lunedì 29 ottobre 2012

Giuseppe Pinelli Part. 3


Proprio il caso di Pinelli, sembra commentare il giudice improvvisatosi psichiatra. Ma c’è una differenza: che Pinelli non era rinchiuso in un manicomio, ma in una stanza della questura di Milano. “Fosse stato in manicomio (diretto naturalmente da un tipo come 1′Altavilla),” scrisse con amara ironia Giorgio Manzini su “Astrolabio,” “lo avrebbero almeno assicurato con un collare e non sarebbe successo nulla.”
Una nota finale: dato il nulla assoluto a carico di Pinelli che emerge dalla lunga istruttoria, lì dentro si vuol forse sottolineare una frattura fra Allegra e Calabresi (da una parte il meridionale di tipo borbonico, questurino all’antica e dall’altra lo scattante Calabresi che è capace anche di frequentare i contestatori). Amati sostiene Calabresi e il suo scudiero Panessa, mentre mette in luce meno benevola Allegra (non bisogna dimenticare che Calabresi è l’uomo che ha eseguito i mandati di cattura di Amati e lo ha abilmente aiutato a intorbidire le acque di quella caotica istruttoria sugli anarchici, interrogando la Zublena, teste incredibile e crollata al dibattito, sulla quale si fondava tutta l’accusa).
Totale il discredito che un documento del genere getta tanto sulla magistratura (le sue plateali deduzioni, i pezzi mancanti della precedente istruttoria, gli interrogatori e i confronti dimenticati), quanto sulla polizia. Tutte in contraddizione fra loro le deposizioni di agenti e funzionari; e tutte diverse da quelle famose dichiarazioni fatte a botta calda e a versione frettolosamente concordata dal questore mendace.
Sconcertante inoltre, per puntellare la versione della polizia, secondo cui il Pinelli al momento della caduta era in perfette condizioni e non già incosciente, 1′affermazione del tenente Lo Grano che avrebbe udito Pinelli, dopo il volo dal quarto piano, esclamare: “Ah, che dolore! Sto male, sto male!”, quando altri testimoni (Palumbo, Peralda e Mancia; affermano che Pinelli rantolava senza proferire parola. Contraddizioni che salteranno fuori ad una ad una al processo, ma sulle quali Amati non si sogna nemmeno di soffermarsi, magari leggermente interdetto. Scagiona gli indiziati sulla base delle loro stesse dichiarazioni, senza indagare sui legami tra l’episodio Pinelli e gli attentati del 12 dicembre. Ultima domanda: come mai il giudice Amati non ha ritenuto di dover riprendere la tesi di Caizzi che, pur chiedendo l’archiviazione, aveva concluso per “una morte accidentale”? Il caso dunque rimane aperto.
Ma non per il consigliere istruttore che, tutto pomposo, si mette la coscienza a posto con la sua perorazione finale. “Vuole aggiungere [sempre lui] che la Giustizia è uguale per tutti e la Legge va applicata nei confronti di chicchessia, inesorabilmente: che, ove un solo dubbio avesse nutrito sulle cause della morte del Pinelli, non avrebbe certamente omesso di far ricorso ai mezzi consentitigli dalla Legge processuale penale incriminando chiunque si fosse reso colpevole di un delitto terribile, forse peggiore della strage di piazza Fontana, perché il Pinelli era un fermato inerme, che, di fronte alla violenza, non avrebbe potuto opporre la minima resistenza e nessuna difesa, e quindi il delitto sarebbe stato ancora più abominevole e turpe.”
Già, peccato che almeno un dubbio sulla fine del Pinelli non gli abbia mai sfiorato la mente, e che, non indagando a dovere, egli non abbia potuto far ricorso a quei tali mezzi consentitigli dalla Legge processuale penale.
Comincia appena l’estate, il giudice Amati sta per partire per le vacanze, mentre Caizzi tarda qualche giorno. Ma per questo sua ritardo c’è una ragione ben precisa, una delle solite ragioni suggerite dalla prudenza che dimostrano gli alti papaveri a un certo riguardo. E se ancora qualcuno avesse dei dubbi su come il mistero circa la fine di Pinelli, con tutto quell’alternarsi di inverosimiglianze, zone oscure e silenzi improvvisi continui ad appassionare l’opinione pubblica, basterebbe fargli notare una volta di più da quante cautele sono circondate al loro apparire le notizie che a questo proposito ufficialmente opacizzano, ritardano e insabbiano.
Ma cosa mai si può ancora insabbiare in questa vicenda? Ci risponde Caizzi che tarda un po’ ad andare al mare per andarci a cuor leggero di lì a poco. Il 15 luglio nessuno va più in tribunale perché finiscono le udienze, ed ecco che il guardingo PM (e par di vederlo, coi suoi gesti aggraziati da gran gattone sul grigio-blu) il giorno 17 vi deposita quasi clandestinamente un’altra richiesta d’archiviazione. Precisamente quella che riguarda la querela per diffamazione dei familiari Pinelli contro il questore Marcello Guida. Il che vuol dire che solo a distanza di due mesi diventerà pubblica la richiesta d’assoluzione per chi, subito dopo la morte dell’anarchico, lo ha dichiarato complice degli assassini di piazza Fontana, anzi così implicato da arrivare al suicidio.
Richiesta ingiusta e che, nonostante l’attuale clima di sfiducia verso la magistratura, ben pochi si aspettano, anche fra gli addetti ai lavori. Dato che da anni in Italia si stanno smarrendo i margini di autonomia tra magistratura e potere esecutivo e burocratico, è chiaro che un organo di stato come il PM non può andare contro un altro organo di stato, cioè contro il questore (benché qualche tempo prima si fosse arrivati all’incriminazione di uno di loro, cioè di Grappone). Erano quindi pochissimi quelli che, congetturando sulla conclusione della querela, vedevano Guida incriminato, mentre i più avevano fatto un’altra previsione, ugualmente ingiusta ma più accomodante: che, sopprimendo qualche aggravante, si cercasse di far passare Guida fra le maglie dell’amnistia.
Invece ora se ne chiede la completa assoluzione, rendendo perplessa una volta di più la gente; e siamo così arrivati al mese di settembre e all’appello redatto da uomini di cultura (per lo più professori universitari) ed esponenti politici democratici per protestare contro tutte queste chiusure, per sollecitare la ripresa di un aperto dibattito su tutta la questione. I firmatari sono Marino Berengo, Elvio Fachinelli, Lucio Gambi, Giovanni Giolitti, Giulio A. Maccacaro, Cesare Musatti, Enzo Paci, Carlo Salinari, Vladimiro Scatturin, Mario Spinella: l’appello pubblicato sull’ “Espresso” suona così:
Pino Pinelli, ferroviere, è morto nella notte tra il 15 e 16 dicembre 1969, precipitando da una finestra della questura di Milano. Non sappiamo come. Sappiamo soltanto che era innocente.
Marcello Guida, questore, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, aggrediva Pinelli con accuse infamanti, ne dichiarava caduti gli alibi, lo definiva ormai preso dalla legge, ne annunciava la morte come una confessione. Non sappiamo perché. Sappiamo soltanto che mentiva.
Rosa Malacarne, madre, e Licia Rognini, moglie di Pino, il 27 dicembre 1969 hanno chiesto alla giustizia di far luce su quella morte e verità su quelle parole, credevano che almeno questo fosse dovuto alla memoria di Giuseppe Pinelli e all’avvenire delle sue bambine. Non sapevano che la giustizia glielo avrebbe negato. Perché Giovanni Caizzi, procuratore della repubblica, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’inchiesta del ferroviere? Ora chiede 1′assoluzione per le diffamanti parole del questore. Dobbiamo rispetto al magistrato, ma non possiamo non attribuirgli la stessa responsabilità di chi ha ucciso un’altra volta Giuseppe Pinelli inchiodandone il ricordo a colpe che non aveva commesso, e la responsabilità, abbastanza grave, di chi uccide in noi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini.
A questa coscienza facciamo appello perché levi alta la sua voce. La voce di quanti intendono che chiedere oggi la verità per Pinelli significa difendere quei valori, senza i quali, domani, la nostra società non potrà più dirsi civile e la nostra repubblica democratica.
D’altra parte non c’è bisogno d’essere particolarmente scettici per considerare un fatto come questo di ordinaria amministrazione. Oltretutto non si sottolinea mai abbastanza con quanta regolarità tanto nell’affare Pinelli quanto nell’altro “giallo” ad esso collegato, ogni volta che uno spiraglio si apre (una persona che parla, una testimonianza che vale, un’ipotesi che attrae), si mette subito in moto un meccanismo di chiusura (cambiano le deposizioni, i verbali non ci sono, la perizia é segreta, il caso é archiviato).
L’ultimo esempio? Non a caso la richiesta d’assoluzione per il questore precede di poco il processo intentato dal commissario Luigi Calabresi contro il direttore di “Lotta continua,” professor Pio Baldelli. È un processo in cui molti discorsi si dovranno riaprire: ebbene, più se ne chiudono prima e meglio è, e benissimo se a un certo punto calano saracinesche da ogni parte. Quando il processo sta per cominciare, infatti, è già archiviata la parte concernente il suicidio e adesso si chiude anche quella che riguarda “le imprudenze” verbali del questore (gravissime dato il momento in cui son state fatte e il peso che hanno avuto sull’opinione pubblica e sul dibattito politico).
Siamo alla vigilia dell’apertura (la prima udienza è fissata per il 9 ottobre), è un processo ben diverso da tanti altri, perché intende essere soprattutto un atto di accusa
tanto contro i ruoli che ha avuto la polizia nelle vicende seguite all’autunno, come contro la magistratura che ne ha continuamente coperte le prevaricazioni e anche contro i partiti politici, nessuno dei quali si è impegnato a fondo per ottenere giustizia.
Si sa per ora che si aprirà alla prima sezione penale, presieduta dal giudice Carlo Biotti, un magistrato d’antico stampo, un temporeggiatore coi baffi bianchi, proprio il tipo di giudice distinto dei film italiani, moderato in tutto fuorché nella sua passione che è il calcio (è consigliere del Milan); PM sarà Emilio Guicciardi, quella tal faccia da ritratto di antenato, che si occupa quasi sempre di reati d’opinione per rinviarli a giudizio.
