lunedì 29 ottobre 2012

Giuseppe Pinelli Part. 2


Allora com’è morto il Pinelli e perché? A questo punto uno è autorizzato a tirar tutte le conclusioni che crede. Che sia valida l’ipotesi di un incidente sul lavoro durante la fase calda dell’interrogatorio? Cioè, in parole povere, che l’abbiano picchiato per fargli dire qualcosa? Oppure è possibile l’ipotesi, avanzata prima sottovoce da molti, poi un giorno comparsa sull’ “Avanti!”, di un fatale colpo di karaté? Forse che per via di uno di questi colpi che non lasciano il segno, Pinelli si sia sentito molto male, e sia caduto a capofitto nel tentativo di rimettersi con una boccata d’aria? Oppure, terza ipotesi (quella suggerita dall’agenzia “In”), che subito dopo l’interrogatorio fattogli da Calabresi, Pinelli sia stato stroncato da un infarto?
A questo punto bisogna rifarsi a quei mesi in cui non era ancora noto, con tutte le sue assurdità e le sue goffaggini, il decreto d’archiviazione; quindi un altro interrogativo del momento è quello di cercar di capire perché l’avevano trattenuto tre giorni in questura (mentre dopo quarantott’ore, come vuole la legge, avrebbe dovuto essere portato a San Vittore). Cosa poteva in effetti sapere il Pinelli e su cosa stavano interrogandolo nella fase più scottante? Può darsi che il fermo fosse durato così a lungo perché egli poteva dare notizie generiche sugli anarchici, e perché si cercavano i suoi eventuali legami con gli attentatori. Forse aveva subìto fortissime pressioni perché convalidasse il riconoscimento di una fotografia di Valpreda e di lì si era acceso un violento diverbio. (“Non è certamente legato alla strage,” aveva detto invece un funzionario alla madre la mattina del 15, “non sappiamo ancora se lo lasceremo andare fra due ore o fra qualche giorno, il fatto è che ci fanno pressioni da Roma.”) O si temeva forse che, una volta fuori, parlasse troppo?
E quale l’argomento dell’interrogatorio in fase calda? (Si calcola che l’atmosfera si sia arroventata verso le undici e mezzo, perché alle dieci il Pinelli era stato visto che, tutto calmo, stava risolvendo le parole crociate.) Quanto poi all’oggetto che scotta, è il suo libretto chilometrico, cioè il tesserino su cui son segnati i suoi viaggi, e a proposito del quale alle dieci il commissario Calabresi telefona alla signora Pinelli. “Può cercarlo per favore? Occorrerebbe in questura.” Alle dieci e dieci la signora telefona che l’ha trovato; verso le undici arriva in via Preneste qualcuno della questura a prelevarlo; alle undici e mezzo si può presumere che il libretto sia nella stanza.
È proprio a proposito di questo libretto, precisamente sulla data di un viaggio, che l’atmosfera si fa pesante. Roma è la meta, i giorni sono quelli degli attentati sui treni, agosto 1969. A Pinelli vengono contestati nomi, date, coincidenze: quindi della successiva fase tumultuosa si accorgerà il Valitutti in attesa nel camerone, per via di quello strano rumore, come di sedie che cadono e di colluttazione. E: “La concomitanza del viaggio con gli attentati, comunque, convinse gli inquirenti che si era sulla pista buona. Lo comprese anche il Pinelli, e il ferroviere fece la sua scelta: `la finestra e il suicidio,’ “scrive il “Corriere” in data 18 dicembre.
Tutto bene, se gli inquirenti ci avessero azzeccato, ma col tempo si vedrà che invece eran del tutto fuori pista. Così, escludendo il suicidio, altre ipotesi ancora si fanno avanti e diventano sempre più nere. Mentre la polizia sta cercando di acquisire una serie di nomi e di circostanze che servono a incastrare certi personaggi, improvvisamente scatta un altro meccanismo. E la mente di Pinelli, che fino ad allora non aveva fatto certi collegamenti, d’improvviso li fa. Insomma di colpo intuisce qualcosa di sorprendente, circostanze, persone, legami che dei fatti di Milano danno una spiegazione assolutamente in contrasto con la versione corrente. Ingenuo com’è, magari aggiunge che l′indomani andrà dal magistrato a riferire tutto, comunque ha capito qualcosa che non doveva capire, ed è la sua intuizione che probabilmente può spiegare il mistero della sua morte.
Altra congettura: a furia di contestargli fatti e circostanze, lui impallidisce paurosamente. Vien presa allora una decisione improvvisa: lasciarlo qualche minuto solo (non del tutto, è ovvio), per rientrare poi bruscamente di lì a poco a provocarlo per riprendere l’interrogatorio. Azione che viene eseguita alla lettera, ma subito dopo la brusca entrata e durante la brusca contestazione, il Pinelli si sente male, anzi malissimo. Al punto che l’interrogatorio si interrompe, il Pinelli si accascia sulla bassa ringhierina, e si rovescia fuori. Oppure sta malissimo, i poliziotti si allarmano (come si fa domani a far passare per buono l’infarto di un anarchico in questura?), e diventa attendibile la tesi di “In.”
Dovrebbero essere dei veterani, questi funzionari, coriacei ed esperti, tanto consapevoli del loro potere; eppure di errori sembra ne abbian già commessi una serie abbondante. Per esempio, si saran sbagliati tutti e quattro i giornalisti presenti quella notte in questura nel situare la caduta a mezzanotte e tre minuti, mentre secondo il cartellino del centralino dei vigili la chiamata dell’autoambulanza risulta fatta a mezzanotte e cinquantotto secondi (poi si sposterà a un minuto dopo la mezzanotte), cioè due minuti e due secondi prima dell’ora indicata dai giornalisti? E perché a due giorni di distanza, un paio d’agenti della squadra politica si presentano al centralino dei vigili a controllare l’ora esatta della chiamata? (Era se mai il magistrato inquirente che doveva interessarsene. E un nuovo magistrato se ne interesserà ventun mesi dopo.)
Perché son tre e tutte diverse le versioni che la polizia ha dato dell’incidente? “Quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato in tre di fermarlo, ma senza riuscirci,” la prima. “Quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo e ci siamo parzialmente riusciti,” la seconda. “Quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo, e uno dei sottufficiali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo cercò di afferrarlo e salvarlo: in mano gli rimase soltanto una scarpa del suicida,” risulterà la terza; un giornalista del “Giorno” infatti vide il corpo a terra con tutte e due le scarpe ai piedi.
