non c’erano gli scioperi. È al funerale di Annarumma che vien gettato il seme della maggioranza silenziosa, ecco i labari fascisti, ecco l’ex comandante della Muti, insieme ai borghesi benpensanti in paltò di cammello, ecco la provocazione della polizia, il clima del linciaggio.
Sono bombe di destra, lascia capire l’autrice di questo Pinelli sull’ “Espresso” del 21 dicembre ’69, e un gruppo di degni milanesi s’infuria, addirittura fanno un plenum per deplorare la provocante supposizione, si accusa Li sottoscritta di gettar fango sulla parte ancora sana della nazione. (Finché il 4 agosto 1971 anche sul “Corriere della Sera” si potrà leggera a firma di Alfredo Pieroni e a proposito dei “fanatici del colpo di stato;” che “la strategia della tensione” è stata “tipicamente fascista,” che “Borghese aveva sicuramente trovato dei finanziamenti. Aveva ordinato ai suoi uomini di infiltrarsi in movimenti estremisti della parte opposta: soprattutto anarchici, col compito di aumentare la tensione nel paese e produrre una situazione di allarme e di aspirazione all’ordine. Una serie di date potrebbe avere correlazioni segrete. Borghese andò organizzandosi tra la primavera e l’inizio dell’estate del ’69. Il fronte `Italia Unita’ si costituì il 7 novembre. Il 19 moriva la guardia Annarumma. Il 12 dicembre ci fu la strage di piazza Fontana, che assai probabilmente fu dovuta a un calcolo sbagliato, ma che aveva tutta l’aria di voler essere una delle tante mosse calcolate per aumentare la tensione.”)
Non sono dunque una combinazione queste bombe, in questa data, e non è una combinazione che gli autori siano subito e come sempre cercati fra gli anarchici, in un gruppo da sempre non protetto, più confuso degli altri, comunque la parte più debole dello schieramento di sinistra, il gruppo che durante tutto il ’69 è stato accusato di molteplici attentati contro chiese, stazioni di carabinieri, carceri e caserme dell’esercito, tutti attentati che in un secondo tempo sono puntualmente risultati opera di neofascisti. E tra gli atti, naturalmente, quello del 25 aprile, da cui, tanto per cambiare, sono risultati estranei gli anarchici, e quelli dell’agosto sui treni, per cui sono stati indiziati i tre fascisti veneti. Il telegramma di Saragat subito dopo la strage è una conferma dei sospetti generali. “L’attentato di Milano,” così comincia, “è un anello di una tragica catena di atti terroristici che deve essere spezzata ad ogni costo per salvaguardare la vita e la libertà dei cittadini.”
Un’altra volta dunque gli anarchici funzionano da capro espiatorio: si prende Valpreda e Pinelli muore. Chi ha messo le bombe sa come è morto Pinelli e perché. Pinelli è volato dalla finestra perché quella sera lì serviva un morto, dato che le bombe erano due: una l’aveva messa il Valpreda ma l’altra alla Banca commerciale? (Non si dimentichi che a meno di un’ora di distanza dalla morte del ferroviere, il questore aveva mostrato a Rolandi una foto di Valpreda, e: “Bravo Rolandi! ” gli aveva detto, dandogli un buffetto sulla guancia dopo .il riconoscimento, “Hai finito di fare il tassista. Ti sei sistemato.”) Pinelli serviva come l’accusatore di Valpreda e non sarebbe finito così se si fosse prestato a calunniarlo. O se no serviva come suicida per dar credibilità alla tesi che a metter le bombe erano stati proprio gli anarchici.
Pinelli è infine un simbolo che va al di là del suo tremendo destino. P, la prova che la giustizia non è uguale per tutti: da una parte lo stato coi suoi baluardi da difendere, dall’altra un cittadino senza diritti, ed è proprio per questo che, per la prima volta nel dopoguerra, il suo caso ha mosso in modo così massiccio una così larga schiera di opinione pubblica democratica. I baluardi dello stato non si toccano, la magistratura non si discute (ed è per questo che vien messa in crisi dalla sua parte migliore), la polizia è al di sopra di ogni sospetto, va coperta, va giustificata.
La scoperchiatura della tomba (che, sia ben chiaro, a tanto tempo di distanza, non si sa che valore possa avere) è un fatto di principio. Non l’hanno aperta all’inizio quando sarebbe stato utile, perché sarebbe stato come andar contro la sacralità del sistema. Mentre da tutto l’insieme (ricusazione compresa) si è visto che Lener non difende soltanto Calabresi, ma una posta molto più grossa, giusto lo stato con le sue istituzioni. E chi mette in dubbio stato e istituzioni ha la peggio, tanto nel ’69 che nel ’71. Perché, come allora anche nel ’71 sono in pericolo le libertà assicurate dalla Costituzione della repubblica, la parola “riforme” fa ancora paura, e, come due anni fa, oggi incombono un’altra volta grossi tentativi di autoritarismo e infiltrazioni restauratrici a tutti i livelli.
Per questo il caso Pinelli è importantissimo. Importantissimo perché, se è necessario che gli scandali avvengano, è colpevole lasciarli smorzare in un clima di rassegnato torpore. Pinelli è stato la vittima innocente di un gioco più vasto e più crudele, anche sul quale va fatta luce al più presto, cioè il caso Valpreda. Ristabilire la verità sulla sua morte è un dovere politico e morale; è indispensabile per aiutare a far sì che la giustizia in Italia non sia soltanto quella statua melensa ritta nel cortile di un tribunale che si è rivelato incapace di assolvere i suoi compiti. Ed è la premessa per evitare che vi sia una seconda vittima innocente: Pietro Valpreda.
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