lunedì 29 ottobre 2012

Giuseppe Pinelli Part. 1



Mezzanotte è passata da poco, ma è difficile dormire bene dopo una giornata come quella del 15 dicembre 1969, dopo il funerale delle vittime della Banca dell’Agricoltura. Come se tutta quell’angoscia fosse entrata nelle ossa insieme a una nebbia mai vista che rendeva bassissimo il cielo e nero il mezzogiorno. E con ancora nelle orecchie l’eco dei singhiozzi delle famiglie mentre il coro delle voci bianche in Duomo pregava Dio di aprire le porte del cielo ai loro parenti straziati. Poi quel silenzio compatto, monumentale, che aveva salutato le bare sul sagrato, quei grappoli oscuri di gente ai balconi e alle finestre, quel tappeto di folla immobile e buia nel buio che copriva tutta la città paralizzata, una quantità di gente venuta da lontano a circondare il Duomo, visi chiusi, espressioni sgomente, un dolore unanime e una tensione quasi fisicamente percepibili.
Cinque ore in Duomo in piedi a un banco per meglio vedere e sentire, un’ora in giro dopo, a casa a scrivere uno degli articoli più difficili di una lunga carriera (dovevo cominciare dalle bombe del 12, da tutto quel sangue, i rottami, i carabinieri che svengono, il sindaco che esce dalla banca col viso color terra, i parenti che vengono portati via piegati in due con la faccia tra le mani, i racconti degli scampati, il volo dei corpi mutilati sotto la cupola del salone, ecco la guerra, i bombardamenti, il caos, il massacro, il macello, ecco l’odor di guerra, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di zolfo). E adesso a letto col sonno che non arriva.
Arriva invece una telefonata. “Sei già a letto? Non importa. Fra cinque minuti davanti al tuo cancello.” “Perché?” “Un uomo si é buttato da una finestra della questura, non farci aspettare, andiamo a dare un’occhiata.” Sono due amici coi quali ho sempre corso in questi giorni, Corrado Stajano e Giampaolo Pansa, hanno la faccia e i modi di questi giorni, gesti frettolosi, rabbia e dolore negli occhi.
Via di corsa al Fatebenefratelli dove è stato trasportato il morente: nell’atrio c’è un gruppetto di poliziotti. Curiosa come sempre, guardando davanti a me come se qualcuno mi aspettasse con ansia, mi dirigo verso le stanzette del Pronto Soccorso. Mi imbatto in poliziotti in borghese, riesco a vedere i piedi di un uomo disteso su un lettino, mi viene incontro il medico capoturno (saprò dopo che è Nazzareno Fiorenzano).
Prima che alle mie spalle un giornalista concorrente faccia segno a un agente di non lasciarmi passare, il medico mi dà notizie del nuovo arrivato. “Niente più attività cardiaca apprezzabile, polso assente, lesioni addominali paurose, una serie di tagli alla testa. Abbiamo tentato di tutto, ma non c’è niente da fare, durerà poco.” Fa a tempo a chiedermi se so chi è quest’uomo con la barbetta che è stato accompagnato all’ospedale da una scorta imponente della questura, dirigenti in testa e anche carabinieri, perché a lui, nonostante l’avesse chiesto più d’una volta, non avevano voluto rispondere. “È un anarchico,” gli dico, “si chiama Giuseppe Pinelli,” l’ho saputo un minuto prima, senza rendermi conto naturalmente che sarebbe diventato per me un nome dei più familiari, che di lì a pochi mesi mi sembrerà d’averlo conosciuto da sempre, lui, i suoi sogni, la sua generosità leggendaria, la sua sete di sapere, la sua voglia di vivere, le sue bambine, la moglie Licia che un po’ l’ammira e un po’ lo prende in giro.
E adesso come non correre a casa sua a parlare con la moglie? Via Preneste 2, una casa popolare, una povera scala: e già due cronisti del “Corriere” che la scendono in fretta. Sono stati loro ad avvertire la signora Pinelli che suo marito si è gettato dalla finestra. E noi siamo lì subito dopo, io almeno con quel senso di vergogna che prende un giornalista quando entra nella casa del dolore, a tendere il collo sopra il taccuino, a far domande alle volte anche crudeli a chi piange. Ma Licia Pinelli non piange, ed è per questo che fa più impressione: è lì tutta dritta nella sua vestaglietta rosa dal collettino ricamato, con un bel viso grigio di pallore e gli occhi intenti che han sotto un alone scuro. Parla piano per non svegliare le bambine, ma, decisa a non lasciarci entrare, socchiude appena la porta, e sta lì ben piantata in quella fessura, a difendere la sua casa.