Due i difensori di Baldelli: l’avvocato Marcello Gentili, che dal 18 dicembre ’69 segue con ardore il caso Pinelli, alto, magro, con gli occhi turchini, estremamente partecipe, dai modi cortesi, e la logica ferrea, e Bianca Guidetti Serra, che, insieme, formano un duo a corrente alternata di garbo insinuante e di aggressiva secchezza. Quanto a Calabresi, da un pezzo si sa che s’è scelto Lener, difensore dei ministeri e delle cause collegate al potere. Imprudentemente nell’articolo per l’Espresso che inquadrava il dibattimento (settembre ’70) l’avevo descritto d’eloquenza ottocentesca, spesso aggressivo, qualche volta rissoso, d’aspetto un po’ “lugubre.” (Senza rendermi conto che avrei potuto insistere senza offenderlo sulla sua parlata démodé e sul suo carattere ringhioso, ma, essendo lui napoletano, non avrei mai dovuto definirlo “un po’ lugubre d’aspetto.” Da quel giorno infatti mi votò un’antipatia quasi fisicamente avvertibile; e come si vedrà, non mi risparmierà poi le sue velenose frecciate.) Da allora non mi rivolse mai il saluto, anzi girava la testa al mio arrivo. Io avevo voluto soltanto dire che, così severo, accigliato, l’occhio costantemente malcontento e la bocca in giù, non era fatto per metter di buonumore il suo prossimo.
Son calate quelle tali paratie, si è detto, ma pare difficile che in un processo del genere non venga di nuovo a galla tutto 1′iter della tragica notte, ed è per ciò che la causa è importante. È certo che si discuterà su tutto quanto non è mai stato pubblicamente discusso, a partire dal fatto che la notte del 15 Pinelli non avrebbe dovuto essere in questura perché il suo fermo era illegittimo; e insieme su tutte le incongruenze e le lacune che affollano il decreto d’archiviazione oltre alle provocazioni, alle contraddizioni e alle bugie degli interroganti, alla retrocessione dell’ora, alla mancanza di verbali, al mistero di quel segno d’agopuntura nel gomito sinistro, quindi avanti con decine di altri interrogativi che scottano; perché, nel decreto d’archiviazione, mancano alcuni pezzi dell’istruttoria a proposito di perizie, sopralluoghi e confronti, perché l’autista di Calabresi ha aspettato tanto a dire che secondo lui Pinelli il giorno prima aveva già tentato di uccidersi?
Per forza dunque si dovrà parlare dei fatti che, con le archiviazioni, si vogliono considerar fuori gioco. A meno che, in vena di nuove chiusure, il tribunale non intenda usare una giurisprudenza diversa, limitando l’ambito delle indagini; cosa gravissima, e che finora nei processi per diffamazione a Milano non è mai avvenuta.
Vigilia del processo. Ora si sa una notizia in più sulla composizione del tribunale, e non è positiva. Della prima sezione penale che giudicherà Pio Baldelli doveva far parte, insieme al presidente Biotti e al giudice Flavia, anche il dottor Domenico Pulitanò, che però ha un torto dei più gravi per ambire a quel posto. È uno degli elementi di punta di “Magistratura democratica”; in più ebbe a suo tempo il coraggio di affermare che nel corso degli incidenti di via Larga (morte dell’agente Annarumma) fu la polizia a caricare e senza nessun motivo. (Il dottor Pulitanò era presente ai “fatti del Lirico.”) E’ dunque un magistrato dei più scomodi, si sa che è polemico, lo si immagina pignolo, potrebbe funzionare da controllo, essere una spina nel fianco del collegio giudicante, dare alla sentenza “un tono particolare.”
Come permettere che un tipo così dica la sua a un processo del genere? Ed eccolo sostituito con la dottoressa Pia Cardona, una giovane donna che esercita la professione di giudice da un anno e mezzo, che proprio quest’anno ha avuto il suo primo bambino, e quindi il suo stato di servizio si riduce a pochi mesi d’attività. La parte democratica del palazzo di giustizia non esita a parlare di discriminazione politica, dando già per scontato l’esito del processo. Sarà un gran polverone, si ama ripetere, saranno riaccese le polemiche, ne verrà certo una maggior sensibilizzazione dell’opinione pubblica (proprio da qualche settimana la gente si pigia al film Un cittadino al di sopra di ogni sospetto e “Lotta continua” ha già accostato la biografia di Calabresi a quella del commissario biecamente tratteggiata da Gianmaria Volonté). Sono tanti inoltre che in Il re buono di Ugoberto Alfassio Grimaldi hanno letto del suicidio giù da un ballatoio della questura dell’anarchico Romeo Frezzi nel 1897. Suicidio rivelatosi infondato: infatti la perizia di un medico coraggioso aveva accertato che l’avevano ucciso. E molti occhi distratti sono stati snebbiati da due altri libri interessanti: tanto da Le bombe di Milano, ricco di testimonianze di giornalisti di più di una testata borghese sull’autunno caldo, le bombe e i casi Valpreda e Pinelli, come da La strage di stato, una vasta e minuziosissima controinchiesta a cura di un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare. Ci saran magari anche momenti di febbrile tensione, ma son poche le speranze. Quel che è stato detto sul caso è stato detto, inutile sperare che qualcuno dei protagonisti della notte di dicembre, il coordinatore, il commissario efficiente, gli agenti goffi, picchiatori e smemorati, come si dice a Milano “si mettano una mano alla coscienza.” Sarà sempre più difficile riuscire a sapere come mai, estraneo com’era ai fatti, Pinelli si trovasse in questura la sera del 12 dicembre, perché era stato illegittimamente privato della sua libertà, illegittimamente trattenuto, qual era la sua funzione presso la polizia in quei tre giorni in cui gli inquirenti giravano a vuoto; come mai, robusto di fisico e sano di mente, è morto solo tra decine d’agenti, quando non aveva più scelta tra il rimanere e l’andarsene.
Saltan subito agli occhi le clamorose disparità, il patente squilibrio tra le parti in causa: Baldelli processato per aver lasciato scrivere che Calabresi è un assassino, e Calabresi invece che si presenta in aula praticamente già assolto da questa imputazione (nel famoso decreto all’archivio non si sostiene forse la tesi del suicidio da raptus?) e anche perché dopo aver additato nel Pinelli un complice degli assassini di piazza Fontana, il questore di Milano sta per essere assolto senza processo dall’accusa di diffamazione. Proprio in questi giorni viene trasferito da Milano e messo a disposizione dei ministero degli Interni: non è pensabile infatti che continui a stare in via Fatebenefratelli, mentre tutt’intorno a palazzo di giustizia, durante il processo si son schierate le forze dell’ordine che ha sempre comandato lui e dentro non si farà che deplorare il suo operato nella notte del 12. Non a caso infine, la vigilia dell’udienza di apertura, è stata resa pubblica l’incriminazione di Generoso Petiella, il segretario generale di “Magistratura democratica.” Comunque, sempre alla vigilia, torna a farsi sentire la voce dell’ala sinistra intellettuale. Quattro medici e psicologi (Renato Boeri, Elvio Fachinelli, Giovanni Jervis, Giulio A. Maccacaro) firmano e mandano ai giornali il documento dal titolo Pinelli: una morte inaccettabile (esame critico del procedimento d’archiviazione) che verrà poi pubblicato parzialmente sull’ “Espresso” e intero su “Astrolabio,” un lucidissimo scritto in cui si rilevano con ironico spicco tutte le bolsaggini e le false conclusioni dei famosi fascicoli di Caizzi ed Amati, e dove si attacca inoltre l’incompletezza della perizia medico-legale, fatta a Pinelli subito dopo la morte, dai professori Luvoni, Falzi e Mangili.
Di questa incompletezza il primo responsabile è Caizzi che ai periti per prima cosa chiede precisamente se “le lesioni riscontrate nel corso dell’autopsia siano compatibili con le modalità di precipitazione prospettate in atti e se siano state riscontrate lesioni di altro tipo, precisandone l’eziologia.”
Vuol sapere dunque se le lesioni sono compatibili col tipo di caduta descritta da funzionari ed agenti di polizia, al che “i periti fanno il loro mestiere, a volte triste mestiere, e a domanda rispondono come vuole la legge. `A domanda sapiente, risposta accorta’ e sillogismo conseguente. Primo: in taluni casi le lesioni da precipitazione sono dovute a suicidio, secondo, Pinelli presenta queste lesioni; terzo, ecco che Pinelli si è suicidato. (Mentre trattati medico-legali contemporanei, debitamente citati, distinguono tutti i tipi di precipitazione, propongono sopralluoghi, ispezioni in loco e la conoscenza precisa di tutte le altre circostanze precedenti la caduta “per decidere se si tratta di suicidio, disgrazia o omicidio.”)
I cinque medici contestano quindi altre parti della perizia, deplorando che “di quella tal area grossolanamente o volare sulla superficie posteriore del torace, alla base del collo,” non si dia alcuna spiegazione particolare, benché, come lesione, sia diversa da tutte le altre riproponendo quindi il problema della modalità contusiva che l’ha indotta.”
Mentre i medici stilano il loro documento, sempre alla vigilia del processo, un bel numero di giornalisti milanesi e romani mandano per conoscenza il loro alla prima sezione del tribunale. Essi “rivolgono un appello alla magistratura invocando che sia fatta piena luce sulla morte di Pinelli, sottolineando che finora nessuna risposta è stata data a tutti i dubbi del caso, ormai fatti propri dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica.” Una volta di più si vuol sapere come e perché è morto Giuseppe Pinelli, si è convinti che questa sia l’unica strada non solo per render giustizia a un galantuomo e alla sua famiglia, ma anche per fare un reale passo avanti nell’indagine sulle responsabilità degli attentati di dicembre.
E non son da meno quarantatrè gruppi redazionali di riviste politiche e culturali che anche loro prendono posizione nell’imminenza del dibattimento: Sicure che Pinelli non si è suicidato, tutte queste riviste (comuniste, socialiste, cattoliche) sono portate a considerare questo processo un fatto politico di ampie proporzioni che “al di là della diversità di linea politica e di atteggiamento delle riviste sottoscriventi rispetto al giornale `Lotta continua,’ reclamano più di una semplice solidarietà con un giornalista colpito nell’esercizio delle sue funzioni direttoriali in virtù della legge vigente.” Esigono anche loro che “sia fatta piena luce sulla morte dell’anarchico, risalendo alle più ampie responsabilità connesse con gli attentati di Milano e di Roma: dichiarano che finché non verranno date esaurienti spiegazioni sulle numerose infrazioni alle procedure stabilite dalla legge, continueranno ad additare alla pubblica opinione gli uffici inquirenti come responsabili dei gravi dubbi e incertezze che gravano sui fatti, riservandosi altresì ogni possibile iniziativa per chiarire gli aspetti oscuri e conturbanti degli avvenimenti di Milano e di Roma nel dicembre 1969.”