Perché poi si parla di “verbali sottoscritti dal Pinelli” quando Guida disse “non abbiamo verbalizzato niente”? E perché infine l’unico testimone della caduta, cioè Aldo Palumbo, rientrando una sera di metà gennaio trova la sua casa tutta a soqquadro, rovesciati i mobili, aperti i cassetti, frugati gli armadi? Cosa mai cercavano con tale accanimento fra la sua roba gli ignoti che in tanto disordine non gli hanno rubato proprio niente?
A furia di trovarsi davanti a queste zone d’ombra, e di vederla illuminata soltanto a tratti da lampi sinistri, sul caso Pinelli i milanesi improvvisamente si accendono, e il
ferroviere autodidatta di fede anarchica “povero come gli uccelli dell’aria” diventa il protagonista di discorsi, discussioni, e addirittura comizi (del 24 marzo è la manifestazione indetta, oltre che per proclamare l’innocenza di Valpreda, anche per denunciare che nessuno crede al suicidio di Pinelli). Perfino nei salotti se ne parla, e si litiga sull’argomento: da una parte quelli che vedono una vittima in Pinelli, dall’altra i campioni del lasciar correre, del come la va la va. “La questura picchia, lasciatelo dire a noi inquilini di corso Porta Nuova che da anni abbiamo continuato a far petizioni perché cambino di posto i locali degli interrogatori, tanti sono gli urli che la notte non ci lasciano dormire.” “Avete la fantasia malata, vedete sempre fantasmi, come potete pensare che dei funzionari della Politica di Milano ammazzino di botte uno e oltretutto lo buttino anche dalla finestra?”
E qui bisogna ricordare in che clima si viveva a Milano nei primi mesi del gennaio ’70 e quali erano diventate le nuove costanti del contesto urbano, le sinistre isole di gipponi, furgoni cellulari e pantere della polizia, i cordoni di agenti e carabinieri in assetto di guerra, su l’elmo e la celata, addosso il giubbotto imbottito, in mano lo scudo, al fianco la bisaccia piena di candelotti, il mento protetto come i gomiti e gli stinchi; e alternati o contemporanei all’urlo delle sirene lo scatto secco delle saracinesche che van giù, il tonfo sordo dei sassi o dei cubetti di porfido.
Cortei di scioperanti con fischietti e cartelli, cortei antirepressivi con slogan scritti o gridati (il giorno della morte di Annarumma, ad aprire il gruppetto degli anarchici diretto al Lirico per il comizio dei sindacati era stato proprio Giuseppe Pinelli), le scritte fasciste che si moltiplicano sui muri, le aggressioni fasciste in piazza San Babila e immediati dintorni, i volantinaggi d’ogni colore in ogni angolo del centro, le barricate e le bandiere rosse davanti all’università. E’ frequente la guerra per le strade (il 21 gennaio per esempio) col corteo aperto dal Comitato dei giornalisti contro la repressione ancora fermo davanti alla Statale quando la polizia vede rosso, allora il vicequestore fa suonare la tromba, piovono i lacrimogeni, c’è fumo dappertutto, la gente corre, la polizia la insegue col manganello alzato, gli agenti si picchiano tra di loro per errore, ma picchiano soprattutto gli altri, ecco denti che saltano, ecco il sangue per terra. La guerra continua per ore, i poliziotti feriti sono portati via a braccia sulle autoambulanze, invece gli studenti si fan cucire la testa da medici clandestini.
E se la strada è sempre inquieta, son ben poche le famiglie tranquille. Mentre alcuni giornalisti si sforzano di definire nelle loro cronache qual è la mappa del terrorismo, perdono l’occasione di far delle altre interessanti ricerche private, per concludere con una mappa della Milano divisa, la Milano benpensante, cerchia del Naviglio e ombroso Cappuccio. Padri ricchi e conservatori, fautori dell’ordine e della normalità, con figli rivoluzionari che vivono nelle comuni, padri decisamente fascisti che vanno in Rolls, invocano la mano forte, o addirittura i colonnelli e le sinistre le chiamano “bubbone,” e si trovano in casa figlie giovinette vestite come mendicanti che hanno il loro ragazzo del “Movimento studentesco” e sfilano in corteo accanto agli anarchici, scandendo ben chiaro “Pi-esse Esse-esse,” se non più minacciose: “Guida sarai suicidato!” (I padri per consolarsi bevono whisky, le ragazze prendono due aspirine prima dei cortei per non intossicarsi di fumo, e hanno in tasca il limone da succhiare subito dopo i gas.)
I cortei se la prendono con la polizia e il caso vuole che in questo stesso periodo non siano benigne le testimonianze che si raccolgono circa i funzionari dell’ufficio politico. Da San Vittore, dove da due anni è detenuto insieme a quattro compagni, Paolo Faccioli (che, come loro, è accusato degli attentati del 25 aprile, e uscirà dopo due anni su richiesta del PM per non aver commesso i fatti), manda una lettera agli amici in cui parla delle sevizie sofferte in questura: tre giorni di interrogatori continui senza mai dormire e sempre in piedi, violenze continuate e minacce. Schiaffi, colpi alla nuca, pugni, gran tirate di capelli e spesso torti i nervi del collo. Il tutto peggiorato dal fatto che lo picchiavano all’improvviso e al buio. Erano il commissario Zagari, i brigadieri Mucilli e Panessa, il commissario Calabresi. (Mucilli e Panessa sono i due che nelle ultime ore di vita di Pinelli, insieme al brigadiere Mainardi, gli son sempre stati vicini.)
E Paolo Braschi, detenuto anche lui insieme al Faccioli, non perde l’occasione di mandar una lettera anche lui ai compagni del Comitato politico-giuridico di difesa che verrà poi pubblicata sul settimanale anarchico “Umanità nova.” A proposito del caso Pinelli in cui egli vede lampanti le responsabilità della polizia, dice che con le finestre Calabresi ha avuto sempre qualcosa a che fare. “Lo abbiamo anzi soprannominato ‘comm. Finestra,’ e, devo dire, tale nome gli calza a pennello. Ricordo che quando fui interrogato (nello stesso ufficio dove ha trovato la morte il Pinelli), questo cosiddetto commendator Finestra l’ultimo giorno che passai nei suoi uffici – soddisfatto di avermi estorto, insieme con i suoi degni soci, delle false ammissioni grazie a ricatti, violenze, insulti e minacce – mi fece sedere vicino alla finestra aperta (che non ha il parapetto in muratura ma una ringhiera di ferro), e tenendosi a distanza lui ed altri mi provocarono apertamente chiedendomi perché non mi buttassi di sotto. Tutto ciò si ripeté più volte mettendo a dura prova i miei nervi già scossi dal trattamento subito.