La sua voce è ferma, senza incrinature: il marito lei non lo vede dal pomeriggio del 12, da quando, dopo aver dormito fino a mezzogiorno e dopo aver fatto da mangiare era uscito a prendere la tredicesima. Lei sa che poi era andato alla sede del Movimento anarchico, sa che ha seguito i poliziotti in questura, lui le ha telefonato due volte al giorno per dirle di star tranquilla, tanto è abituato a questi incontri; e hanno fatto anche una perquisizione in casa, bisognava vedere com’erano spaventati i poliziotti da tutti quei libri: avevan finito col portare via qualche documento e delle lettere personali. Certo che non è per la violenza, è partigiano della fratellanza universale, lui vuole soltanto una società più umana. Le hanno detto soltanto che si è buttato, non le hanno detto ancora che è morto: mentre parliamo, passa tra noi e la porta una vecchietta dagli occhi rossi e il fazzoletto nero in testa: è la madre di Pinelli che corre all’ospedale.
Ed è ora per noi di andarcene: ce lo fa capire senza dircelo la signora Licia, la cui dignità, non solo fisica, colpisce soprattutto i due uomini. La notte però non è finita se non si fa un salto in questura.
In fondo al cortile a sinistra, sotto un grande arbusto dai rami spogli (e qualcuno è a terra spezzato), tra una palma e un abete, c’è ancora un’umida macchia, quasi un’oscura impronta della recente caduta: ma non c’è bisogno di passar di là per raggiungere lo studio del questore Marcello Guida: sta al primo piano nel corpo anteriore di quello che è stato una volta il mio liceo, è proprio dove c’era l’ufficio del preside, e qualche volta, in tempi ormai molto lontani, in occasione di un sette in condotta per un’indisciplina flagrante, ero stata chiamata in quella stanza da un vecchio accigliato per un rimbrotto severo.
Tutta diversa l’atmosfera di questa notte: aspettiamo qualche minuto che esca un uomo dall’aspetto stravolto (è l’on. Malagugini, corso a parlare con le autorità a pochi minuti dal fatto): e siamo ricevuti con gentilezza insieme a chi aspettava con noi, la giornalista Renata Bottarelli dell’ “Unità,” il giornalista Giampietro Testa del “Giorno.” Comode le poltrone, spesse le tende, giustamente decorativi i quadri Ottocento alle pareti, belle verdi le piante negli angoli, un’atmosfera rilassata, anzi quasi euforica, come se niente di così terribile fosse successo da poco a pochi metri di là, o come se quello che era successo avesse finalmente sciolto un difficile nodo; e un bel sorriso sul volto roseo del questore che, vestito di grigio e cravatta azzurra come i suoi occhi, ci viene incontro tendendo la mano. “La signora Cederna?” mi fa. “Sono contento di conoscerla, la leggo sempre, le dirò anzi che sono un suo ammiratore, che mi diverto a leggere i suoi articoli” (certamente non immaginando come di lì a poco e per due anni almeno i miei articoli l’avrebbero reso furioso), quindi con un gesto di cordiale benvenuto (“vuol fumare? Le dà fastidio il fumo? Vuol che apriamo la finestra? Per carità, allora fumiamo noi…”) mi fa sedere in poltrona. Mi sforzo di guardare tutto, di non perdere un particolare, un tono di voce; non so come, ma sento che è una notte importante, una circostanza che certo avrà un seguito.
Alla destra della poltrona del questore c’è la bandiera, alla sua sinistra stanno schierati gli altri funzionari, il capo dell’ufficio politico Antonino Allegra, il commissario Luigi Calabresi con uno dei suoi pullover di cashemire chiaro dal collo alto che fanno di lui, se non l’uomo più elegante, almeno il più moderno della questura. Una scena che non dimenticherò mai, un salotto in cui mancava appena che venisse offerto un bicchiere di whisky, un tono leggero e mondano, appena incrinato da un’altra presenza: da quel tenente dei carabinieri in uniforme che stando un po’ in disparte ogni tanto se ne andava su e giù sullo sfondo, ed era il tenente Savino Lo Grano, l’unico a parere, ad alcuni di noi, inquieto e turbato.
Il questore Guida non l’avevo mai visto: all’una e mezza di notte e in quel salotto mi parve l’immagine del gentiluomo napoletano di vecchio stampo, di piglio garbato e di eloquio condiscendente, né ancora sapevo che nel ’42 aveva diretto il confino politico di Ventotene. Il dottor Allegra l’avevo conosciuto a una conferenza stampa il 26 aprile dopo gli attentati alla Fiera e alla stazione, con un cartoccio in mano, e dentro del filo metallico, una specie di rocchetto e una rotellina da mostrare ai giornalisti, la prova, secondo lui, insieme a un disegno incomprensibile, che gli attentati erano “quasi sicuramente di matrice anarchica.” Di Calabresi sapevo che sulla mia agenda degli indirizzi figurava tra i vari funzionari di questura e, tra parentesi, avevo scritto quello che mi aveva suggerito un amico, cioè “intellettuale” (quello che leggeva, che stava al corrente).
Che non fosse un intellettuale me n’ero dovuta però accorgere per la prima volta un paio di mesi prima. Infatti, quando in occasione di un articolo sull’ordinanza del consigliere istruttore Antonio Amati che respingeva le istanze di scarcerazione di cinque anarchici detenuti da cinque mesi per gli attentati del 25 aprile (con una motivazione che sarebbe piaciuta a Ferravilla: “Perché risultavano prove evidenti, prove certe essendo state raggiunte”), proprio allora l’avevo visto in azione.