“Che sia fatta piena luce,” è la frase che si legge e si sente ripetere .più spesso. E la ripete anche il PM Guicciardi il 9 mattina, ad apertura di processo, quando è ancora tutto morbido e accattivante. Per assicurare che vuol far luce anche lui, cita la rigida educazione ricevuta dal padre e dal nonno; uomini per cui la verità era sacra. Si vuol luce piena, verità, giustizia per quell’assente che egli, addirittura commosso, commemora (giusto che Guida stia facendo i bagagli), descrivendolo: “un uomo mitissimo, un idealista, alieno dalla violenza, di cuore onesto e mani pulite.” (Anche nell’istruttoria Valpreda il giudice Occorsio lo ha già definito al di sopra e al di fuori di qualsiasi sospetto.)
Giustizia sarà dunque la parola che qui dentro echeggerà più spesso, ed eccola in persona, di spropositate proporzioni e assai poco convinta quanto a espressione, che appare nell’affresco sovrastante la corte, mentre col suo mantello ripara un gruppetto di diseredati. Né ispira di più quell’altra enorme statua che sta ritta in cortile. Ha la faccia dell’Italia sui francobolli, l’hanno scolpita in tempo fascista, e francamente, con quella spada e quel rotolo della legge branditi sopra il suo peplo, non promette niente di buono.
Il 9 ottobre comincia a svolgersi quel rituale a cui dovrò assistere per mesi: seduti i giornalisti e gli avvocati, che leggono, scrivono, chiacchierano; tutti in piedi, perché sta entrando la corte; campanello; cenno di saluto da parte del presidente; tutti seduti di nuovo i privilegiati (sempre in piedi invece e assiepato là in fondo dietro lo steccato un pubblico intenso ed estremamente partecipe, mentre nello spazio dei privilegiati stanno anche degli uomini in nocciola o verdino, ci sono poliziotti in borghese tutti tesi in una spasmodica attenzione a sentire cosa si dice in giro e cosa esce dalla bocca dei loro colleghi). E svolazzano le toghe, si increspano gli jabots, scricchiola la penna del cancelliere, ronza in un angolo il registratore.
Ma cosa mai sta succedendo nella zona di porta Vittoria? si chiedono i cittadini distratti, visto che intorno al palazzo di giustizia e in tutte le strade adiacenti par che ci siano le grandi manovre: file di gipponi, agenti in uniforme d’attacco e difesa (borsa coi candelotti, manganello, scudo ed elmo con visiera), decine e decine di autopompe “sufficienti,” come scrive Guido Nozzoli, “a irrigare tutta la Bassa.” Sono tutti in assetto di guerra per l’inizio del processo. E nemmeno dentro si scherza: cordoni dovunque al punto che il grigio del palazzo è diventato grigioverde. Prima di entrare in aula si vede un carabiniere che stacca da una colonna un manifesto con la testa di un criminale, baffetti alla Hitler e svastica in fronte. “WANTED” c’è scritto sopra, e sotto si spiega quale sarà la somma in dollari che si guadagnerà chi cattura vivo o morto Calabresi. Per strada e nei corridoi si accalca una quantità di anarchici e di studenti che non hanno trovato posto nell’aula.
In prima fila nel pubblico vedo una vecchia conoscenza, dall’occhio cerulo, la faccia triste e un po’ spiegazzata: è Rachele Torri, zia di Valpreda che vuol vedere bene in faccia chi, a un’ora e mezzo dalla strage, ha fatto per primo il nome di suo nipote; seduta su una panchetta impassibile e composta come al solito la signora Pinelli, e accanto il suocero, col bottoncino d’invalido all’occhiello. In maglione e colletto celeste aperto che spunta fuori, quel gran Sigfrido umbro che è l’imputato Baldelli, di madre finlandese e buon passato di lanciatore del disco, autore della dichiarazione che leggerà all’inizio dell’udienza.
Dichiara di non aver partecipato in alcun modo alla redazione degli articoli su Pinelli e la sua morte, ma di esser d’accordo sulla posizione assunta dal giornale. Ecco tutti i motivi per cui non crede nemmeno lui al suicidio (e li elenca tutti), ecco la particolare situazione politica italiana che ha determinato e poi avallato tale versione. “Mi trovo dunque qui, al rendiconto del tribunale, perché sono persuaso che l’intellettuale, insegnante o scienziato o giudice o prete o altro che sia, possa essere utile oggi alla causa del proletariato, e quindi alla causa della giustizia, solo riconoscendo l’identità della sua situazione con quella delle classi oppresse e impegnando la sua coscienza civile ad analizzare questa situazione di violenza quotidiana e a partecipare alla sua trasformazione rivoluzionaria.” Gli avvocati si conoscono già: la toga sta benissimo a Marcello Gentili e Bianca Guidetti Serra, fautori del processo-verità, massimo approfondimento e maggior numero possibile di testi; scende invece a mezza schiena all’avvocato Lener dal cranio nudo color burro, che, in seguito a un incidente, cammina appoggiandosi a due bastonistampelle; gli sta sempre a fianco il suo giovane di studio Giuseppe Melzi che gli porta la borsa e gli porge i documenti; e Lener pare il più tranquillo di tutti, quasi già sappia come andrà a finire la faccenda e dia tutto per scontato.
Ventidue sono i testimoni citati dalla parte civile, in prevalenza funzionari della questura: altrettanti quelli della difesa (addetti alla Croce Bianca, giornalisti; anarchici, amici e parenti di Pinelli, il Valitutti, il medico di guardia, l’on. Malagugini, i due detenuti Faccioli e Braschi, competenti in violenze subite in questura, Nino Sottosanti che fece colazione in casa Pinelli la mattina del 12 dicembre e poi se n’andò a incassar un assegno della “Croce Nera,” il questore Guida): La difesa chiede anche di acquisire gli interrogatori resi dal tassista Rolandi e dal professor Paulucci durante l’inchiesta sulla strage di Milano. Tutti e quarantaquattro vengono ammessi dalla Corte, benché Lener si riservi di controllare la “pertinenza” di ognuno.
Pare proprio che la partenza sia buona, e all’insegna del più conciliante fair-play. Il dato eccezionale di questo processo è subito colto da Gentili, che, parlando di “cittadini consapevoli” da cui sono arrivate indicazioni utili sulla morte dell’anarchico, conclude: “Di solito sono i cittadini che si rivolgono alla questura per risolvere un delitto: qui, per risolvere un delitto, proprio loro hanno raccolto dei dati contro la questura.” La prima ironica risata, chi l’avrebbe mai detto, la strappa, naturalmente senza volerlo, proprio Lener l’arcigno, perché, opponendosi all’acquisizione degli atti che hanno portato all’archiviazione, esce in una battuta delle più infelici: “Non si può far entrare dalla finestra quel che è già uscito dalla porta.” E parlare di chi entra dalla finestra in un processo montato su uno che ne è uscito con violenza, e probabilmente non di sua iniziativa, suscita sì il riso, ma anche una salva di fischi.
È quando comincia a parlare Baldelli che dai corridoi arrivan rumori di corse e inseguimenti, prima si sente cantare, poi urlare. Sono gli anarchici e gli studenti che non sono riusciti ad entrare in aula, e fuori dalla porta cantano l’Internazionale e La ballata del Pinelli, o scandiscono slogan contro Calabresi, finché il vicequestore Luigi Vittoria, il più cremisi quanto a colorito, fra tutti i funzionari della Politica, che fuori e dentro dirige il servizio d’ordine, decide di allontanare i disturbatori, e li allontana coi suoi soliti modi bruschi, non proprio una carica, ma una caccia serrata ai riottosi. La prossima udienza è fissata per mercoledì 24, grande l’attesa per la deposizione di Calabresi.
Ci siamo; ed è certo la costante scorta armata a rallentare nei giorni di udienza la sua naturale andatura western, è l’aria del tribunale ad appannargli di colpo l’alone di altera sicurezza a lui solita sul lavoro: né l’antico prestigio più affiora quando pare passare in rivista tutto quell’esercito movimentato apposta per lui dentro e fuori al palazzo di giustizia. E sì che, presentandosi al processo, il commissario Luigi Calabresi gioca sul sicuro. È a lui che in qualità di querelante spetta la prima giocata; non solo, ma due robusti bastioni son già da tempo alzati a proteggerlo: il decreto d’archiviazione e la richiesta di assoluzione senza processo del questore Guida, immediato e temerario accusatore di Pinelli. E sempre sua è stata anche la scelta del campo, cioè il rivolgersi alla magistratura in questo preciso momento, quando è noto che si trova a una svolta conservatrice, quando i giudici che manifestano la loro opinione democratica sono delegati a trattare cause insignificanti, tipo liti fra prostitute, furti e accattonaggio, quando il giudice Marrone è incriminato per aver detto che la giustizia in Italia + una giustizia di classe, il giudice Marco Ramat per avergli offerta la sera solidarietà, l’avvocato Dino Leon per reato d’opinione.
Perciò Calabresi poteva anche non immaginare di vedersi di colpo trasformata da querelante in imputato (lo hanno infatti aggredito di contestazioni come si fa con gli imputati, e come un imputato lui stesso si è difeso, scaricando sugli altri le sue responsabilità), in un allucinante processo in cui, mentre gli officianti sommessamente o subdolamente interrogano, dal di fuori arrivano le cadenze di canzoni malinconiche o rivoluzionarie, oppure grida confuse, echi di tonfi, corse e pestaggi, un processo in cui il vero protagonista è l’anarchico morto.
E chi segue questa vicenda da vicino (come adesso) e da lontano (fin da quella fosca notte di dicembre) non può non esser turbato da come è cambiato il tono nei suoi riguardi: cancellate le accuse infami e i cocenti rimorsi che l’avrebbero spinto al suicidio, eccolo invece completamente riabilitato già fin dalle prime battute. Tutto diverso naturalmente anche il commissario, da com’era quella tal notte in questura, quando, muovendosi con autorità da primo attore, e sempre facendo di sì con la testa a quanto diceva il questore (“fase di contestazione, pesantemente indiziato, agitatissimo, alibi caduti”), gli faceva come da grave controcanto (a Roma si stava puntando sul Valpreda, il Rolandi l’aveva riconosciuto nel pomeriggio; quindi, per meglio incastrarlo, in serata andava benissimo anche un suicida).