“Devo anche dirvi che tale commendatore è quello che ha palesato sempre e più di tutti un vero e proprio accanimento, direi odio, verso di noi, e i compagni in generale.”
Nessun punto a favore dunque per il commissario a cui forse non interessa granché la circolazione semiclandestina delle lettere di due che stanno in prigione. (Peccato che sull’ “Espresso” puntualmente se ne dia notizia.) Ma certo gli brucia ancora di più trovar sulla facciata di casa sua in via Mario Pagano una grande scritta: “Assassino di Pinelli,” e durante il percorso da casa in questura, la sua mascella deve senza dubbio assumere una ruga laterale extra, tanti sono i muri, in centro e alla periferia, che gridano in rosso e in nero, ma sempre a lettere cubitali: “Calabresi assassino!’ E si può pensare per un attimo con un minimo di pena a quel che proverà passando lì davanti la sua giovane moglie: almeno gli occhi di Licia Pinelli, quando esce, incontran scritte di ben diverso sapore: “Pinelli innocente. Hanno suicidato Pinelli.”
Probabilmente l’impetuoso commissario ha un moto di stizza, se non di rabbia violenta anche ogni volta che gli metton davanti un numero del settimanale “Lotta continua” (venticinquemila copie). Da quattro mesi (cioè dal 14 gennaio), e a ritmo sempre più sfrenato, lì sopra c’è un articolo, una vignetta che lo riguarda da vicino. Insomma ogni volta l’accusano d’aver scaraventato l’anarchico giù dalla finestra del suo ufficio al quarto piano della questura, dove lui stesso stava conducendo l’interrogatorio. Ecco Calabresi che sale sul tram pieno, andando addosso a un passeggero già molto schiacciato, e il passeggero si volta spazientito: “Ma che fa dottò… spinge?” Ecco un cittadino che, dovendo andare in questura e al quarto piano, si presenta sul portone con un paracadute sulle spalle. Altrimenti si vede Calabresi che ammicca da dietro il davanzale di una finestra mentre il Pinelli precipita, oppure mentre dà la spinta fatale a un uomo in bilico, se no mentre, vestito da cameriere, offre piatti di minestra con su scritto “ricatto” ai fermati, gridando: “O mangiate ‘sta minestra o saltate ‘sta finestra.” In un’altra ancora si vedono due uomini spiaccicati a terra nel cortile della questura e un brigadiere che guardava su verso il commissario affacciato: “Non me l’aveva detto, dottore, che c’era un confronto.” Lo chiamano “Volodangelo” e anche più concisamente “Volo.”
Intanto Franco Trincale canta per le piazze il Lamento per la morte di Giuseppe Pinelli:

E persero la testa
non sanno cosa dire
la corda gruppa gruppa
è morto senza culpa
Era quasi menzanotte e
cadiu nella corti
e strisciò lu cornicioni
ch’era sutta a lu balconi
Era mortu n’allìstanti
stiso in terra malamenti
e pareva fossi mortu
un’istanti prìcidenti
Lu questuri dissi poi
non l’abbiamo ucciso noi!

Ai cortei di protesta echeggiano altri versetti di una ballata in argomento:
Quella sera a Milano era caldo
ad un tratto il Pinelli cascò.
Jean Nobécourt, corrispondente di “Le Monde” per l’Italia, scrive sulla “Stampa”: “…L’Italia per fortuna ha ancora i cantastorie a confronto dei quali Celentano rappresenta una degenerazione… Una storia cantata della morte dell’anarchico Pinelli è altrettanto preziosa per rappresentare l’Italia del 1970 quanto una serata anonima in uno dei piccoli, teatri di Palermo… dove spettatori autentici si appassionano ancora… ai colpi di scena e alle mille avventure di Carlomagno…” Si sa infine che Dario Fo sta scrivendo una commedia dal titolo Morte accidentale di un anarchico che sarà rappresentata alla fine del 1970.
E son molti ormai a chiedersi come mai Calabresi non si decide a querelare “Lotta continua.” Costa così poco l’onore di un commissario di polizia? Se ha la coscienza pulita, non lo feriscono profondamente queste calunnie, e non sente il bisogno di scrollarsele di dosso? Da notizie che escono dalla questura (qualcosa riesce sempre a trapelare anche da quell’ambiente ermetico ed ambiguo), si sa che Calabresi non ne ha nessuna intenzione, meno si espone e meglio è, non si sa mai cosa può saltar fuori da un processo. Certo aspetta che il sostituto procuratore Caizzi concluda l’istruttoria preliminare in corso per la morte del ferroviere. Probabilmente aspetta quel che aspetta (e son già quattro mesi) per partire al contrattacco con la vittoria in tasca, sapendo cioè che è già nell’aria la notizia dell’archiviazione.

A sua volta cosa aspetta Caizzi a concludere la sua indagine? Son già cinque mesi che ci lavora in segreto, questo brizzolato giovanotto pugliese dal sorriso astuto e le movenze di un gran gatto sornione. Snervante è la lentezza del giudice che viene criticata con parole severe dall’ “Avanti!”, dalla “Voce repubblicana” e perfino dall’ “Economist.” Mentre un penalista del calibro di Alberto Dall’Ora sul “Giorno” chiede che la Procura della Repubblica, come ha fatto molte altre volte, inizi l’azione penale formalizzando l’istruttoria, cioè rivolgendosi al giudice istruttore, davanti a cui le parti avranno diritto d’intervento e di iniziativa, nell’ambito della legge processuale.