Per ben due volte in settembre (un giorno in occasione di una manifestazione di anarchici che protestavano contro la reclusione dei loro compagni, un altro giorno durante uno sciopero della fame fatto sempre davanti al palazzo di giustizia per solidarietà coi detenuti), sui dimostranti avevo visto abbattersi a ondate successive gruppetti di funzionari di questura. Con scatto deciso e cupa eccitazione, a più riprese i questurini eran balzati fuori dalla 1100 blu a strappare i cartelli, a minacciare i dimostranti, infine a malmenarli con durezza. Sempre di corsa e in composizione alterna erano cinque uomini fra cui i commissari Pagnozzi e Zagari, il vicequestore Luigi Vittoria, e il più ginnasticato ed elastico di tutti, precisamente il bruno Calabresi, dal ciuffo denso e il colletto dolcevita. (Di qui la denuncia alla Procura contro di loro per attentato ai diritti politici dei cittadini; e l’avevano firmata, oltre a dei passanti esasperati, anche alcuni avvocati del Comitato di difesa e di lotta contro la repressione.)
Ed eccolo, il Calabresi, nello studio del questore, la notte dal 15 al 16 dicembre, che annuisce gravemente a quel che dice il suo superiore. “Cos’è successo, chi era il Pinelli, perché si è buttato?” le domande dei giornalisti. E il questore: “Era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato… non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa insomma…” (queste le frasi scritte sul mio taccuino). “Era fermato o arrestato?” chiede uno di noi. “Il suo era un fermo di polizia prorogato dall’autorità.” Alla domanda sul perché, con quel freddo, la finestra fosse aperta, aveva risposto: “Per via del fumo. Fumavano tutti, fumava anche lui.”
Al momento della domanda sull’identità del personaggio era stato Allegra a rispondere: “Lo conoscevamo da tempo, era stato interrogato anche per gli attentati del 25 aprile. Era un esponente anarchico, responsabile del Circolo della Ghisolfa.” E qui era intervenuto il Calabresi con la sua voce bassa e ovattata: “Lo credevamo incapace di violenze, invece… è risultato collegato a persone sospette… le sue erano implicazioni politiche…” Parla con calma, quasi con ponderazione, nessuno lo direbbe il funzionario che un’ora prima, quando Licia Pinelli gli aveva telefonato per chiedergli se era vero che suo marito era caduto dalla finestra, e perché non l’avesse avvisata, non aveva trovato altro da dire: “Ma sa, signora… abbiamo molto da fare.”
Alla domanda finale sul come fosse avvenuto il salto, riprese a parlare il questore: “Gli si è detto che erano successe alcune cose. Gli è stato fatto il nome di una certa persona. Eravamo in fase di contestazione di indizi. Evidentemente a un certo punto si è trovato come incastrato. Allora è crollato psicologicamente. Non ha retto… Non è stato verbalizzato niente” (sempre dal mio taccuino).
Il colloquio è finito, la notte è cupa e freddissima, non c’è una persona in giro, ognuno di noi è perplesso, scosso, scontento, e naturalmente non ha sonno. Quelli dei quotidiani corrono ai loro giornali, io torno a letto in stato di confusa stanchezza, continuando a ripensare a quanto ci hanno detto questi signori tranquilli, a chiedermi cosa mai ci potesse esser dietro la loro mimica e i loro sorrisi, la loro disinvoltura quasi salottiera: rivedo Licia Pinelli, tragicamente impavida sulla soglia di casa, mi ricordo di altri caduti dalle finestre della questura durante un interrogatorio (uno in Venezuela, un altro in Grecia, mi pare, e poi il comunista spagnolo Grimau), e al mattino rimetto insieme i brandelli di un sogno, che formano un preciso ricordo, quel che era capitato alla mia zia Bice, all’indomani della Liberazione.
Aveva passato una notte in questura, in seguito alla fuga di un uomo da casa sua (più precisamente dalla metà dell’appartamento che le era stato sequestrato durante la guerra per far posto agli sfollati, e a lei era toccato un fascista di Savona). Della fuga lei non sapeva niente perché quel tale aveva il suo ingresso particolare, ma l’avevano portata lo stesso in questura. E nello stanzone dei fermati, dato il suo aspetto tranquillo e dabbene, le si era avvicinato un tipo spaventato a chiederle aiuto, dandole anche nome e indirizzo perché in caso di disgrazia per favore avvertisse sua moglie. In breve: l’avevano preso a caso per l’uccisione di un inglese, alle sue proteste d’innocenza non avevano creduto; comunque, attardandosi un momento fuori dalla stanzetta dell’interrogatorio, aveva sentito i due agenti parlottare fra loro: “Be’, facciamo così: quando stasera andrà al gabinetto, lo buttiamo giù dalla finestra.” Perciò aveva passato una notte quasi avvinto al braccio di mia zia; con rabbia degli agenti, all’intimazione di andare al gabinetto, aveva risposto che non ne aveva alcun bisogno. Finché al mattino, all’arrivo del giovane questore in carica da poche ore (di nome Rossi), la zia Bice aveva insistito perché il giovanotto allarmato gli raccontasse ogni cosa. Un paio di giorni dopo gli aveva telefonato: era tornato felicemente a casa, ma ancora in preda allo choc.
