Esattamente quarant’anni fa, nel 1951, ho stampato, sopra una
rivista fiorentina di arti figurative, le mie prime poesie. Avevo vent’anni. In
questo lungo intervallo di tempo, il mondo è profondamente mutato, e, con il
mondo, anche la poesia. In questo caso, è profondamente mutata anche la mia
poesia. Ma alcuni tratti, in me, sono rimasti costanti, e sono forse, per
qualche riguardo, i tratti essenziali. E qui voglio indicare, in primo luogo,
proprio la convinzione durevole che la poesia muta con il mondo. È una
convinzione che appoggiavo citazionalmente, nel ‘51, al pensiero di un poeta
italiano che mi è caro, il Foscolo, per cui i poeti in tanto importano, in
quanto elaborano, diciamo così, il vero linguaggio dell’epoca, e ne disegnano il
profilo ideologico: «Noi -scrivevo- che riceviamo la qualità dai tempi». E
dicevo, anche: «Noi les objects à réaction poétique». E ancora, con un rinvio a
Artaud: «impossibile parlare di due cose (di una c’est avoir le sens de
l’anarchie)». E finalmente: «Noi stessi i santi anarchici». Quel «noi», che
impiegavamo allora con insistenza, non era soltanto un «pluralis humilitatis»,
se così è lecito dire. Era un «noi» che faceva appello, per intanto, a una
comunità poetica che non esisteva che nella forma del desiderio, anzi del
bisogno, e che, bene o male, avrebbe trovato una qualche realizzazione, dieci
anni più tardi, nel ‘61, con la costituzione del gruppo dei cinque poeti
Novissimi, per
i quali, me compreso naturalmente, proposi appunto questa designazione
battesimale, insieme esteticamente eversiva e catastroficamente apocalittica. Ma
quel «noi» faceva anche appello, in origine, a una mia minima comunità di
lettori di quelle mie poesie del principio degli anni Cinquanta, formata da
pochi miei coetanei fedeli e fanatici. Non è una cabala, ma eravamo in cinque. E
i miei quattro lettori erano una ragazza che ho amato, e che ho perduto di vista
qualche anno più tardi, un aspirante filologo classico che si stava per laureare
su Aulo Gellio, e che precocemente morì alcolizzato, e due altri studenti, uno
di farmacia e uno di medicina, e che diventarono quindi, in effetti, un
farmacista e un medico. Racconto queste cose non per un qualche gusto di
confessione o di evocazione autobiografica, non per offrirvi un assaggio di miei
souvenirs d’égotisme, anche se, a mio modo, sono, e soprattutto fui, un po’
stendhaliano, e forse anche un po’ egoista. Penso, piuttosto, che quanto ho
detto possa essere un piccolo emblema del destino di ogni poesia, e almeno della
sua genesi. Si comunica, a principio, con una ristrettissima cerchia di
complici. Poi, quando accade, se accade, l’uditorio si allarga, e l’orizzonte
dei destinatari, ma sarebbe assai più esatto dire dei committenti, si dilata, e
diviene un
pubblico vero. Ma si è comunque segnati sempre, in una certa misura, da quei
lettori primi, settari e faziosi, che formano una microsocietà di favoreggiatori
e di conniventi. Perché chi scrive, scrive, in sostanza, per la semplice ragione
che non trova, disponibili e prefabbricate, per quanto si guardi in giro, quelle
poesie, quelle scritture in genere, e deve costruirsele da solo. La poesia è un
autentico fai-da-te che trova una convalida iniziale, se si è fortunati, in una
limitata cerchia di consumatori, altrettanto insoddisfatti delle merci
letterarie che circolano nel mercato dei versi e dei libri. Molti anni più
tardi, nel ‘76, ho scritto una poesia sul fare poesia. È organizzata come una
ricetta di cucina. Vi è il consiglio di prendere, proprio alla Stendhal, «un
piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)», e di trattarlo curando
spazio e tempo, con date precise, con luoghi definiti, con personaggi
obiettivamente riconoscibili, in vista della preparazione di «una pietanza
gustosamente commestibile» e, alla Brecht, «verificabile». La poesia, scrivevo
in quel testo, è una particolare «specie di lavoro: mettere parole come/in
corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute
argute/e brevi: (che si stampano in testa, così, con un qualche contorno di
adeguati segnali/socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e,
poniamo, le solite metafore):/(che vengono a significare, poi,
nell’insieme:/attento, o tu che leggi, e manda a mente)». Ma voglio ritornare,
per finire, a quei «santi anarchici», e a quel «sens de l’anarchie» di cui
dicevo a principio. Perché se oggi io dovessi dire, in breve, quale sia la
pulsione profonda, non importa se conscia o incoscia, da cui è nata tutta la
moderna poesia, questa modernità che ancora viviamo nella forma di una
inesaurita e inesauribile anarchia, direi che tale pulsione è quella
dell’anarchia. E intendo questa parola, questa idea, non in un senso
rigorosamente ma limitatamente politico, ma, anche più radicalmente se
possibile, in senso etimologico. È questo impulso che mi ha fatto scrivere, una
volta, a conclusione di un’altra mia poesia del ‘76, come una proposta di
autoepitaffio: «Non ho creduto in niente». E il problema di un poeta, oggi,
rimane sempre per me, come per i suoi lettori del resto, quello di trasformare
l’impulso alla rivolta in una proposta di rivoluzione, e fare della propria
miscredenza un progetto praticabile. In Tempi moderni di Chaplin, accade che
Charlot raccolga per caso, per strada, uno straccio rosso di segnalazione, che è
caduto in terra da un autocarro che stava passando per la via. Con candido zelo,
egli insegue l’autocarro, agitando freneticamente quello straccio, per
riportarlo a chi lo ha smarrito. Ma da una traversa laterale, senza che egli se
ne accorga, spunta un corteo di manifestanti, e Charlot si trova così alla festa
di una massa di sovversivi, e il suo straccio funziona come una bandiera. E
Charlot sarà infine catastroficamente implicato nella repressione della polizia.
Ai miei occhi, questa sequenza può essere interpretata come una mirabile
allegoria del felice destino di un poeta. Egli agita uno straccio di parole,
ignaro e cortese, non importa, ma si trova poi alle spalle, a
seguirlo, e a trasformare in azione il senso delle sue povere operazioni
verbali, e a caricarlo di un valore collettivo, una turba di sconosciuti, che
vogliono, come si dice da tanto, e come si sogna forse sempre, modificare il
mondo, e cambiare la
vita.
"In ultima analisi, non è dunque un pugno di governanti quello che ci schiaccia, ma è l’incoscienza, la stupidità dei montoni di Panurgo che costituiscono il bestiame elettorale. Noi lavoreremo senza tregua in vista della conquista della “felicità immediata”, restando partigiani del solo metodo scientifico e proclamando con i nostri compagni astensionisti: L’ELETTORE, ECCO IL NEMICO! E adesso alle urne, bestiame!” Manifesto dei redattori del giornale francese “L’Anarchie”, 1906
lunedì 29 ottobre 2012
I santi anarchici
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