No, davanti ai giudici, Calabresi non è più il prestigioso personaggio di allora. Ha sì il suo pullover a collo alto, sotto il completo rigato gangster, sempre debole il mento, ben curata la basetta, ma ogni tanto nei momenti di tensione un irrefrenabile tic gli fa premere la già risoluta mascella. Ha perso l’aria di superiorità a lui solita, (anche perché al suo apparire il pubblico scatta in grida ritmate: “Ass-a-ssi-no! Ass-a-ssi-no!”), e alla pari del più modesto brigadiere appare un semplice esecutore di ordini, è soltanto un oggetto in mano ai superiori. Gli ordinano di andare in via Scaldasole a prendere gli anarchici e lui ci va e li prende; gli ordinano di andare il giorno dopo a Basilea a interrogare il tale e lui esegue; lunedì 15 lo incaricano di interrogare Pinelli, ma solo sui suoi rapporti con Valpreda, guai a sconfinare, e lui non sconfina. Sulla posizione di Pinelli non sa niente, e tantomeno sui suoi alibi. (“Non ero a conoscenza, ero all’oscuro, non toccava a me interessarmi”), non sa perché deve interrogarlo solo da qui fin lì, né gli viene in mente di chiederlo, si guarda bene dal contestargli qualcosa, finché, a verbale ultimato, prende il verbale per portarlo dal dottor Allegra, e il suo compito è finito.
Se allora sapeva che Pinelli era un poco di buono, adesso sa anche lui che era una gran brava persona con la quale si descrive nei migliori rapporti: gli regalava libri, gli offriva caffè, con lui “aveva scambi di idee e di vedute,” e l’interrogatorio non era un interrogatorio ma un dialogo, magari costellato di battute. Una bugia ammette sì di avergliela detta durante il dialogo, e non certo verso mezzanotte ma quattro ore prima, però era più che altro “una frase a effetto,” era “Valpreda ha parlato!” e nonostante il pallore e la drammatica risposta, in serata Pinelli era sempre stato sereno e disteso. (“Sì, ma per terra!” urla il pubblico che appena può lo rimbecca.)
Prima che apparisse Calabresi, aveva parlato Lener, per sollevare la prevista eccezione sulla testimonianza dell’ex questore Guida che, secondo lui, non può esser sentito in quanto tuttora imputato di diffamazione e di violazione del segreto d’ufficio. Niente on. Malagugini perché il suo potrebbe essere soltanto “un soliloquio.” (Ma perché? Non era stato il primo a ricevere le confidenze del questore? “…Aggiunsi che mi permettevo di sottolineargli la grave responsabilità che si assumeva dichiarando che il Pinelli si sarebbe suicidato perché raggiunto da gravi indizi” aveva detto il deputato quella notte al questore, “e che una dichiarazione di quel genere avrebbe offerto al linciaggio morale e non solo morale chiunque fosse stato ritenuto appartenente a circoli anarchici… A tale mia osservazione il dottor Guida rispose che un funzionario della sua anzianità e del suo grado sapeva assumersi le responsabilità richieste dalle circostanze”; così dalla deposizione a Caizzi la mattina del 6 aprile 1970.) Niente Rolandi e Paulucci perché già testimoni del processo Valpreda, niente anarchici Braschi e Faccioli in quanto imputati nel processo per gli attentati del 25 aprile.
La figura di funzionario che non guarda gli orologi e non è nemmeno tanto spedito nel dire bugie, a Calabresi gliela fan fare gli avvocati Gentili e Guidetti Serra, ma lui non si scompone: chissà, forse la frase: “Questa è la fine dell’anarchia!”, Pinelli può averla ripetuta anche negli ultimi momenti, tanto lui non c’era. La bella figura gliela vuol far fare Lener, naturalmente, quando a proposito delle cortesie usate al ferroviere il Natale 1968, rivanga l’episodio del libro di Emanuelli, e ahimè per colpa sua, in aula si ride ancora. “Allora Pinelli lo aveva contraccambiato con un altro libro: era Spoon river,” dice testualmente il virtuoso partenopeo della parola, quindi “un’antologia di canti negri,” aggiunge, per offrire una nota di cultura in più. Dato poi che il gioco dello scaricabarile è la specialità di Calabresi (“…esulava dalle mie competenze, chiedetelo ad Allegra!”) il pubblico irriverente sbotta: “Calabresi buttati, ché Allegra ha parlato! ”
Da notare anche in questo primo giorno la marcia indietro fatta dal Calabresi, oltre che sul noto orario, anche sulle dichiarazioni che fece alla stampa la notte degli at tentati. Allora aveva detto che per lui i terroristi andavano cercati negli ambienti anarchici e di estrema sinistra, oggi invece afferma che parlò di “indagini in tutte le direzioni.” Ha una voce bassa ed educata, per dire che arresta uno, dice che “lo fa accomodare in questura” e quando non sa, dice che “sconosce.” Ma si guarda bene dal girar l’occhio all’intorno, perché se lo fa, e s’imbatte nel pubblico, da dietro lo steccato l’ira scoppia e parte 1′ingiuria.
Quando questo succede, Lener incita il presidente a procedere a degli arresti per oltraggio permanente a pubblico ufficiale, “ma come faccio ad arrestare sessanta o set tanta persone? ” fa lo sconcertato milanista e invita alla calma, minacciando di sgomberare l’aula, mentre nei corridoi questa volta si scatena il pandemonio. Per oggi Calabresi ha finito di deporre, ma non lo lasciano uscire, e resta fermo con la mascella che gli vibra davanti alla Corte in mezzo a due carabinieri; e intanto il vicequestore Vittoria, con la fascia tricolore a tracolla, ordina la carica contro qualche centinaio di giovani che urlano slogan o cantano inni: nella carica vengono coinvolti avvocati in transito e innocenti segretarie, cadono in frantumi alcune vetrate, si arresta un ragazzo e se ne denunciano una dozzina a piede libero, fra cui il Valitutti.
Molti del pubblico vorrebbero uscire a vedere quel che succede fuori, ma per paura che anche qui al chiuso irrompa il caos, gli agenti hanno chiuso a chiave la porta
d’uscita; così gridano anche questi qui, spingendo e protestando, e per vendicarsi scandiscono il loro, di slogan interno, rivolto al commissario che sta in piedi di tre quarti a fissarsi quella catenella a forma di manetta che gli brilla sui mocassini. “Ass-assi-no, ass-assi-no! ” gli gridano, chi gli lancia contro dei giornali, chi qualche monetina, il presidente scampanella furioso, la seduta è sciolta, un usciere apre frattanto la porta al pubblico, ma Calabresi lo fanno aspettare. E resta lì solo in aula con la sua scorta, finché fuori cala il silenzio.
Mentre alla terza udienza la calma ritorna (nei corridoi ci sono soltanto gli agenti, niente più traccia di dimostranti), in chi si trova nell’aula, dove si attacca a interrogare i testi oculari di quella notte, e precisamente quelli che dovrebbero aver qualche cosa da dire sul tuffo di Pinelli, comincia a serpeggiare qualcosa che porta a un disagio diffuso, a un senso di esasperata stupefazione, e perfino alla collera. Di ora in ora, attraverso le parole dei protagonisti, il pubblico si rende conto infatti che quel che vogliono fargli credere è assurdo, che tutte le ricerche sono atrofizzate, che ogni tattica e strategia di difesa mostra a un certo punto una falla, un buco, uno sbandamento, e sulla pedana dei testimoni si sta snodando un crescendo di bugie, che forma come un tessuto, però falloso, dappertutto cedimenti, nodi ed intoppi.
Arriva l’ex tenente e da poco capitano dei carabinieri Savino Lo Grano (sopracciglia boscose, tendenza al raddoppiarsi del mento, batter di tacchi, sempre su i guanti),
che in quella notte agli ingenui giornalisti circondati da questurini, apparve l’unico lievemente turbato, e sul conto del quale qualche giorno dopo s’era diffusa la voce che, parlando con un suo superiore, aveva dato una versione diversa da quella generale: che il Pinelli cioè, colto da malore per lo sfibrante interrogatorio, si sarebbe avvicinato alla finestra, precipitando. Chi pensava che forse da lui sarebbe potuto trapelare qualcosa di diverso da quell’imparaticcio corale a base di parole che son sempre le stesse (“sereno e disteso,” “sbiancò in volto,” “recepii la notizia”), non può che restare amaramente deluso, perché il signor capitano appare durissimo, addirittura disumanizzato, e il tragico momento, completo di seguito e d’antefatto, lo descrive tale e quale a una manovra militare.
Anche Lo Grano si ricorda un Pinelli “sereno e disteso,” insieme al fatto che non gli stavano contestando un bel niente. Perché mai è questa la tesi dei due primi testi,
e non si fa fatica a pensare che sarà la stessa di quanti si trovavano quella notte nella drammatica stanza? Perché a furia di contestazioni, l’uomo illegalmente fermato avrebbe potuto esser spinto alla disperazione e quindi al salto, e allora i funzionari potevano essere accusati di istigazione al suicidio. O anche di omicidio colposo, se l’eccitato turbamento di Pinelli fosse stato così evidente da esigere una stretta sorveglianza.
Ma proprio per evitare queste accuse (e sottolineare la tesi del raptus), adesso sono tutti d’accordo sul suo buonumore e anche sulla retrocessione dell’ora: tutti i tempi oggi sono arretrati di circa trenta minuti; mentre, come ben si sa, il momento della frase: “Valpreda ha parlato! ” fa un salto indietro di quattro ore, e cambia anche la stanza; che non è più quella di Calabresi. E ciò perché dalle prime versioni (frase echeggiata intorno a mezzanotte; sconsolato grido e salto di Pinelli), non solo Calabresi risulterebbe nella stanza con lui, ma risulterebbero anche le contestazioni e un Pinelli turbato fino alle estreme conseguenze.