“La morte dell’inquisito nelle mani dell’autorità di polizia in ogni paese non può che generare inquietudine grave… si è accreditata l’impressione che egli, preso dallo sconforto perché raggiunto da prove inoppugnabili, avesse voluto sopprimersi. Il che parve molto singolare perché di Pinelli, nell’istruttoria per le bombe, che da Milano si trasferì a Roma, non si sentì più parlare… Di qui il sorgere inevitabile di sospetti, di accuse, di proteste vivaci. Di qui la denuncia, dignitosa e civile, della famiglia.” E avanti col dire che dopo troppi mesi tutto sembra immutato, che, data l’assoluta mancanza di notizie certe, diventano logiche tutte le ipotesi più cupe (violenza, colluttazione, aggressione inconsulta), che non è questo il modo di difendere l’onore dei tutori dell’ordine, i quali, come in tutti i paesi del mondo, durante l’accertamento, avrebbero dovuto (Guida in testa) essere sospesi dalle loro funzioni. “Quello che non sembra accettabile,” egli conclude, “è che si continui così, senza che nulla accada come se si trattasse di una qualsiasi indagine preliminare per un furto di polli… L’opinione pubblica ha bisogno di sapere, non può acquietarsi di fronte all’apparente mistero, di fronte al silenzio, che sembra calare definitivamente sulla vicenda. Si vada dal giudice e si faccia presto nell’interesse di tutti.” Così Dall’Ora il 6 aprile ’70. (E Caizzi farà sapere ai giornali amici che è già arrivato alla fase conclusiva: poche settimane, forse un paio soltanto, e si sapranno i risultati.) È dell’8 aprile invece il documento presentato alla Procura della Repubblica di Milano da Carlo Smuraglia e Domenico Contestabile, i due avvocati che tutelano gli interessi della famiglia del morto. Un altro documento polemico in cui si accusa la Procura di sordità, immobilismo e scarsa iniziativa. Per quale mai ragione, per esempio, non viene permesso al collegio di difesa dei familiari Pinelli di costituirsi parte civile contro ignoti? E poi, una volta per sempre, la morte del Pinelli va considerata suicidio o defenestrazione?
Per tentare di stabilirlo, si chiamino sociologi, neurologi, psichiatri, capaci di indagare a fondo sulla personalità del ferroviere per cercare di capire se era o no un tipo votato all’autodistruzione. E si interroghino anche dei tecnici circa le modalità della caduta: nessuno si è mai preoccupato di misurare la distanza tra la finestra e il punto dove si trovava il Pinelli, né si è mai valutata la parabola di caduta in rapporto alla spinta che il corpo può aver ricevuto per impulso proprio o altrui. La difesa chiede inoltre di vedere gli atti dell’istruttoria, di potere andare sul posto a compiere tutti gli accertamenti necessari, di poter ricostruire il tragico evento con l’aiuto di un manichino dello stesso peso e statura del Pinelli (esperimento, questo, comune in America in casi analoghi). È vero, infine, che allegati agli atti ci sono i verbali di interrogatori firmati da Pinelli? Allora si sottoponga a perizia calligrafica la sua firma: è noto infatti che durante la famosa conferenza stampa del questore più di un teste sentì dire che gli interrogatori non erano stati verbalizzati.
Inutile quindi, continuano gli avvocati, che per negare la costituzione a parte civile la Procura si ostini a definire questa fase un’indagine preliminare di polizia giudiziaria, mentre è perlomeno un’istruttoria sommaria. Inutile anche rifiutare alla difesa la costituzione di parte civile contro ignoti, dal momento che si tratta di una prassi ammessa solitamente nei processi che non scottano. Nemmeno a farlo apposta, pochi giorni prima, uno dei due avvocati del collegio di difesa, precisamente il professor Carlo Smuraglia, s’era costituito parte civile contro ignoti in un processo addirittura finito con l’archiviazione.
Riprendendo lo scritto di Dall’Ora ci son altri che trovano assurda la stabilità dei funzionari di polizia protagonisti della notte fra il 15 e il 16 dicembre; che non siano stati almeno temporaneamente rimossi, che non abbiano sentito da soli il bisogno di uscir di scena a istruttoria in corso, finché sia fatta luce sul loro conto. (Procedimento seguito in altri casi, vedi l’allontanamento di quel funzionario responsabile a suo tempo di non aver ritirato il passaporto a Felice Riva, per non parlare del commissario Juliano sospeso dalla carica e dallo stipendio per aver troppo indagato sui fascisti.) Rieccoli invece tutti dov’erano, tutti in posti chiave da dove può essere anche possibile un’azione di inquinamento delle prove.
Saranno poi coincidenze, ma proprio in questa fase delicata vengono a galla certe grossolane iniziative della polizia. Alla sottile campagna di calunnie su Pinelli, ora si affianca una campagna parallela contro le sue donne. Viene interrogata una vicina di casa circa le abitudini della madre; pare che a un’altra vicina col figlio nei guai, attraverso una forma di disdicevole pressione, se ne prometta il proscioglimento se troverà qualche cosa da riferire contro le sue casigliane; cominciano a circolare inoltre delle insinuazioni sulla moralità della vedova.
Lo scopo? Sgretolare il mito della grave e animosa compagna dell’anarchico, e con ciò trovare un altro motivo per la sua svogliatezza di vivere: falliti gli ideali, saltati gli alibi, non c’è più nemmeno la famiglia che lo consoli, tanto vale finirla buttandosi dalla finestra. Ma son manovre a vuoto, perché di giorno in giorno sta prendendo addirittura valore di simbolo il contegno della vedova che, così schiva e coraggiosa, vuol far giustizia a ogni costo.
Ed ecco che finalmente il 20 aprile Calabresi esce (od è costretto a uscire) allo scoperto: si decide cioè a sporger querela per diffamazione contro Pio Baldelli, il direttore di “Lotta continua” (anzi “per diffamazione continuata ed aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato,” come a dire la defenestrazione di Pinelli), e in qualità di pubblico ufficiale è tenuto a dare ampia facoltà di prova.
È una querela che Balzelli si aspettava da tempo. Lui è incaricato di storia e critica del cinema all’Università di Firenze, e titolare della cattedra di teoria e tecnica delle comunicazioni di massa all’Accademia di Perugina, è biondo, alto, ha quarantatré anni, è diventato direttore di “Lotta Continua” quando Bellocchio vi dovette rinunciare. “Non m’importa di pagare di persona,” egli dichiara, “continuerò a firmare il giornale, e ad esserne il responsabile di fronte alla repressione.”
Basta che il commissario depositi la sua querela perché si ritorni a parlare con insistenza di una vicina se non imminente richiesta d’archiviazione dell’istruttoria da parte del PM: se così avvenisse, vuol dire che nessuno saprà mai cosa ha accertato il giudice, che la Procura della Repubblica non ritiene esistano elementi per procedere nell’istruttoria, che i1 PM avvalora la tesi del suicidio, che tutti quegli infiniti perché non troveranno mai risposta.