Sui giornali del mattino, appare la versione della questura. Pinelli si è gettato intorno alle 23,50. “Nell’ultimo interrogatorio il dottor Calabresi gli aveva rivolto contestazioni piuttosto precise e lui si era sbiancato in volto. Allora il commissario se n’era andato per riferire ad Allegra, e, nonostante i cinque uomini nella stanza, il Pinelli aveva spiccato un balzo felino buttandosi nel vuoto.” Nel confermare che Pinelli era sospettato per gli attentati del 25 aprile a Milano e sui treni in agosto in varie località italiane, il “Corriere della Sera” riferisce altre parole di Guida: “Era tutta una catena di sospetti: il principale era per venerdì e poi si andava indietro.”
Che nei tre giorni di interrogatori apparisse tranquillo, rispondendo sicuro, paco di parole, spesso sardonico alla richiesta di informazione, era l’opinione comune, “perché allenato a questo tipo di indagini ed era difficile riuscire a metterlo in difficoltà.” Ma durante l’ultimo supplemento di interrogatorio “era successo qualcosa che ha inspiegabilmente spezzato in lui quell’apparente maschera di serenità e di distacco… Ha risposto calmissimo alle prime domande… Si è reso subito conto tuttavia che gli inquirenti erano venuti a conoscenza di qualcosa che gli premeva tener nascosto. Le contestazioni si sono fatte serrate. Poi stavano per essere sospese. Ma sul far della mezzanotte un’ultima contestazione gli è stata rivolta dal funzionario e dall’ufficiale. Un nome, un gruppo, li conosceva? li aveva visti? e quando? Poi, loro usciti dalla stanza, d’improvviso lo scatto di Pinelli: la finestra era socchiusa, lui ha spalancato i battenti e si è gettato nel vuoto.”
La sera del 16 vedo alla televisione Guida e il suo bel faccione pacioso, che tranquillizza gli italiani sulla fine del Pinelli. All’indomani titoli enormi sui giornali. Pietro Val preda è stato arrestato per la strage alla banca, il tassista portato in aereo a Roma l’ha subito riconosciuto. Così si mette a posto il mosaico della questura. Logico che il 12 pomeriggio all’anarchico Sergio Ardau, prelevato al circolo di via Scaldasole e portato in questura da Calabresi e dal brigadiere Panessa sulla loro 850 blu (mentre Pinelli andrà dietro col motorino), Calabresi parli subito di “certi pazzi criminali che si sono infiltrati fra voi, tra cui il Valpreda…” e gli chieda se ultimamente l’ha visto e se frequenta il circolo.
Ben riuscito il colpo di fermare Valpreda il 15 mattina all’uscita dall’ufficio del giudice Amati che l’aveva convocato per un affare di manifestini anti-papa. Quale di segno può andar meglio di questo, dal momento che come dinamitardi sono stati scelti gli anarchici? (Subito dopo l’esplosione il giudice Amati, telefonando in questura, aveva consigliato di iniziare le indagini fra di loro, mentre la sera stessa all’inviato della “Stampa” Calabresi dichiarerà che i responsabili sono da cercare fra gli estremisti di sinistra e conclude: “è opera degli anarchici.” Mentre a un giornalista che la sera stessa gli chiedeva se secondo lui la strage poteva esser collegata a qualche altro precedente attentato, “sì,” aveva risposto Guida, “alle bombe del 25 aprile.”) Ecco che un anarchico ha provocato la strage, ma non basta; c’è un altro anarchico che “una volta scoperta la matrice della strage” si suicida, avallando questa tesi. Secondo le prime notizie ufficiali che resteranno tali per molti mesi, Calabresi dice a Pinelli: “Inutile che tu continui a negare. Il tuo amico Valpreda ha già confessato.” Pinelli allora si sbianca in volto (mai che, cambiando i testimoni, qualche volta cambi anche il verbo) e grida: “Allora è la fine dell’anarchia!”, quindi siamo al balzo felino. Si parla di “saldatura del cerchio delle indagini,” di “conclusa stretta finale,” di “anelli sparsi riuniti in catena,” della “raggiunta precisa fisionomia del crimine,” mentre nei giornali del pomeriggio Valpreda lo chiamano “la belva umana,” o semplicemente “la bestia,” il massacratore, la iena, che per fortuna ha una “feroce morsa” nelle arterie delle gambe, il galoppante morbo di Bürger.