Circa gli altri orari, la fine dell’interrogatorio viene ora spostata da mezzanotte (istruttoria di Caizzi) alle 23,30; dalle 23,30 alle 23 l’intervento di Allegra; dalle 22 alle 21,30 l’ingresso di Lo Grano. Per dimostrare e convincere anche gli ottusi che, uscito Calabresi alle 23,40 e rimasto dai cinque agli otto minuti nella stanza del capo della Politica, si arriva alle 23,50 (o 55), ora del tonfo, ed è quindi logico che l’ambulanza la si chiami alle 23,58. Si vuol dimostrare appunto che la caduta è avvenuta prima della chiamata; ché se il corpo cade a mezzanotte (come dai primi verbali) vien fuori che il Pinelli stava male prima, e per questo l’avviso all’ambulanza è stato dato in anticipo sulla caduta.
Diversa quindi dalla sua iniziale come da quella degli altri presenti, la sua versione attuale del salto. Lui che va e che viene dalla stanza dell’interrogatorio, ma che ci sta di seguito dalle 23 in poi, mentre arriva Allegra a dir la sua, Calabresi interroga, Caracuta verbalizza, Mucilli, Panessa e Mainardi sorvegliano. Sei in tutto in una stanzetta di tre metri per quattro (come aveva detto Calabresi). Gran fumo, finestra socchiusa, libere le due ante, interrogatorio reso un po’ difficile dalla labilità di memoria del morto, ma si arriva al verbale e Pinelli firma. “Firma anche il primo foglio,” fa diligente il commissario, “magari, dopo, noi potremmo cambiarlo,” e il Pinelli sempre fiducioso: “Non siete gente da fare queste cose.” (Risatacce nel pubblico.)
Via Calabresi dalla stanza, Pinelli fuma, due brigadieri stanno ai lati della finestra, uno di qui e l’altro di là, Pinelli getta il mozzicone attraverso le ante accostate. E non è proprio in questo momento (“fino ad allora l’avevo sempre guardato”) che Lo Grano si distrae? Le sue orecchie però sentono un gran rumore, come di legno sbattuto; alza lo sguardo torna alla finestra che ora è spalancata. Inquadrate al centro nel vuoto le suole di Pinelli, imprigionaci e impotenti dietro le ante i due angeli custodi, allora il tenente dei carabinieri grida subito: “Si è buttato, si è buttato! ” e lo comunica a Calabresi e ad Allegra che accorrono concitati; si dirige all’ascensore, ma poiché l’ascensore non arriva, “subito lasciai l’ascensore e andai giù con le scale, dal quarto piano.”
Mentre nella sua prima versione, nell’interrogatorio reso a Caizzi all’indomani della caduta, Lo Grano vede Pinelli che salta e un brigadiere che tenta di acchiapparlo; e tutti gli altri affermano che solo un battente risulta aperto e quell’altro è chiuso, anzi c’è la maniglia che lo assicura. Allora disse precisamente: “All’improvviso ho norato il Pinelli scattare versa la finestra, e dopo averla aperta, saltare oltre la ringhiera. Ho visto nello stesso istante il sottufficiale che era vicino al termosifone slanciarsi addosso al Pinelli e sporgersi pericolosamente oltre alla ringhiera dopo che era riuscito quasi ad afferrare le gambe del Pinelli.”
Adesso va avanti a raccontare la sua visita all’ospedale, dove Pinelli stava morendo, e, benché laureando in fisica, non riesce a dire quello che gli stavano facendo, annaspa un po’ per decidersi a dire “tracheometria.” Un’altra sua strana ammissione è infine quella che fa dopo la corsa in cortile dove raccoglie le ultime parole di Pinelli (“Ahi che dolore! ” o qualcosa di simile), dove cerca di tirarlo su ma lo lascia ricadere per tornarsene al quarto piano. Quando l’avvocato Gentili infatti gli chiede se può descrivere la posizione del corpo, dice che proprio non può farlo, e alla domanda: “era bocconi o supino?” risponde che non è in grado di dire neanche questo.
Sconvolgente anche una delle reazioni di Calabresi sempre nella stessa notte. A sentir lui, che torna sulla pedana, non vede cadere Pinelli, e son cinque minuti che sta parlando con Allegra quando dalla stanza sente venire “un trambusto, un tonfo, un grido,” mentre i sottufficiali corrono come pazzi nel corridoio: “Si è buttato!” urlando a gran voce. E cosa fa allora chi continua a dichiararsi in ottimi rapporti col morto, chi, a sentir lui, da sempre lo stima e non sente nei suoi riguardi né rancore né stizza?
Non si precipita in cortile, come sarebbe logico ed umano, per vederlo e aiutarlo, ma resta su negli uffici della Politica a telefonare alla Volante (chiamano anche da giù, naturalmente), anzi, se corre da qualcuno, è da Valitutti che corre, l’uomo che data la posizione della sua stanza, può aver visto gli spostamenti delle persone e sentito bene certi rumori e certe grida. Corre da lui, come dice a chiusura della sua seconda deposizione, perché, evidentemente temendo un’epidemia di suicidi, una catena di volontarie defenestrazioni (“temevamo che si abbandonasse anche lui a gesti insani,” spiegherà il brigadiere Caracuta), vuole scortarlo in un locale più interno; e anche (o forse soprattutto) perché vuole sapere di preciso cos’ha visto e sentito.
Il 27 e il 28 ottobre son due giorni di udienze incredibili, in cui senza un briciolo di vergogna viene ricostruito dai testimoni oculari quel che avvenne la notte del 15 dicembre in quel corridoietto striminzito, tutto tappezzato di uomini (sei per la verità oltre a Pinelli, e uno stava sulla porta), tutti robusti, uno solo con gli occhiali: e benché quasi tutti a contatto di gomito, nessuno vide, nessuno previde, nessuno evitò. È quella famosa stanzetta del quarto piano della questura che i testimoni hanno evocato, tentando di ricostruire il tragico gioco dei cinque cantoni con al centro Pinelli, in un fuoco di fila di incongruenze, contraddizioni, ammissioni confuse e perfino risate, col risultato di rendere prima sbalorditi e poi pieni di vergogna i cittadini presenti, interessati e responsabili.
Come una commedia degli equivoci, quasi una farsa insomma a base di uomini inclini alla corpulenza che restano imprigionati da ante larghe sessanta centimetri, di fragori udibili a due camere di distanza e sempre provocati dalle stesse antine (una sola anzi a sentire gli ultimi testimoni), di impensate catene della solidarietà (uno che precipita, un altro che lo afferra, un terzo che abbraccia il generoso, anzi lo “cintura” (perché per un caso malaugurato non debba cascar giù anche lui), e di brigadieri che non contestano ma conversano con la vittima perché vogliono coltivarsi anche un po’, per esempio aver coscienza “di cos’è l’anarchia. ” Una comica finale in cui gli incastratori restano incastrati.
Mentre dopo il fatto, tra questi uomini, quale robustissimo, quale curioso di ideologie, ce n’è uno che piange, le mani sulla faccia e la faccia sull’étagère, un altro che si accascia sul tavolo nello stanzone dei fermati, un altro ancora che si lascia cadere sul divanetto di fronte all’ascensore, così nessuno corre in cortile a vedere cosa si può fare per l’anarchico precipitato (eccetto quel tal coriaceo carabiniere, che però non sa dire in che posizione è caduto, limitandosi a constatare che “deve aver qualcosa di rotto”).
Il tutto poi condito da quel linguaggio comune tanto ai capi che ai subalterni, in cui non si interroga ma si procede all’espletamento dell’interrogatorio, a un tratto ci si rende edotti, ma non si vale a precisare, quindi si recepisce nel tempo e si percepisce nell’immediatezza, se no ci si astiene precipuamente, sempre ci si premura, appena possibile si incastra, e l’uomo è un elemento, la macchina un’autovettura, il suicidio è il lamentato gesto, il “ricattino” è all’ordine del giorno, la vittima è il sopraddetto, le carte son scartoffie e i piedi estremità.
Così piccola dunque è la stanza (e in più ci sono tre sedie, la scrivania, la libreria-ètagère, la stufa, il mobiletto portatelefono), che diventa insostenibile la tesi dell’avvocato Lener: escludere cioè nei funzionari qualsiasi tipo di responsabilità per mancata sorveglianza. E allo stesso modo, nonostante la tesi parallela che sottolinea l’atmosfera amichevole e al massimo permissiva dell’interrogatorio (in contrasto con le prime notizie: situazione tesa, fase di contestazione), attraverso le arru$ate deposizioni dei testi, ri sulta evidente il clima pesante in cui si svolgono gli interrogatori in questura. Esempio: il Pinelli non era fermato, ci si affanna a dire, e allora perché lo tenevano lì da tre giorni interrogandolo anche di notte? E se era un ospite non indiziato di reato, perché gli facevano delle contestazioni, dei “ricattini,” delle minacce? No, che non gliele facevamo, rispondono in coro; eppure, benché platealmente retrocessa, resta sempre la provocazione su Valpreda che ha detto tutto, e per ammissione stessa del capo dell’ufficio politico Allegra il suo infelice sillogismo sul numero dei ferrovieri anarchici a Milano, quindi la colpa di Pinelli e la promessa di portargliene le prove. (Che si aspettano ancora.)
È stato soprattutto Allegra, così scuro in faccia per quell’ombra di incorreggibile barba, ma così eternamente sorridente, a voler sempre alleggerire ogni circostanza: il fermo che non era considerato tale, il saltafosso sulla bomba alla stazione che oggi egli giudica del tutto irrilevante (“non gli. potevo dare una grande importanza, perché non era controllabile”), ma era allora un elemento base “per incastrare il Pinelli, per vedere che effetto gli faceva.” Mai sognato inoltre di ledere il suo onore (è i rapporti alla Procura di Roma che sottolineano la sua partecipazione agli attentati di aprile, agosto e dicembre?); né mai fatta all’anarchico la minima minaccia. (Ma gli avvocati Gentili e Guidetti Serra hanno in serbo due testimoni che affermano il contrario.)
Secondo Allegra non ha importanza nemmeno il primo rapporto, anzi l’unico sulla morte di Pinelli, diretto alla Procura di Milano all’alba del 16 dicembre, in cui l’ora della caduta è fissata a mezzanotte e un quarto, mentre Calabresi sta procedendo all’interrogatorio. Ebbene sì, la firma è la sua, ma a scriverlo è stato un sottufficiale di cui non ricorda nemmeno il nome, e lui, guarda un po’, non ha dato peso alla stesura di un documento di tale importanza, in quanto lo considerava soltanto una letterina di accompagnamento. Accompagnamento di che cosa? Dei verbali di Pinelli e delle testimonianze sull’alibi. (Non accompagnava un bel niente invece, perché quei documenti andarono da Caizzi con un bigliettino di Calabresi, sei righe in tutto. Comunque lo scritto che che manda a monte le tesi difensive di oggi, allora Allegra 1o firme senza leggerlo, così come egli afferma, e si tratto secondo lui “di un’inesatta informativa.”