Può darsi che a dare un colpo d’acceleratore a questa decisione negativa sia proprio la querela sporta da Calabresi. Ed è abbastanza straordinario il fatto che, presentata il 15 aprile, a quasi un mese di distanza, la sua querela non sia ancora assegnata a nessun magistrato, ma continui a giacere sul tavolo del procuratore Enrico De Peppo, mentre tutti gli altri procedimenti che portano quella data sono stati da tempo assegnati al magistrato competente. Comunque una cosa è sicura: che “Lotta continua” cercherà di trasformare il processo per diffamazione in un’istruttoria pubblica sul caso Pinelli.
Come difensore Calabresi si sceglie l’eminente e costosissimo avvocato Michele Lener, che oltre ad aver difeso Felice Riva, l’ammiraglio Trizzino e Guareschi al tempo della querela di De Gasperi, al processo di Reggio Emilia ha difeso i poliziotti accusati di omicidio nei confronti di sette operai. Gli avvocati di Baldelli saranno invece Marcello Gentili, allievo di Pisapia e difensore dell’Isolotto” e Bianca Guidetti Serra, certo l’unica penalista donna a livello nazionale, che ha difeso alcuni imputati del processo Trimarchi, Bobbio e Viale del “Movimento studentesco” di Torino e Giorgio Bellocchio. Ambedue decisi a chiedere al tribunale di acquisire tutte le prove, di sentire tutti i testimoni, di elencare tutti gli clementi raccolti sulle circostanze relative al fermo e alla morte dell’anarchico, tentando così di chiarire, nei limiti del possibile, quanto in quella misteriosa notte di dicembre è avvenuto in questura. Proprio per questo processo, oltre che per tutti i processi politici in programma fra poco, in questo momento è teso e diviso l’ambiente di palazzo di giustizia.
Va poi notato che contro i numeri di “Lotta continua,” dal 14 gennaio in poi, esiste una quantità di altre denunce (sia da parte della questura di Torino, come da parte di quella di Milano; anche Allegra aveva presentato un esposto alla Procura per via di due numeri specialmente insolenti, ma è stato archiviato quasi subito), tutte affidate al sostituto procuratore, dottor Emilio Maria Guicciardi, un tipo di gentleman vagamente pomposo di origine valtellinese, buon sciatore di mezza età, il magistrato che ha rinviato a giudizio Bellocchio, noto anche perché quando non è in udienza, anche se sta nel suo studio a consultare documenti e a ricevere colleghi, è solito tenersi in testa il tocco nero col suo bel fiocco (teme le correnti d’aria, si saprà quando inizia il processo).
L’archiviazione, come si è detto, era nell’aria? Benissimo, il 21 maggio si materializza. È il PM dottor Caizzi a rompere i1 silenzio facendo sapere di aver chiesto l’archiviazione del caso “non ravvisando nei fatti gli estremi per un’azione penale,” e trasmette il fascicolo al giudice Amati.
Abbiamo detto che il ben ondulata PM è sornione di sguardo e di gesti? Non trova di meglio infatti che ricorrere a un trucchetto che però funziona: rende infatti nota la sua decisione il primo giorno di un lungo sciopero dei giornali, una bella settimana di silenzio della stampa di consumo quotidiano e così la decisione non la pubblica, non ha echi non fa clamore: finché, a sciopero ultimato, uscirà una notarella sbiadita, cinque righe al massimo per una notizia stantia, non più di attualità. Lo sciopero finisce, i malpensanti digeriscono la notizia senza far commenti o con un sospiro di sollievo: “be’, almeno non si sentirà più parlare di questa faccenda…”; quanto ai meglio orientati, si pensa che son stati lasciati all’oscuro un periodo di tempo sufficiente perché le loro reazioni risultino attutite.
Ma i giornali di sinistra cominciano a sparare la loro indignazione (“un epilogo, se la richiesta verrà accettata, scandaloso e inaccettabile, come le premesse e gli sviluppi dell’intero caso. Diciamolo pure: una bancarotta per la giustizia e le stesse forze dell’ordine”). E perfino il tiepido “Il Mondo,” che finora su questo quadrante non si è mai impegnato, accoglie un’intervista col bollente e inascoltato Dall’Ora. È avvenuto precisamente quello che lui temeva e che pochi giorni prima aveva scongiurato che non avvenisse.
“Sembra incredibile,” egli dichiara, “che in una città come Milano un individuo muoia nel cortile della questura, mentre avrebbe diritto al massimo della tutela, proprio perché il `fermato’ appartiene alla giustizia ed è in un certo senso un uomo pubblico. A questo punto non si potrà mai sapere perché Pinelli sia morto. Se le ricerche son durate tutti questi mesi, vuol dire che si trattava di indagini complesse: e quindi era il caso di aprire un’istruttoria formale.” E critica l’istruttoria e l’atteggiamento del PM che “avrebbe dovuta valutare l’opportunità di fare un processo, quanto più possibile alla luce del sole, e trasmettere gli atti al giudice istruttore.”
Alla domanda “se data la disparità nei tempi e nei modi seguiti nel caso Pinelli è possibile che siano intervenute preoccupazioni di carattere politico,” Dall’Ora risponde: “Il sospetto che nasce è che, più o meno consciamente, ci sia stata una tendenza ad evitare, come fatto sommamente inopportuno, che un ufficiale di polizia giudiziaria fosse in qualche modo coinvolto nella vicenda. Ora, questo è proprio il modo più efficace per incrementare i sospetti, e, certamente, il peggiore per tutelare l’onore e il prestigio della polizia giudiziaria.”
Mette in dubbio inoltre l’ipotesi, del suicidio, ribadisce che in Italia “il rapporto cittadino-giustizia/cittadino-polizia è da molto tempo un rapporto di sfiducia. Da una parte, il cittadino interpreta in maniera negativa il comportamento dell’autorità; dall’altra, il comportamento dell’ autorità pare fatto apposta per essere interpretato in maniera negativa. E allora si instaura fatalmente una relazione che assomiglia non tanto a quella che intercorre normalmente tra il cittadino e lo stato in un regime di diritto, ma a quella che intercorre tra il suddito e il potente… Ci si dovrebbe preoccupare sempre di evitare anche i sospetti infondati, di evitare perfino che i sospetti nascano. II sospetto, di per sé, è già un male.” La signora Pinelli parla poco, dice soltanto: “Caizzi non ha avuto coraggio.”
