Dovranno cambiare per forza, perché sono sull'orlo
del collasso, risponde Murray Bookchin in un libro di recente pubblicazione in
America: The Limits of the City (I limiti della città). Secondo Bookchin, le
città del mondo moderno, affette da elefantismi, stanno rovinando. "Si
stanno disintegrando da tutti i punti di vista: amministrativo, istituzionale e
logistico; sono sempre meno in grado di assicurare i servizi minimamente necessari
all'abitabilità, alla sicurezza, al trasporto delle merci e delle persone...".
Anche in quelle città dove sopravvive una parvenza di democrazia formale
"quasi tutti i problemi civici vengono risolti non tramite un'azione che
tenga conto delle loro radici sociali, ma per mezzo di un intervento
legislativo che riduce ulteriormente i diritti del cittadino come essere
autonomo e accresce il potere delle forze che operano al di sopra
dell'individuo". Né può giovare, in questo senso, l'opera dei tecnici
professionisti: "La pianificazione urbana ha potuto raramente trascendere
le disastrose condizioni sociali che ne hanno determinato l'esigenza. Nella
misura in cui si è ripiegata e rinchiusa in se stessa, nella sua natura di
professione specialistica - attività professionale di architetti, ingegneri e
sociologi - è rientrata anch'essa nei limiti angusti della divisione del lavoro
caratteristica di quella stessa società che avrebbe dovuto controllare. Non a
caso, spesso le proposte di impronta più umanistica per la soluzione dei problemi
dell'urbanesimo sono state avanzate da 'non addetti ai lavori', che tuttavia
hanno un contatto diretto con l'esperienza reale della gente e con le agonie
terrene della vita metropolitana". Bookchin ha ragione. Ebenezer Howard
era uno scenografo e Patrick Geddes un botanico. Ma i 'non addetti ai lavori'
che più di tutti gli altri, secondo Bookchin, indicano la via da seguire sono i
rappresentanti della controcultura giovanile: "Molto è stato scritto
sull'isolamento dei giovani nelle comuni rurali. Molto meno si è detto di quanto
la controcultura giovanile ha fatto per sottoporre la pianificazione urbana a
una critica serrata, spesso avanzando proposte alternative ai disumanizzanti
progetti di 'rivitalizzazione' e di 'riabilitazione' urbana...". Per i
nuovi progettisti della controcultura "il punto di partenza non era l'oggetto
piacevole e l''efficienza con cui rendere più spedito il traffico, le
comunicazioni e le attività economiche. I nuovi progettisti miravano piuttosto
a stabilire un rapporto tra la progettazione e la necessità di garantire
l'intimità personale, la multiformità dei rapporti sociali, la non gerarchicità
dei modi di organizzazione, il carattere comunitario della convivenza e
l'indipendenza materiale dell'economia di mercato. La progettazione, dunque,
non doveva partire da una concezione astratta dello spazio o da una ricerca di
funzionalità per il miglioramento dello status quo, bensì da una critica esplicita
dello status quo e dal concetto che a questo status quo doveva sostituirsi
quello della libertà dei rapporti umani. Gli elementi progettuali della
pianificazione avevano la loro origine in alternative sociali del tutto nuove.
Si voleva tentare di sostituire lo spazio gerarchico con uno spazio
liberato". Si stava, in pratica, riscoprendo la polis, reinventando la comune.
Ora Murray Bookchin sa che il movimento di controcultura americano ha
abbandonato le vette degli anni '60; non manca, perciò, di inveire contro la
rozza retorica politica che è subentrata ai suoi fasti. "La rabbia dei pugni
chiusi che esplose alla fine degli anni '60 fu assai più incapace di coinvolgere
l'opinione pubblica, sempre più allarmata e frastornata, di quanto non fecero i
fiori di alcuni anni prima". Tuttavia, afferma Bookchin, alcune delle
rivendicazioni e dei problemi avanzati allora sono imperituri. La richiesta di
'comunità nuove, decentralizzate, fondate su criteri ecologici che integrino in
sé i caratteri più avanzati della vita urbana e rurale non sarà mai sopita, per
il semplice motivo che "la nostra società, oggi, ha ben poche altre
alternative".
"In ultima analisi, non è dunque un pugno di governanti quello che ci schiaccia, ma è l’incoscienza, la stupidità dei montoni di Panurgo che costituiscono il bestiame elettorale. Noi lavoreremo senza tregua in vista della conquista della “felicità immediata”, restando partigiani del solo metodo scientifico e proclamando con i nostri compagni astensionisti: L’ELETTORE, ECCO IL NEMICO! E adesso alle urne, bestiame!” Manifesto dei redattori del giornale francese “L’Anarchie”, 1906
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