È poi sempre Allegra a introdurre in aula la fantomatica presenza dell’ispettore Catenacci. Come capo della Politica, gli chiede la difesa, non ha pensato di promuovere
un’indagine circa i fatti di quella notte? L’indagine l’ha disposta il ministro degli Interni, è la risposta, e lui ignora come sia andata a finire, ne era incaricato comunque un certo dottor Catenacci. Quindi, nel corso delle udienze, si noterà che citando l’ispettore, per via di quel cognome da commedia faceta, i testi sorridono o sobbalzano, ma nessuno l’ha mai visto né sentito, nessuno è stato mai interrogato da lui.
Calmo il capo della Politica nel minimizzare tutto col sorriso, allarmato invece il brigadiere dattilografo Giuseppe Caracuta nel descrivere l’attimo fatale. Lui sta riordinando dei fogli, così si volta solo al rumore dell’anta e quel che vede è il brigadiere Panessa “che si sporge a metà fuori dalla finestra” cercando di prendere qualcosa, di afferrare qualcosa che non poteva essere che il Pinelli. Bene, però i1 1° dicembre al giudice Caizzi egli aveva descritto “il balzo repentino verso la finestra, che era socchiusa, e cioè con il battente di sinistra appena aperto: ha spalancato quest’ultimo, buttandosi nel cortile sottostante.” Invitato alla coerenza, adesso nervosamente precisa che “ha visto qualcosa come se schizzasse, come una saetta, e subito dopo il Panessa.” Ma è una contestazione che gli fa perdere la memoria su tutto il resto: sa solo che la finestra non doveva essere aperta da molto, perché l’aria gli finiva direttamente nella schiena, e contraddice così il Calabresi che la dichiara aperta da due ore a causa del fumo. (Nel rapporto a Caizzi il Caracuta aveva descritto interrogatorio e salto come avvenuti tutti e due nella stanza di Calabresi: ora invece la prima metà con la contestazione su Valpreda la fa avvenire in un altro ufficio: e a legger bene il decreto d’archiviazione, si vede che anche allora, a sei ore di distanza, l’interrogato aveva già cambiato deposizione. Sei ore sono passate, gli altri hanno deposto in un certo modo e si allinea anche lui: “…aggiungo che l’affermazione fatta dal dottor Calabresi al Pinelli per vedere la sua reazione e cioè che i1 Valpreda aveva parlato è avvenuta in un altro ufficio, posta un po’ avanti e spostato rispetto a quello del dottor Calabresi… “) È il Caracuta che oltretutto aveva iniziato per primo l’interrogatorio chiedendo al Pinelli “che cos’è quest’anarchia, in quanti gruppi si divide, di che gruppi si tratta, si parlava dell’anarchia in genere, una conversazione amichevole, un colloquio.”

Nemmeno il brigadiere dei carabinieri Attilio Sarti vede quella che viene chiamata la dinamica del salto; benché sia sulla soglia e la porta sia solo semiaperta, a un tratto riesce a scorgere i piedi del Pinelli inquadrati nella finestra, Panessa che si sporge e Mucilli che a sua volta trattiene Panessa (sebbene affermi che quello che conosce bene è soprattutto Mucilli ma qui lo scambia per Mainardi, e non si riesce a capire più niente, impossibile comunque che in quel suo spicchio di visuale rientri anche Panessa). Mucilli, invece (alto, grosso, faccia larga, con gli occhiali sotto una selva di capelli neri), sta mettendo a posto una cartella nella libreria, ed ecco che anche lui si volta al rumore (“della finestra, bran bran”), ma non ha la stessa visione del 15 notte (“Il Pinelli che si tuffa oltre la ringhiera, e,ho notato il brigadiere Panessa sporgersi a sua volta per acchiapparlo”) perché adesso, oltre alla ringhiera, vede solo “la metà delle estremità inferiori.” Quindi mostra al tribunale stupefatto 1a sua reazione di allora a quella vista: strette le labbra sottili, seppellite testa e occhiali fra le mani e un “no! no”‘ soffocato che vien fuori da tutti quei capelli, tale il terrore che precipitasse anche l’amico Panessa.
Quanto al brigadiere Carlo Mainardi, un uomo grosso, calvo, rauco, col profilo da pugile (l’unico comunque a parlare con accento settentrionale), entra per caso anche lui nella stanza c, dopo che Calabresi se n’è andato coi verbali, offre da fumare al Pinelli, gli fa una domanda sulla composizione dei treni ed ha la sua risposta. Ma mentre il 16 dicembre dice d’aver visto subito dopo il Pinelli che “con uno scatto fulmineo apre il battente sinistro e si butta di sotto, così che corso alla ringhiera lo vede cadere insieme alla brace della sua sigaretta,” oggi racconta che Pinelli, messa la mano nello spiraglio, di colpo gli sbatte in faccia l’anta, e allora, sebbene sia di notevolissima stazza, lui non può muoversi, anzi per portarsi alla finestra “deve fare il giro dell’anta per tutta la sua lunghezza” (ricordiamo che è larga sessanta centimetri), e, fatto il giro, altro non gli resta che “cinturare” il Panessa, versione in contrasto con quella di Lo Grano, secondo il quale due sono gli imprigionati impotenti, cioè Mucilli e Mainardi. Notare inoltre che nella deposizione a Caizzi, udito la prima volta alle nove del giorno 16, Mainardi parla di ufficio di Calabresi, di verbali firmati, di andata via di Calabresi e lancio del Pinelli, ma, risentito alle 18,20 dello stesso giorno, aggiunge il particolare dell’entrata di Allegra, con là estemporanea domanda se fosse lui l’unico ferroviere anarchico a Milano. E: “lui rispose affermativamente, ma non ricordo altri particolari, né il giorno preciso in cui sono state pronunciate queste parole.” (Memoria delle più infedeli, confusione fantastica, come fa a non ricordare il giorno preciso a ventiquattr’ore di distanza?)
Insomma non c’è proprio nessuno che sappia descrivere come fa il Pinelli a gettarsi a pochi centimetri dai suoi angeli custodi. (Prende la rincorsa? Ma come faceva in uno spazio così esiguo? Fa un salto sulle punte o si mette a cavalcioni della ringhiera?) Non lo sa nemmeno il brigadiere Vito Panessa che allora aveva parlato di “scatto felino,” e la sua deposizione è la più calamitosa di tutte. Panessa si può definire un caso limite e Lombroso l’avrebbe incluso in una categoria ben definita. È un’ora di deposizione, durante la quale i funzionari di PS presenti in aula non respirano più , una volta scatta anche il giudice Biotti che di solito usa rallentare la tensione dell’udienza con la sua bonaria mediazione. (“Mi scusi, ma non capisco perché le venga sempre da ridere parlando della finestra” e a un certo punto esplode: “Lei parla troppo, brigadiere.”)
Grosso, quadrato, facilissimo a passare dalla grinta al sorriso conciliante, dotato inoltre di mimica eccessiva e insignificante, Vito Panessa (che dice prima d’essere alle di pendenze di Calabresi, poi di Allegra, e di “lavorare su ordinazione” come Sparafucile), al pari di tutti gli altri, a un certo punto sconfessa il superiore. Quella notte nessuno aveva una sua funzione nei confronti del Pinelli, come invece afferma il commissario, ma eran tutti lì per caso, di passaggio o per curiosità. E chi lo interrogava sulla formazione dei convogli, o sull’anarchia, lo faceva per desiderio di cultura personale. Dunque, secondo Panessa, da calmo che era e soltanto desideroso di buttare via la cicca, Pinelli all’improvviso dà un colpo all’anta e vola giù, sfiorandolo col piede nell’attimo in cui lui si volta: ed ecco che sta per essere trascinato anche lui (dal piede che sfiora?). Tutto qua, fra risate frequenti, compiacimento per quello che dice, sguardi all’ingiro quasi a chiedere approvazione, e infine la descrizione minuziosa del suo choc personale: “ci è voluto,” egli dice, “un po’ perché si rianimasse”; quando poi vede il Valitutti è ancora “in fase di rianimazione.”
Si arriva così alla famosa frase sulla confessione del Valpreda, e conseguente grido del Pinelli, e val la pena di rendersi conto di tutte le sue confusioni, ritrattazioni, fra si pasticciate e incomprensibili. Questa frase, nella deposizione del 16 dicembre, risulta pronunciata sul tardi nell’ufficio del commissario. (“Ha solo avuto uno scatto verbale quando ha appreso dal dottor Calabresi che il Valpreda aveva parlato. Egli ha infatti esclamato: `È la fine dell’anarchismo!’ Era circa mezzanotte, quando allontanatosi il Calabresi, all’improvviso il Pinelli…” e qui lo scatto felino, quindi: “mi sono slanciato per afferrarlo, sporgendomi oltre la ringhiera e riuscendo quasi ad afferrare il piede destro, che. ho poi mollato per le grida alle mie spalle…”) Ma a distanza di poche ore, sempre il giorno 16, si corregge: “Prendo atto che risulta dalle dichiarazioni del brigadiere Caracuta che la circostanza sull’affermazione del dottor Calabresi fatta al Pinelli che il Valpreda aveva parlato si è svolta non nell’ufficio del dottor Calabresi e molto prima del mio intervento. Preciso che, pur confermando le precedenti dichiarazioni fatte alla S.V., che non sono in grado di escludere, ho riferito tali circostanze nell’immediatezza in ufficio.” Quindi, ancora poco dopo, ma sempre il giorno 16: “Ho assistito all’interrogatorio del Pinelli Giuseppe la sera del 15 scorso nell’ufficio del dottor Calabresi, che ha detto al Pinelli, per vedere quali reazioni aveva, che il Valpreda aveva parlato. Ciò penso sia avvenuto dopo circa mezz’ora o un’ora che io ero intervenuto. Ero presente altresì quando il dottor Allegra, circa mezz’ora prima della caduta del Pinelli, chiestogli chi fosse il ferroviere anarchico e saputo che era lui, gli contestò… Il Pinelli respinse l’accusa senza scomporsi…” e avanti con la versione ufficiale.