Insomma le ombre si moltiplicano con la richiesta d’archiviazione, “il caso Pinelli diventa un simbolo emblematico della crisi della giustizia e dell’intera società italiana,” dichiarano gli avvocati Smuraglia e Contestabile, che “si riservano comunque di battersi con ogni mezzo e con ogni strumento perché piena luce sia fatta sul drammatico episodio e sia data una risposta veramente seria all’opinione pubblica, ai cui pressanti interrogativi non è pensabile di poter rispondere con un provvedimento di trasmissione degli atti d’archiviazione.”
Con la bella pensata di Caizzi non si fa che rinfocolare dunque tutti i dubbi e gli inquietanti perché del caso, tanto si dà già per scontata la decisione del capo dei giudici istruttori, dottor Antonio Amati, responsabile della montatura organizzata ai danni di Braschi, Faccioli, Pulsinelli e Della Savia, e dell’insensata istruttoria dove sono ascoltati quasi con reverenza dei testimoni fabbricati dalla polizia. Così finisce nel “cimitero della giustizia” quello che è giustamente considerato uno dei casi giudiziari più torbidi e misteriosi degli ultimi anni.
Milano è tesa di nuovo, la campagna elettorale si sta svolgendo in un clima difficile. Sui muri della città ogni mattina appaiono nuove scritte che accusano la polizia e difendono Pinelli e Valpreda, anzi le targhe stradali in via Brera sono state cambiate: da una parte si legge “via Pinelli” e dall’altra: “via Valpreda”. Gli anarchici sono in agitazione e confessano agli amici di sentirsi isolati come in un ghetto. Anche una loro manifestazione, sciolta dalla polizia la sera del 23 maggio, è stata quasi un segno di patetica impotenza. Una manifestazione ch’era venuta dopo un affollatissimo dibattito di politici, avvocati e giornalisti riunitisi in massa nel pomeriggio di quel giorno al circolo Turati.
Presentando gli oratori, Carlo Ripa di Meana aveva cominciato col dire che “per noi il caso Pinelli non sarà mai archiviato: in un caso così non sono possibili il silenzio e l’oblio.” Poi era stato Ferruccio Parri ad aprire la discussione, sottolineando il fatto che, in coincidenza con le bombe del dicembre, è stata immediatamente costruita una verità ufficiale e ormai molto difficile da sgretolare, senza coinvolgere chi sta troppo in alto. “La magistratura insiste per la costruzione di una verità giudiziaria che salvi la polizia, perché la polizia è lo stato. Se si sgretola la polizia si sgretola lo stato che sta a Roma, coi suoi prefetti e coi suoi ministri, lo stato che ha funzione centrale, piramidale e figurarsi cosa succede se crolla.”
Mentre Corrado Stajano tra l’altro racconta come di recente ad Atene egli abbia cercato di incontrare Zerzetakis, il giudice istruttore che ha fatto luce sull’omicidio di Lambrakis e di cui si parla nel film “Z” Espulso dalla magistratura, oggi egli vive poveramente alla periferia della città. “Ebbene,” ha concluso il giornalista, “per ora in Italia ai magistrati aver coraggio costa molto meno.” Dopo un intervento dell’avvocato Luca Boneschi, che ricostruiva in chiave politica le innumerevoli contraddizioni della magistratura e della polizia applicate al caso Valpreda-Pinelli – una sequela di dati così incredibili da diventare sconvolgenti e che portano a due conclusioni: il non-suicidio di Pinelli e l’innocenza di Valpreda – aveva infine preso la parola l’avvocato Marcello Gentili, quello che difenderà Baldelli nel processo intentatogli da Calabresi. Messe subito in discussione le dichiarazioni del PM Caizzi, che all’atto di richiesta archiviazione ha definito la morte di Pinelli “un fatto del tutto accidentale” (“se la lingua italiana ha un senso,” ha sottolineato Gentili, “ciò significa che suicidio non c’è stato”), Gentili ha quindi proseguito dicendo che se Pinelli è morto, la prima volta in questura e la seconda con l’archiviazione, ora non deve morire per la terza volta. Cioè deve venir celebrato davanti ai giudici e al popolo il processo “Calabresi-Lotta continua,” perché almeno in questa occasione la gente possa sapere e giudicare.
Sono i giorni in cui, recandosi al lavoro, la vedova Pinelli trova i muri della metropolitana tappezzati con una fotografia fino allora inedita del marito. La sua testa avvolta nelle bende, e, sotto, il viso martoriato, chiazzato, graffiato. Una fotografia tremenda ma non agghiacciante. In quel viso c’è infatti qualcosa di composto e solenne, perché è come l’immagine di un martire, morto in nome di un ideale, che chiede giustizia.
Se, come è opinione corrente, il consigliere Amati depositerà il decreto d’archiviazione sul caso Pinelli, troverà anche lui un modo di far scivolar via la notizia in giorni morti, durante un lungo “ponte,” o in un’altra giornata di sciopero dei poligrafici, o addirittura quando gli italiani saranno distratti, immersi in quel grande mito contemporaneo che sono le vacanze? Probabilissimo, dicono gli scettici, staremo a vedere. Quasi certo, afferma la signora Licia, che vedo ogni tanto, una presenza perfino consolante, dato il suo lucido rigore, la sua dignità senza uguale, il sorriso spesso ironico, l’osservazione pertinente.
E gli scettici ci azzeccano: Amati trova anche lui il giorno più adatto per depositare il suo decreto d’archiviazione. Lo deposita infatti la sera di venerdì 3 luglio senza comunicare la notizia alla stampa, e così il sabato si evita il grosso titolo sui giornali (forse a fine settimana la gente parla di più?). Nessun resoconto neppure all’indomani, domenica, perché per fortunata combinazione, che è sempre la stessa, anche questo avvenimento lo si fa coincidere con lo sciopero dei poligrafici, e sabato 4 nel palazzo di giustizia non si trova nessun giornalista. I pessimisti avevano ragione: nelle cinquantacinque pagine di Amati non si fa che riportare gli accertamenti fati dal sostituto procuratore Caizzi; e questo, secondo lui, equivale a renderli pubblici; ma può anche significare che con ciò egli ha voluto evitare di pubblicare i testi originali con le loro contraddizioni e incertezze. Comunque anche lui sostiene che non esistono estremi per promuovere l’azione penale; ma dà anche per certo che Pinelli si é gettato dalla finestra, dopo aver saputo che Valpreda era stato arrestato. Sebbene scontato dai più, il decreto d’archiviazione rimane un fatto gravissimo. Vuol dire che la magistratura non intende nemmeno accertare quel modesto reato costituito dal comportamento colposo di chi aveva il dovere di sorvegliare Giuseppe Pinelli, un nulla in confronto a1 mistero della sua morte. Invece dà una mano alla questura e aiuta un bel po’ il Calabresi.