L’affare Valpreda, il percorso del tassì, le contraddizioni del Rolandi (chi scrive che in quella cupa notte dal 12 al 13 era già andato in questura a denunciare il suo strano cliente, mentre secondo il professor Liliano Paulucci, sarà lui a persuaderlo tre giorni dopo ad andare a raccontar tutto), il processo tolto di mano al giudice milanese e trasferito a Roma, la composizione del Circolo XXII marzo, il gran parlare che si fa del ballerino segregato a Regina Coeli e chi crede i suoi alibi di Milano e chi non ci crede; son tutti fatti che occupano l’opinione pubblica e i giornalisti, distraendoli temporaneamente dal caso Pinelli.
Gli hanno fatto il funerale il giorno 20 dicembre, c’erano vecchi anarchici col nero cravattone svolazzante, i soliti ragazzi delle manifestazioni con i colbacchi e frange di barba di varia lunghezza, tutti i giovani professori e studenti che davano da battere a macchina le loro tesi alla signora Licia, e un bel po’ di quanti non conoscevano il Pinelli ma non hanno creduto al questore. Bandiere nere nella nebbia, la polizia che fa sciogliere il corteo, i compagni del morto che davanti alla fossa n. 434 nel campo 764 di Musocco cantano l’Internazionale e Addio Lugano bella, i poliziotti tutti in gruppo, e vestiti di scuro, al di là di una fila di croci.
Ma Pinelli è e resterà sempre un morto ingombrante. Seppellito dentro la sua bandiera nera, non dà pace ai vivi che l’hanno portato alla tomba. Il suo nome infatti torna fuori sempre più di frequente, a poco a poco diventa come un rimorso comune, una causa di fondo disagio, infine un’accusa. Ben presto (il giorno dopo per i suoi amici) diventano flagranti menzogne le dichiarazioni di Guida, intanto cresce di continuo la gente che vorrebbe sapere come sono andate davvero le cose quella tal notte in questura, chi l’ha conosciuto ne parla e ne scrive, facendo il ritratto tanto di un uomo del tutto estraneo a qualsiasi episodio di violenza, come assolutamente alieno dal volersi togliere la vita.
Comincia a circolare fra i giornalisti la lettera che proprio il giorno 12 Pinelli ha scritto a Paolo Faccioli, il più giovane degli anarchici incarcerati per gli attentati del 25 aprile. Gli chiede che libri vuole, lui gli manderebbe l’Antologia di Spoon River (“non posso mandartene di politici perché me li renderebbero”), ricordandogli fra l’altro che “l’anarchismo non è violenza, la rigettiamo, ma non vogliamo subirla. Esso è ragionamento e responsabilità e questo lo ammette anche la stampa borghese; ora speriamo lo comprenda anche la magistratura. Nessuno riesce a capire il comportamento dei magistrati nei vostri confronti.”
Sull’ “Espresso,” e sull’ “Astrolabio,” ai primi di febbraio viene pubblicata la lettera di Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico, amico del Pinelli, ed è giusto che a due anni di distanza la legga chi allora se l’era lasciata sfuggire. “Aveva seguito gli sviluppi del mio processo negli ambienti cattolici (soprattutto fiorentini) ed era come affascinato dal tipo di testimonianza. Conosceva, e non per sentito dire, movimenti e gruppi che si ispiravano alla non-violenza e voleva discutere con me sulle possibilità che la non-violenza diventasse strumento d’azione politica e l’obiezione di coscienza stile di vita, impegno sociale permanente.


 “Io gli parlavo di `società basata sull’egoismo istituzionalizzato,’ di `disordine costituito,’ di `lotta di classe’ e lui mi riportava oltre le formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell’uomo e nella necessità di edificare `l’uomo nuovo,’ lavorando dal basso. Poi ci vedemmo in molte altre occasioni e i punti fermi della nostra amicizia divennero don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, due preti `scomodi,’ che hanno lasciato il segno e non solo nella chiesa.
“Viveva del suo lavoro, povero `come gli uccelli dell’aria,’ solido negli affetti, assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua inesauribile carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato a Pinelli: `anarchico individualista,’ è melensa, per non dire sconcia. Si è sempre battuto infatti contro l’individualismo delle coscienze addomesticate: lui, ateo, aiutava i cristiani a credere (e lo possono testimoniare tanti miei amici cattolici); lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici. Non ignorava le radici sociali dell’ingiustizia, ma non aveva fiducia nei mutamenti radicali, nelle `rivoluzioni’ che lasciano gli uomini come prima. Paziente, candido, scoperto nel suo quotidiano impegno, era lontano dagli `estremismi’ alla moda, dalle ideologie che riempiono la testa ma lasciano vuoto il cuore. Stavo bene con lui, anche per questo.”
È sempre Gozzini che poi mi parlerà di lui, di com’era genuino, pieno di intuizioni intelligenti, di come sapeva leggere, assimilando bene, smaltendo in fretta. Di come gli
piaceva aver intorno tanta gente per parlare, tirar tardi la notte a discutere, magari sull’ultimo libro di don Milani. Sapeva stare a suo agio con gli operai e coi borghesi, coi cattolici e coi giovani beat. “È orribile pensare che si sia potuto sospettare di lui. Che si fosse ucciso non ci ho mai creduto. Alla notizia ho pensato che `fosse stato morto,’ ecco quello che ho pensato.”