Sentiamolo adesso in aula il 27 ottobre 1970: “Ora nell’interrogatorio che ha fatto il dottor Caizzi, a cui sono stato sottoposto, devo aver detto di aver sentito, prima o dopo o durante, la famosa frase `Valpreda ha parlato,’ o qualcosa del genere. Poi, a richiesta del dottor Caizzi, pur prendendo notizia che quella frase era stata detta all’inizio, così come mi affermava il dottor Caizzi, non potetti escludere che quella frase io avessi invece potuto sentirla nell’immediatezza di qualche dichiarazione resa dal Pinelli, o appena sono entrato nella stanza o dopo; ed in particolare su questo io non fui preciso, non sono preciso; forse non sarei nemmeno preciso se… ho tentato di raccogliere…! ma certe cose sfuggono, anche perché, come ho detto poco fa, io ero sì interessato ad aggiungere alle notizie che già avevo qualche altra notizia che potesse venir fuori, ma non ero interessato come verbalizzante, in quanto l’interrogatorio veniva condotto da tempo, non so se da un’ora prima o da due, non lo so, perché sono entrato quando era in corso l’interrogatorio.”
Solo parole in libertà. Anche Biotti appare sconvolto, e dopo un po’ torna sull’argomento: “Il giorno 16 lei fu sentito dal dottor Caizzi? ”
Panessa: Sissignore; siamo stati invitati per la mattina, ma io credo di essere stato sentito la sera, il pomeriggio. Sono rimasto… Non ricordo.
Giudice: Lei vorrebbe rettificare una imprecisione nella quale crede di essere incappato…
Panessa: Ma io credo di non essere in grado; è questo che volevo dire; non sono in grado di rettificare, di precisare esattamente se io l’ho sentita perché mi è stata riferita, perché è stata ripetuta, quella frase. Siccome io credo di aver detto di averla sentita, perché è stata ripetuta, quella frase. Siccome io credo di aver detto di averla sentita, di averla recepita direttamente; poi, raccogliendo un pochino, non credo di averla sentita. Però non sono in grado di escludere che mi sia stata riferita durante…
Giudice: Quindi, poiché sappiamo che questa frase fu detta subito dal dottor Calabresi, appena iniziato l’interrogatorio, lei non era presente?
Panessa: Non ero presente all’inizio; dopo, dopo qualche giorno si è discusso su questo particolare, e poi vengono fuori esattamente delle imprecisioni. Imprecisioni dovute a perfetta buona fede, tenuto conto anche del fatto – che io ho partecipato come… in quanto ero presente, ma posso averla sentita nel corso dell’interrogatorio, perché è probabile che sia stata riferita dal dottor Calabresi ancora una volta, ancora due. Devo averla fatta propria: quindi mi sarà rimasta quella parte… Dopo tre o quattro giorni è stato possibile stabilire quando è stata detta in effetti; è stato stabilito, poi, nel tempo, che quella frase è stata detta all’inizio. Nel tempo; perché per un certo periodo di tempo non se n’è parlato più fra di noi, perché ognuno ha badato… non le so dire se dopo dieci giorni o quindici, o dopo un mese o dopo un giorno. Nel tempo!
Allora la Guidetti Serra: Vorremmo che il teste dicesse qualcosa di più, perché lui dice: “nel tempo.” Il giorno 16 dicembre, in modo preciso invece ha detto: io [io udito la frase. Allora ci dica quando l'ha sentita, direttamente o indirettamente.
Gentili: La risposta di Pinelli l'ha sentita o non l'ha sentita?
Giudice: Sente queste contestazioni? [legge il verbale]. E allora oggi, sotto il vincolo del giuramento, cosa dice?
Panessa: Credo che in quell’occasione io ebbi notizia del momento in cui questa frase è stata detta; non ricordavo, e quindi nel prendere notizia dissi va be’… In un primo interrogatorio dissi al dottor Caizzi di aver sentito quella frase. Poi, presi notizia, qualche tempo dopo, dal dottor Caizzi, che questa frase era stata detta dal Calabresi all’inizio dell’interrogatorio; io non ero presente all’inizio, sono arrivato quando era in corso. Allora risposi che potetti averla sentita e accettata come se l’avessi sentita io, tenuto conto anche del trauma psichico…
Adesso chi ricorda i fratelli De Rege e i loro dialoghi, può paragonarli a quello che deve essere avvenuto tra Pancssa e Caizzi (Caizzi che insiste per far dire quello che è bene dire a Panessa, e Panessa che non riesce a capire, nonostante le precise istruzioni).
Giudice: Lei non è stato presente né alla frase né alla risposta del Pinelli?
Panessa: Dopo si è stabilito che non ero presente.
Giudice: Però non esclude…
Panessa: Che possa esser stata ripetuta.
Giudice: Sia la domanda che la risposta!
Panessa: Non escludo che mi sia stata riferita e quindi devo averla recepita come se l’avessi sentita io.
Guidetti Serra: Chiedo al teste se non sia vero che il l.6 gennaio lui ha ribadito la stessa circostanza come appresa direttamente.
Panessa: Ho detto che non sono in grado di fare delle precisazioni; però, grosso modo, si tenga presente che non è che c’è stata una versione concordata e quindi c’è stata una verifica di quello… Ognuno di noi è andato dal signor giudice Caizzi e ha dato quella versione che…
Giudice: Signor Panessa, lei parla troppo! Dica se questa frase l’ha appresa direttamente o se l’ha saputa dopo:
Panessa: Non sono in grado di precisarlo; non ricordo. Non fui in grado allora, perché dovrei essere in grado oggi di precisare?
Giudice: Cos’è questa storia della versione concordata?
Panessa: Non è che c’è stato uno scambio di idee fra noi che eravamo presenti: ognuno il giorno successivo è venuto dal gìudice ed ha raccontato quello che ricordava.
Inutili insomma le contestazioni. E per chi avesse fatto un po’ di fatica a seguire questi interrogatori d’allora e, di adesso, la conclusione che emerge è questa: che Panessa non è in grado di precisare se la frase determinante l’ha percepita direttamente o “recepita nel tempo”; che in un secondo tempo lui ha sentito da Caizzi che il Calabresi la avrebbe pronunciata all’inizio dell’interrogatorio e in un’altra stanza. Ed è a quel punto che lui “deve averla fatta propria,” non escludendo però d’averla sentita allora come non esclude d’averla sentita prima, comunque dev’essersene persuaso al punto da riuscire a sentirla davvero. Né sa mai riferire gli orari, perché, proprio in quei giorni, “non ho mai guardato l’orologio.”
La signora Pinelli ascolta sempre pallida e rigida nel suo atteggiamento di attentissima statua: confesserà poi che per la prima volta ha dovuto trattenersi e fare uno sforzo su
se stessa, perché durante la deposizione di Panessa ha avuto l’impulso irresistibile di alzarsi, traversare l’emiciclo e andare a dargli due schiaffi. (Segue a questo punto una mia ritrattazione: qualche volta avevo deplorato il contegno dei due giudici a latere, scrivendo anche a proposito della signora Cardona “che la si sarebbe detta impagliata, come se portasse la toga per errore.” Mentre ho saputo molto più tardi, e dal giudice Biotti, che durante la deposizione di Panessa, la giovane donna, che pareva sempre così assorta in pensieri tutti suoi, seguitava, scandalizzatissima, a tirargli la toga.)
Qui si invoca un’altra volta l’esercizio della logica da parte del lettore: solo Amati e Caizzi potevano prendere per buone queste deposizioni. Chi, degli altri, infatti, leggendo la registrazione dell’interrogatorio di Panessa non vien preso da un sentimento molto vicino all’ira? Chi non vede sotto questa confusione di parole un misto ambiguo di connivenze e corruzione?
È sempre stato imponente durante queste due ultime udienze lo spiegamento di forze dell’ordine dentro e fuori il palazzo di giustizia: vietato a chi in questo palazzo è di casa il godimento di quei diritti elementari goduti fino al giorno prima; è stata cioè proibita all’interno l’assemblea degli avvocati sulle incriminazioni di magistrati e colleghi per reati d’opinione, quindi minacciati di carica dal solito Vittoria, questi hanno dovuto radunarsi a parlare sui gradini del tempio, malamente disturbati dal rumore del traffico e dei passanti curiosi. Ritirato poi proprio in questi giorni il passaporto al professor Baldelli, quindi rifiutato tanto il nullaosta quanto il perché del rifiuto dal procuratore Enrico De Peppo. E per finire, davvero troppo silenzioso il PM Guicciardi, la cui funzione, come ebbe a dire all’inizio, era “il fine precipuo di far luce,” e il cui dovere c’ quello di perseguire i reati, quindi avrebbe dovuto attaccare a fondo i testi reticenti,, trasognati e bugiardi.
Mentre di luce non se ne vede nemmeno un raggio, e i testi reticenti, trasognati, bugiardi, nessuno dotato d’almeno un briciolo di classe, vanno via soddisfatti, magari complimentati dai loro colleghi, a suon di grandi manate sulle spalle.
Ma non si creda che, mancando per qualche udienza i testi clamorosi (Panessa resterà l’esempio quasi demenziale dello scandalo e gli altri testimoni oculari dietro), vada appannandosi l’interesse del processo “Calabresi-Lotta continua,” perché in ognuna di esse, sia pure in fatto d’incongruenze e di passi falsi, qualcosa salta fuori, sempre lo stesso, mentre da parte del duo Gentili-Guidetti Serra si fanno alcuni passi avanti.
La difesa ha infatti ottenuto il sopralluogo in questura, ha presentato a Biotti un documento che è un vero e proprio ben nutrito catalogo delle molte contraddizioni, mancanze di memoria e discordanze in cui sono incorsi, durante le loro testimonianze, commissari, tenenti e brigadieri; ha ottenuto di poter esaminare quel massiccio librone su cui la questura registra la permanenza dei fermati nelle camere di sicurezza; ha chiesto di poter controllare gli accertamenti medico-legali sulla morte di Pinelli.
Utilissimo è stato il sopralluogo in questura durante il quale non soltanto i giornalisti sono stati colpiti dall’esiguità dello spazio e dalla difficile agibilità di quella stanza (m 4 X 3,40, sei uomini dentro, più uno sulla porta), ma anche il presidente Biotti rimane impressionato. “È molto più piccola di quanto pareva,” esclama varcandone la soglia, e probabilmente rendendosi conto anche lui che diventava così falsa quella piantina fatta a suo tempo per il PM dalla questura (dove le misure sono quelle che sono, eppure il locale appare assai dilatato, per via di certi particolari, per esempio le sedie che, riportate in scala, sarebbero larghe cm 20 X 20, cioè dei sedili inattendibili, buoni soltanto per cagnolini ammaestrati. (Grande lacuna: non aver portato lì i testimoni oculari, disponendoli nelle posizioni in cui si trovavano quella notte.)