“Così, concludendo, ritiene in coscienza il giudice istruttore, che egli abbia potuto fare piena luce sul caso Pinelli e diradare quei dubbi e quei sospetti che il gruppo degli avvocati del PSI affermava e nutriva unitamente a tanta buona gente del popolo italiano…” Sono queste le tranquillizzanti parole con cui il consigliere Amati suggella l’ultima parte del suo fascicolo pronto per essere sepolto in archivio e, naturalmente, non si accorge che a lettura finita questa sua frase suona come la boutade di una farsa, la frase conclusiva di un protagonista che dell’intreccio ha capito ben poco. Basta scorrerlo anche in fretta, questo grigio fascicoletto, e una cosa salta subito agli occhi: non dirada i dubbi ma, come tutto quello che viene dall’alto in questa vicenda, invece di far luce, moltiplica le ombre e aumenta il buio e l’incertezza, mentre si aggroviglia la matassa, si infittiscono i nodi, saltano le maglie fra trama e ordito, si fa inestricabile la giungla delle contraddizioni, e continua a rimanere più che perplessa “tanta buona gente del popolo italiano.” (Nuova definizione dell’opinione pubblica.)
Non fa che convalidare infatti la tesi della polizia basandosi quasi esclusivamente sulla deposizione dei suoi funzionari; e la prima impressione, ma molto viva, che se ne ricava, è quella di leggere una comparsa, cioè uno scritto difensivo, contro il quale la più immediata reazione è il durissimo comunicato dell’indomani, a cura degli avvocati del Comitato di difesa e di lotta contro la repressione.
A parte il linguaggio gonfio e antiquato, a parte quel pomposo parlare curiale in terza persona, a parte che i testimoni a favore (Mario Magni e Mario Pozzi, i due che convalidarono l’alibi del Pinelli), si tende già a presentarli poco credibili in quanto “invalidi” o “vecchi pensionati, malfermi in salute” (come se i testimoni a favore dovessero essere soltanto giovani e sportivi), il documento trabocca di particolari saltati fuori soltanto adesso, mentre in alcune parti è gravemente lacunoso, in altre straripa di contraddizioni, inverosimiglianze, contrasti interni, goffi saltafossi.
E, a leggerlo, si prova un sentimento di pena profonda, di amaro sgomento. Se è vera infatti la teoria sostenuta qua dentro secondo la quale Pinelli si è tolto volontariamente la vita, da ogni riga risulta che è stato proprio il gioco crudele e ricattatorio dei funzionari di polizia a portarlo al malaugurato cedimento, cioè la loro sinistra insistenza nel dirgli una sequela di bugie intimidatorie. Questa anche la conclusione del giudice Amati che, disposto a riconoscere nel Pinelli un tipo ragionevole e mite, e nei suoi inquisitori la determinazione ad emettere notizie false e inventate lì per lì, finisce invece col condannare l’uno ed assolvere gli altri.
Ecco dunque le maggiori lacune. Silenzio sul fatto che Pinelli era stato fermato illegalmente e illegalmente trattenuto in questura dopo che i termini massimi del fermo erano largamente scaduti; nessun appunto ai metodi della polizia che intimidisce gli interrogati con accuse subdole, false e diffamatorie. Silenzio totale sulle dichiarazioni del questore Guida che smantellano l’intero documento, non smentite né da Allegra né da Calabresi.
Mancano poi nel decreto d’archiviazione alcuni importanti pezzi dell’istruttoria: tanto la parte della perizia che riguarda le mani intatte e quindi contrasta col salto volontario, come tutta la ricostruzione dinamica della caduta, duale il nesso di casualità fra le lesioni riportate e il tipo di tonfo dall’alto. Totale anche l’assenza dei documenti sequestrati alla Croce Bianca sull’orario della chiamata dell’autoambulauza, benché il lettighiere Peralda nel decreto dichiari d’esser stato sollecitato (precisamente dai vigili avvisati dai carabinieri a loro volta chiamati dalla questura) tra le 23,56 e le 23,58 (quando dai cronisti presenti e quindi dai giornali risulta che il volo è avvenuto qualche minuto dopo mezzanotte). Né Amati ha sentito il bisogno di interrogare chi materialmente eseguì la chiamata. Terzo buco: mancano il verbale di sopralluogo e il confronto tra Calabresi e Valitutti che figuravano invece nell’istruttoria Caizzi. Calabresi che dice d’esser uscito dalla stanza poco prima che Pinelli si gettasse, Valitutti che invece non lo vede passare, e sente uscir di là rumor di sedie smosse e di colluttazione, Calabresi che subito dopo gli dice: “Non capisco perché l’abbia fatto, lo stavamo interrogando scherzosamente su Valpreda.”
Molte e variate le novità. Per esempio Pinelli che a sentir l’autista di Calabresi, tale Oronzo Perrone, tenta già di uccidersi il giorno prima. (“Voleva aprire un po’ la finestra per via del fumo e nello stesso tempo di scatto si è slanciato verso questa cercando di aprirla. Io mi sono un po’ spaventato e l’ho bloccato, dicendogli che l’avrei aperta io come ho fatto.”) Ma è un tentativo di suicidio o soltanto un’impressione di Oronzo? E perché questo episodio non è stato raccontato subito per avvalorare il salto volontario? Se no da allora perché non hanno raddoppiato la sorveglianza? E soprattutto, se è vero questo primo tentativo, dove va a finire la tesi del subitaneo raptus? Clamorosa marcia indietro quindi circa le dichiarazioni caparbiamente rilasciate ad ogni livello di questurini e ad ogni persona che chiedesse (compreso il medico del Pronto Soccorso) dal 15 dicembre in poi: circa mezzanotte l’ora, l’ufficio di Calabresi il luogo, “Valpreda ha parlato!” l’annuncio di Calabresi, “È la fine dell’anarchia!” la risposta di Pinelli che “con uno scatto felino” si slancia dalla finestra.