Mentre sulla sua morte viene aperta un’inchiesta che la magistratura affida al sostituto procuratore Giovanni Caizzi, e che vien condotta nel massimo segreto (impedendo tra l’altro che la madre e la vedova si costituiscano parte civile), non passa giorno, si può dire, che attraverso i giornali, le confidenze degli amici, una conversazione con la mamma e la moglie, non si impari qualche cosa di nuovo sulla figura del Pinelli, la quale a poco a poco diventa sempre meno segreta, anzi assume contorni precisi: non è più soltanto “il ferroviere anarchico autodidatta” dei primi giorni, con la barba nera, il sorriso pungente, gli occhi castani.
Parlo ancora con dei giovani intellettuali, con Bruno Manghi e con Luigi Ruggiu, redattori ambedue di “Questitalia,” la rivista del dissenso cattolico, e il ritratto, invece di scolorire col tempo, si fa sempre più vivo; il personaggio ambiguo presentatoci in questura spicca subito come eroe positivo. Quello che colpiva di più quanti capitavano in casa sua magari per far copiare a macchina un saggio o una tesi, e immancabilmente si trovavan di lì a qualche giorno a colazione dai Pinelli, era il carattere tradizionale della famiglia. Soltanto due le stanze nella casa francamente brutta, costruita intorno agli anni Quaranta, ma sempre il modo di sistemare un ospite di passaggio o un amico senza un soldo.
Così esuberante, giovane, eccessivo, agli amici intellettuali Pinelli pareva un personaggio del passato, un po’ sul tipo di quegli operai comunisti che la sera leggevano
Gorki. E sembrava loro che appartenesse al passato anche per quel suo frequente discorso sui valori piuttosto che sulle strategie politiche o sul problema del potere, abbastanza tipico di una certa categoria di anarchici. Una sua idea fissa era quella dell’avvicendarsi delle cariche e dei ruoli in una società dove tutti contassero in modo uguale, per evitare la scissione tra il lavoro manuale e quello intellettuale.
Era uno dei suoi discorsi preferiti e una delle sue più ingenue speranze. Ma la sua ingenuità si rivelava anche nel rispetto per la cultura con la C maiuscola: chiedeva a tutti che gli traducessero certi brani di riviste, mentre la sua visione internazionale dell’anarchia si rivelava, oltre che nei suoi discorsi, anche nella cura con cui conservava documenti e scritti in lingua straniera (cubani, svedesi, spagnoli) che non sapeva decifrare, ma gli davano forse il senso della presenza del movimento al di là dei confini dell’Italia e dell’Europa. Teneva discorsi, organizzava marce, era membro attivo di quel Centro di tutela e di solidarietà degli anarchici che è la “Croce Nera,” di aiuto inoltre ai perseguitati politici e alle loro famiglie, a chi è in carcere o di passaggio.
La ferrovia era un grosso mito per lui, e agli amici raccontava i tratti umani di questo suo lavoro, mai cose tecniche, ma storie e vite di ferrovieri. L’equilibrio della piccola famiglia era tale che marito e moglie spesso e volentieri si scambiavano il lavoro casalingo: lei a scrivere a macchina le tesi che la interessavano (ed imparava sempre qualcosa di nuovo anche lei esercitando a sua volta un’autorità quasi materna sui giovani universitari), lui invece che portava a scuola le bambine, le andava a prendere, faceva la spesa al supermercato e per divertirsi faceva benissimo da cucina: il risotto se appena c’era un ospite era la sua specialità, insieme alla polenta e al coniglio arrostito con le erbe.
Non tollerava che qualcuno si drogasse, irritandosi se da qualche altro sentiva vantare un’eccessiva libertà di rapporti sessuali. Vestiva francamente male, ma non era il malvestito in costume di oggi; lui non badava a quel che aveva addosso, magari la giacca con le spalle cascanti, le scarpe scalcagnate, il colletto con una punta qui e una là.
La madre racconta che da ragazzo il suo Pino si era esercitato alla boxe in palestra, ma aveva smesso presto perché gli seccava picchiare, non sapeva farlo, detestava il corpo a corpo, la colluttazione. La moglie amava in lui tutti quegli aspetti spiccioli di bontà, sensibilità e gentilezza, ma si preoccupava anche un po’ per gli elementi di disordine materiale che comportava una vita come la sua, così spesso fuori dalla famiglia (come aveva cominciato a fare in quel caldo 1968), e poi sempre gente fra i piedi, anarchici, ferrovieri, studenti di sociologia, economia, filosofia, psicologia (“tu t’impegni troppo e su troppi quadranti, non sei mai a casa quando ti vorremmo”). Ma proprio anche attraverso la moglie, Pinelli aveva fatto molti incontri e rafforzato la sua fiducia sull’”appropriazione” del sapere. Eran cinque o sei tra i suoi migliori amici a sapere che negli ultimi mesi della sua vita, per esempio anche durante l’ultimo sciopero della fame degli anarchici davanti a San Vittore, Pinelli aveva ricevuto dure minacce dalla polizia. Passato il tempo da quando Allegra e Calabresi gli avevano regalato Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli; ora lo guardavano scuri in viso, spesso provocandolo, e una volta lo avevano anche severamente avvertito di stare attento (“potresti anche perdere il posto”). Si era accorto di esser pedinato.