Altrettanto utile la lettura del sinistro librone, con le annotazioni che, secondo il gergo della questura, stavolta “incastrano” Allegra. Da lì risulta che il Pinelli è entrato nella camera di sicurezza il 13 dicembre alle 22,30. Adesso infatti appare chiaro che non si trattava di “invito,” come ha sempre sostenuto il capo della Politica, ma di “fermo” vero e proprio; che il fermo era illegittimo (non c’erano indizi nei confronti del Pinelli, né sospetto di fuga); che non è esatto, come dice questo funzionario, che lui l’aveva chiesto il 14 insieme alla convalida; che quando Pinelli morì nella notte fra il 15 e il 16 dicembre era inoltre scaduto il termine di 48 ore previsto dalla legge.

Ed ecco la raccapricciante annotazione finale fatta da una anonima guardia al colmo della distrazione, che con un cerio imbarazzo esce da sotto i baffi bianchi del giudice-presidente: è alle ore 12 del 17 dicembre che Pinelli risulta messo 117 libertà (ed era già morto da trentasei ore).
Mancano invece un paio di minuti alla mezzanotte del 15 quando, passando per il cortile, la guardia Antonio Manchia vede una sagoma d’uomo cader giù dalla finestra. Corre accanto al caduto, tenta di sollevarlo, poi va u dare l’allarme. Un teste oculare, dunque, che per una delle solite stravaganze di questa vicenda, vien sentito, anzi scoperto dal PM Caizzi solo a cinque mesi dal fatto. E diventa importante, perché accanto al corpo afferma di non aver visto il giornalista Aldo Palumbo, smentendo così il teste che, fin dalle prime ore, afferma d’aver sentito il Pinelli “venir giù come uno scatolone” e di averlo visto a terra per primo.
Manchia lo descrive “con la guancia a terra, il fianco o (erra, il ventre in su.” L’avevano visto ancora vivo e seduto le guardie Gangemi e Caparelli che per motivi di servizio erano entrate due volte ciascuna nella stanzetta dell’interrogatorio: anche secondo loro l’ambiente era tranquillo, l’anarchico appariva sereno.
Su tutti ì fronti ha dunque stravinto la tesi della serenìtà del Pinelli, mentre è stata definitivamente accantonata la prima, secondo la quale il salto dalla finestra doveva considerarsi un gesto di autopunizione. La si accantona al punto che dal PM viene richiesta l’archiviazione del procedimento per diffamazione contro Guida, e per lui viene chiesta 1′assoluzione “perché il fatto non costituisce reato.” Unico esempio nella storia giudiziaria italiana, che in un caso di querela per diffamazione si assolva in istruttoria per mancanza di dolo. (Una causale che di salito si accerta in dibattimento.) E senza aver mai interrogato l’imputato.
Insomma, così aveva concluso il solito Caizzi, il questore disse, sì, cose diffamatorie, ma, quel che conta, non voleva diffamare: del salto dalla finestra era stato messo al corrente dai suoi collaboratori senza però rendersi ben conto della successione dei fatti. In quel particolare “momento d’orgasmo” era poi difficile “emettere un giudizio che sintetizzasse un convincimento,” e lui ha sintetizzato su riferimenti marginali, che a suo parere sarebbero gli indizi e gli alibi caduti: di qui, tout-court, l’assoluzione, e Guida si allontana per sempre dal banco degli imputati.
Né manca in questo dossier un documento gustoso: la memoria difensiva che in data 11 maggio 1970 il questore Guida firmò presentandola al PM; la firma è sua, ma la stesura è dell’avvocato Lener, manco a dirlo, suo difensore. Oltre a contenere infatti tutti gli elementi di diritto e di fatto usati da Caizzi nella sua richiesta d’archiviazione (compresa la “parentesi d’eccitazione e di orgasmo”), è scritta in quel tipico linguaggio curiale e pieno di luoghi comuni e disseminato da punti di sospensione tipico del principe dell’enfasi napoletano, il cui fondo ottocentesco è continuamente fiorito di citazioni e di termini tecnici, decisamente insoliti per un questore.
Ecco “i misteri insondabili dell’animo umano” (il perché del salto), le “piccole occupazioni e i futili conversari” (pensate un po’, vi erano immerse le guardie al momento del salto), il ridicolo timore di “cascare..: dalla padella nella brace” e i “copiosi articoli” che dopo ne sono risultati: ecco ‘l’errore scriminante,” la mancata “voluntas,” il fallito “animus diffamandi,” il predicato di relazione, la denegata ipotesi; tutte cose di cui, secondo le frequenti citazioni, scrive il Manzini, annota lo Spasari, sottolinea il D’Onofrio, afferma il Fisichella. Conclusione: i subalterni l’hanno informato male, povero questore Guida, lui era in stato di confusione (proprio non pareva confuso quella notte); quando è emozionato, “il questore non può permettersi uno stile da nota diplomatica,” e i giornalisti hanno esagerato; ce n’è uno che il 16 mattina scrive Calabrese al posto di Calabresi “indicandolo addirittura… fra virgolette!” (Colpa dei giornalisti, allora.)
Immediata è la risposta del professor Smuraglia e dell’avvocato Contestabile, difensori delle parti civili costituite nel processo penale a carico di Guida, una sdegnata me moria rivolta al tribunale. Vi si mettono in evidenza le ragioni giuridiche e di opportunità che rendono illegittima tanto la richiesta di proscioglimento quanto il trattamento speciale riservato a un cittadino che evidentemente e a torto viene considerato tutto diverso dagli altri, al punto che non è stato nemmeno sentito dal magistrato inquirente.
Ben più grave ancora il fatto che si chieda di assolvere questo imputato “pur riconoscendo l’obiettiva lesività delle dichiarazioni” a suo tempo rese alla stampa, arrivando a cavillare sul dolo per escluderlo, per trovare giustificazioni, dimenticando la gravità di quel che disse, vere a: proprie accuse infami, a danno di un morto, tanto la notte di fronte a molte persone, come il giorno dopo davanti ad altre ancora e alla stampa intera. E si ricordi, canclude la memoria, che il Guida insistette nelle sue calunnie anche dopo che un deputato (l’on. Malagugini) gli ha sottolineato a più riprese le gravi responsabilità che si assumeva con quelle dichiarazioni, tutto ciò per avere in risposta la celebre frase sul come sa assumersi le sue responsabilità un funzionario della sua anzianità e del suo grado.
I due avvocati concludono che nell’intento di arrivare al proscioglimento per mancanza di dolo, il PM ha domato richiamarsi a teorie del tutto superate o disattese dal la migliore dottrina e giurisprudenza; che è insensato parlare di “commozione” e di “concitazione del momento,” perché è tipico dei delitti contro l’onore la ricorrenza di tali elementi. Per queste ed un’infinità di altre ragioni meticolosamente elencate, viene dimostrato con assoluta evidenza che il dottor Guida dev’essere rinviato a giudizio. “È compito della giustizia imporre il rispetto dei vivi, ed anche quello dei morti. È compito della giustizia imporre a chiunque (sia o meno il questore) il rispetto della legge.” Così sparisce da Milano in direzione di Roma un questore pieno di buone speranze e perciò promosso ispettore capo di PS, mentre da Bologna ne arriva un altro, il dottor Ferruccio Allitto Bonanno, che se avesse potuto scegliere, in questo momento avrebbe scelto qualsiasi. altra città ma non Milano. È nato a Gesso, vicino a Messina, è stato questore a Vercelli, a Ferrara, a Bolzano (nel periodo degli attentati altoatesini), quindi a Padova e infine a Bologna, è quel signore argentato e massiccio presente anche lui al sopralluogo in questura. Me lo avevano mostrato da lontano, lo vedrò invece molto da vicino la sera stessa in casa di amici (che mi hanno invitato proprio su richiesta del signor questore, desiderosa di conoscere, secondo le sue precise parole, quella che nel suo ambiente viene considerata da tempo la rompiscatole Nel, e verso la quale, a causa degli articoli che scrive, i suoi dipendenti nutrono una profonda avversione).
Ed eccomi seduta a tavola di fronte a quest’uomo dai modi piacevoli ma nei miei riguardi francamente indagatori (quella mattina, durante il sopralluogo, è scomparso un libro dall’étagère di Calabresi, precisamente Le bombe di Milano con annotazioni fatte in rosso dal commissario. Possibile che io non ne sappia niente?). Ecco che, prima di interrogarmi con una certa alacrità, comincia a rimproverarmi tra una portata e l’altra con un garbo che a poco a poco si fa sempre più appannato, finché al dolce, ha almeno temporaneamente esaurito la sua riserva di sorrisi propizi:
Premesso che è molto scontento di essere stato nominato a Milano, piazza da lui ritenuta delle più imbarazzanti e pericolose per un questore, messo in chiaro all’inizio che ha fatto il partigiano, che è stato in carcere durante la Resistenza, che i fascisti gli danno un fastidio quasi fisico, entra subito nell’argomento che gli sta a cuore: come mai, con l’aspetto che ho, non certo da passionaria, m’interesso con tanto calore al caso Pinelli? Sono forse anarchica anch’io, se no comunista, maoista, lottatrice continua, marxista-leninista?
Ma no, e a questo punto interviene l’amico padrone di casa, che vuol dissipare ogni equivoco; secondo lui, sono soltanto una giornalista democratica, per nulla convinta di una certa verità ufficiale, che fa quello che pensa sia il suo dovere per tentare di capir qualcosa in una vicenda a suo parere troppo carica d’ombre. Ma il mio difetto è sempre stato quello di ascoltare una sola campana, riprende il questore. Questo proprio no, rispondo, le ho sentite tutte, per esempio la prima è stata la campana stonata del suo predecessore in quella notte di mezzo dicembre. E poi molte altre ne ho sentite pochi giorni prima di questo pranzo, tutti i funzionari di via Fatebenefratelli, alti e bassi di grado, tutti scordati uno più dell’altro, un concerto che invece di risultare unitario e concorde, era risultato zeppo di note false, errori marchiani, disgustose dissonanze e tasti sbagliati.

Segue sotto...

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