Perché adesso, alla distanza di sei mesi, il luogo e l’orario non son più gli stessi. In questo documento infatti, come se niente fosse, Calabresi dichiara che la frase su Valpreda, cioè quel trucco poliziesco di sapore fumettistico grossolano e scoperto, lui l’ha detta a Pinelli verso le otto; che, sentendola, Pinelli si turba ed esce in quella tale esclamazione ma non si butta a capofitto (sono appena le otto), e si riprende per raccontare i suoi non buoni rapporti col ballerino, così il suo raptus avverrà a scoppio ritardato.
Mentre poi il brigadiere Vito Panessa, campione nel dir le cose sbagliate nel momento sbagliato, ripeterà ad Amati la primitiva versione corale (è mezzanotte, Calabresi dice la sua bugia, Pinelli grida la sua delusione saltando dalla finestra e Panessa si sforza invano di trattenerlo), quindi, in una successiva deposizione sempre dello stesso giorno, dirà quella che hanno detto gli altri ma, avendo capito poco le indispensabili istruzioni d’emergenza, interrogato per la terza volta si esprimerà in modo sibillino, come dire: “Ho fatto sì certe ammissioni, naturalmente le confermo, però adesso le cambio.”
Il perché di questa retrocessione dell’ora sottolineata anche dal brigadiere Caracuta, sulle prime non si riesce ad afferrare. (Andava così bene quel nome di dinamitardo buttato là, verso mezzanotte, e quella tremenda delusione che spinge al gran salto.) Ma basta riflettere un attimo e tutto si fa chiaro. Siccome la frase sarebbe stata detta in seguito a una contestazione, e siccome la contestazione non poteva farla che Calabresi, se di mezzanotte e del suo ufficio si tratta, lui rimane inchiodato sulla scena, a un passo dalla finestra, e al preciso momento del salto; circostanza dalla quale ora decisamente rifugge. (Specialmente da quando in questura si è diffusa la voce che i fermati lo chiamavano familiarmente “comm. Finestra.”)
Quale allora, secondo Amati, la determinante del suicidio di Pinelli, se non è la falsa dichiarazione su Valpreda? È un altro ingiustificato saltafosso, questa volta ad opera del capo dell’ufficio politico, Antonino Allegra. “Io sono intervenuto solo dopo le 23,” egli dice esprimendosi in un linguaggio che non brilla per finezza, “quando entrai nell’ufficio di Calabresi, dissi al Pinelli: `Lei ci ha preso per il sedere,’ ” intendendo con questo che l’anarchico gli aveva mentito dichiarandosi estraneo agli attentati della fine del ’68. Gli chiese inoltre quanti fossero a Milano i ferrovieri anarchici, e quando Pinelli rispose che lui era il solo, “sulle basi di una notizia confidenziale,” Allegra concluse: “Allora è stato lei a mettere le bombe alla stazione centrale.” Sorriso di Pinelli, codicillo di Allegra: “Stia tranquillo che le porterò le prove” (in base certamente a un’altra soffiata), quindi uscita di Allegra e, chi sa perché, tonfo di Pinelli.
Si sorvoli ora sul contrasto fra questa deposizione e le dichiarazioni del questore Guida nella notte fatale, tra la sua affermazione: “naturalmente non si è verbalizzato niente” (detta anche all’on. Malagugini) e quei tre verbali che compaiono oggi, due dei quali firmati dal Pinelli; e poi quell’altra contraddizione interna che riguarda la finestra socchiusa per un attimo (prima versione), e socchiusa da due ore (“per permettere il cambio dell’aria,” dice oggi Calabresi), per arrivare alle motivazioni che Amati dà del suicidio.
Certo in preda a “chok intimo” (scritto proprio così) per la falsa confessione del Valpreda (ma, veterano in fatto di interrogatori in questura, Pinelli ormai conosceva bene Calabresi e i suoi metodi); per il crollo del suo alibi (che non era crollato); per l’accusa fattagli da Allegra e da lui accolta sorridendo (“quando mai si era parlato di una responsabilità di Pinelli nel caso della complicata e lunga istruttoria contro gli attuali detenuti?” si chiede piccato il giudice Amati che ha condotto così brillantemente l’istruttoria permettendosi di criticare l’inframmettenza del capo della Politica); per l’angoscioso timore di perdere la stima dei superiori perché proprio lui ferroviere mette le bombe alle ferrovie (ma se non si è mai sognato di metterle!); e per quell’altra grossa paura di perdere il posto (timore caso mai originato dalla bugia che gli aveva fatto dire Calabresi secondo la quale in quei giorni al lavoro non ci andava perché malato in un primo tempo, perché fermato in questura in un secondo); allora, “dopo l’uscita del dottor Calabresi, valutato il pro e il contro della sua posizione, decise di farla finita.” (Ma quali pro e contro?)
Queste tutte le cause sussiegosamente prodotte da Amati come se fossero vere. (Il sugo è invece: “Pinelli si è ucciso perché si è ucciso.”) Né qui si elencano, per un senso di rispetto verso chi in circostanze così oscure e nel fiore degli anni ha perso la vita, tutte le nozioni di psicologia spicciola e di psicanalisi da fumetto di cui fa sfoggio il giudice, ricorrendo a testi italiani e francesi, pubblicati da studiosi che conosce soltanto lui, intorno al 1928 o ’32, per spiegare una volta di più il suicidio di Pinelli. Tutto un susseguirsi di “come annota il De Fleury, così aggiunge l′Altavilla e sottolinea anche il Brissaud,” tutto uno studio approssimativo che, elencando i vari tipi di persone che hanno tentato il suicidio e rinchiuse nei manicomi, distingue fra suicidio ed idea fissa, suicidio ossessivo e suicidio impulsivo ed automatico. Per decidere che forse Pinelli apparteneva a chi questo atto lo compie “nell’indifferenza sorridente dell’impulsivo.” (“Questi deve essere spesso assicurato perfino con collare, per evitare che si morda, mentre non rileva alcuna sofferenza; eppure, lasciato libero, può spaccarsi improvvisamente il cranio o lanciarsi dall’alto, quasi che una furia distruttrice ghermisse od azionasse, alla sua insaputa, i suoi muscoli. Il suo gesto non germina quindi dal delirio,
perché è il logico prodotto di un motivo irreale, ma è la espressione di una scarica nervosa motoria, che dissocia il movimento da ogni elemento di coscienza.”) Dunque, per chi non lo sapeva né poteva immaginarselo, secondo Amati, il gesto di Pinelli non è germinato dal delirio, ma la furia distruttrice ha ghermito i suoi muscoli.


Segue sotto... 

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