Mentre s’imparano particolari sconosciuti sulla sua vita, si comincia a indagare sulla sua morte: sono sempre gli amici che schedano tutti i giornali, annotano tutte le contraddizioni e le illegalità che emergono dalle dichiarazioni dei funzionari di polizia, fan tabelline con gli orari ufficiali (ma sempre contrastanti) tra la sua caduta e la chiamata dell’autoambulanza. Si sa che Pinelli resta in questura oltre le quarantotto ore regolamentari, che i poliziotti cominciano il gioco delle telefonate: “Signora” (in tono calmo e indulgente) “dica in ferrovia che suo marito è malato, insomma non c’è bisogno di far sapere in giro che sta in questura…” Ma dopo qualche ora, in tono più brusco: “Telefoni alla ferrovia, dica che Pinelli è fermato… Che è fermato per la strage…” (e la famiglia, com’è logico, sospetta che la seconda telefonata serva per impaurire Pinelli, per ricattarlo sul fronte della perdita del lavoro).
Chi poi ascolta il dottor Fiorenzano, il medico di guardia che vide per primo il Pinelli dopo il volo? Nessuno: solo quattro mesi dopo infatti il magistrato lo manderà a chiamare. Dall’autopsia compiuta precipitosamente nell’istituto diretto dall’ex rettore professore Mario Cattabeni, vengono esclusi i periti di parte, e se ne tenga bene a mente la conclusione, cioè quella frase vuota di significato a firma dei professori Ranieri Luvoni, Guglielmo Falzi e Franco Mangili che dice: “le ferite riscontrate sul corpo concordano con le modalità descritte.” Punto e basta.
Intanto il 28 dicembre la madre e la vedova di Pinelli (quest’ultima anche a nome delle figlie Claudia e Silvia) presentano un atto di denuncia e di querela nei confronti del questore di Milano Marcello Guida (c’è solo un precedente in proposito: quando venne querelato il questore Polito in occasione del processo Montesi). Lo querelano perché nelle dichiarazioni fatte alla stampa nella notte fatale rilevano una diffamazione continuata ed aggravata anche dall’abuso delle pubbliche funzioni da parte del questore. (Nel documento inoltre si riportano altre frasi dette sempre da lui a una delle tante conferenze-stampa all’indomani della morte, dopo l’affermazione che l’alibi era saltato. “È stato coerente coi suoi principi. Se fossi stato in lui avrei fatto la stessa cosa. Quando ha visto che la legge lo aveva preso, si è tolto la vita” e poi: “è stato come un cupio dissolvi… Non vorrete pensare che l’abbiamo gettato noi…” Le querelanti si riservano di concedere a Guida, nel corso del dibattimento, la più ampia facoltà di prova della verità delle sue dichiarazioni.)
“Non vorrete pensare che l’abbiamo gettato noi.” Frase temeraria. Quanti desiderano esercitare quella facoltà comune alla maggior parte degli uomini, cioè il ragionamento, ben presto sospettano. Si cercano delle risposte a troppi interrogativi che ne mancano irrimediabilmente. Si sa che è Calabresi che conduce l’interrogatorio di Pinelli, ma subito dopo la caduta egli dichiarerà che in quel momento nella stanza lui non c’era perché in visita da Allegra. Invece uno dei fermati in sosta dentro uno stanzone da cui poteva vedere tanto il corridoio come la porta d’Allegra, precisamente l’anarchico Pasquale Valitutti, racconterà di non aver visto Calabresi entrare dal capo della Politica, ma di averlo poi sentito parlare nel corridoio “dopo dei rumori sospetti come di una rissa,” così ha pensato che Pinelli fosse in quella stanza e lo stessero picchiando, quindi “avevo sentito un altro rumore come di sedie smosse e visto gente che correva in corridoio gridando: `Si è buttato, si è buttato!’ ”
Finito il trambusto, a Valitutti Calabresi aveva detto suppergiù: “Non capisco perché l’abbia fatto…solo per qualche contestazione…niente di drammatico…” E sempre Calabresi, interrogando il giorno dopo un altro giovane, gli parlerà tutto il tempo di Pinelli, “ma perché mai l’avrà fatto?” domandandosi a più riprese, per incaricare poi il ragazzo (e aveva gli occhi umidi) di chiedere alla vedova se gli permetteva di andare al funerale.
Non solo, ma l’11 gennaio, rilasciando un’intervista all’ “Unità,” dirà di Pinelli: “Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo.”
“Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo.”
Non avevamo niente contro di lui, perché mai l’avrà fatto? Altre frasi incaute, e queste sono di Calabresi che solo un mese prima, nella notte delle lunghe menzogne, diceva di sì a tutto quello che enunciava il questore, e a proposito di Pinelli parlava di torve implicazioni politiche, di collegamenti con persone sospette. Com’è diventato cauto il commissario aggiunto in questi ultimi tempi! Quando un giorno chiedo di parlargli, appunto per aver qualche spiegazione sul suo mutato contegno, mi viene incontro come al solito ben molleggiato, il passo elastico e la mascella risoluta: “Cara signora,” mi fa, “finché il magistrato non deposita tutto, non posso parlare. Questione di delicatezza: ho una parte anch’io in questa storia.”
Già, non c’è nessuno che pensi il contrario; ma perché, prendendo le sue distanze da Guida, oggi egli difende la memoria di Pinelli, dopo averlo tenuto tre giorni in questura, cercando i motivi che potessero coinvolgerlo nella strage recente e negli attentati, cospirando nel violare i suoi diritti, dando ordini la vigilia del volo (tramite Pagnozzi, così riferisce Valitutti) che gli venga riservato un trattamento speciale, non lo si lasci mai dormire e lo si tenga sotto pressione tutta la notte?
È possibile che in seguito alla mobilitazione dell’opinione pubblica a favore di Pinelli (racconti di autorevoli testi sui suoi provati ideali di non-violenza, sul suo amore per il prossimo e la sua candida generosità, lettere ai giornali di docenti universitari che ne rivendicano l’onestà e la dirittura), Calabresi che è un uomo abile, furbo, abituato a muoversi con un’autorità superiore al suo rango, ora desideri la riabilitazione del morto? Come dire alla signora Pinelli: “Suo marito io glielo restituisco pulito: la querela al questore lei l’ha già fatta, con le mie dichiarazioni io ora mi metto al di fuori di tutta la faccenda.” Così ad uno ad uno i dubbi sorgono dai punti oscuri che continuano a rimanere tali, dagli angoli d’ombra in cui non riesce ad arrivare un raggio di luce, dalle nebbie che continuano a fasciare fatti e circostanze.
Se questo è il primo passo indietro, ne segue subito un altro, cioè la notizia diffusa dalla nuova agenzia di stampa “In” e che si dice raccolta dalla bocca di un agente di polizia, secondo la quale l’anarchico Giuseppe Pinelli, subito dopo l’interrogatorio fattogli dal commissario Calabresi, si sarebbe accasciato sulla sedia colpito da un collasso cardiaco, quindi: “Perduta la testa, gli agenti l’avrebbero gettato dalla finestra, facendolo in modo tanto maldestro da ritrovarsi con le scarpe del morto in mano.”
Cerchiamo ora di procedere a fil di logica tentando di isolare qualche motivo razionale nella condotta della polizia. Due sono i motivi in base ai quali essa avvalora il suicidio: primo, era miseramente caduto l’alibi; secondo, Pinelli era crollato alla notizia che avevano preso il Valpreda. Ma son pronte le ragioni corrispondenti per escludere il volontario tuffo dalla finestra. L’alibi non era crollato affatto, anzi Pinelli aveva sorriso a Mario Magni dopo la sua deposizione che lo confermava in pieno (e poi anche Mario Pozzi dirà d’aver giocato a carte con lui quel pomeriggio nel bar di via Morgantini).
Se poi gli avevano detto che Valpreda era colpevole, non era certo questo il tipo di notizia che potesse sconvolgerlo: con Valpreda aveva avuto degli scontri di carattere politico: da tre giorni non si faceva altro che incolpare gli anarchici, e Pinelli sapeva bene come fosse possibile formulare su uno di loro accuse non fondate. Lui il Valpreda lo considerava soprattutto un “baüscia,” uno sbruffone, niente di più. Infine era noto a quanti lo frequentavano da anni che Pinelli era profondamente avverso al suicidio.
Ci sono poi tutti i particolari tecnici che riguardano il modo di cadere di chi si getta dall’alto. Nemmeno un graffio alle mani che nel volo pare inconsciamente si aggrappino a qualsiasi sporgenza e si protendano a riparare la testa; non un urlo che nella maggior parte dei casi pare esca dalla gola anche contro la volontà del suicida. E invece anche il modo di precipitare è inconsueto: il corpo non segue la traiettoria curva per via dello slancio indispensabile a chi si butta dall’alto; è invece un cadere in tre tempi, tre tonfi sordi, uno contro il primo cornicione, l’altro contro il secondo, infine lo schianto a terra. Come poi riferirà il cronista Aldo Palumbo dell’ “Unità,” che assistendo alla caduta ha avuto un rapido pensiero: “Ma cosa diavolo stanno facendo lassù? Perché buttano uno scatolone dalla finestra?” E i medici dopo si meravigliano che a un morto gettatosi da così in alto non sia uscito sangue dal naso e dalla bocca.


Segue sotto...

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