lunedì 29 ottobre 2012

I santi anarchici

Esattamente quarant’anni fa, nel 1951, ho stampato, sopra una rivista fiorentina di arti figurative, le mie prime poesie. Avevo vent’anni. In questo lungo intervallo di tempo, il mondo è profondamente mutato, e, con il mondo, anche la poesia. In questo caso, è profondamente mutata anche la mia poesia. Ma alcuni tratti, in me, sono rimasti costanti, e sono forse, per qualche riguardo, i tratti essenziali. E qui voglio indicare, in primo luogo, proprio la convinzione durevole che la poesia muta con il mondo. È una convinzione che appoggiavo citazionalmente, nel ‘51, al pensiero di un poeta italiano che mi è caro, il Foscolo, per cui i poeti in tanto importano, in quanto elaborano, diciamo così, il vero linguaggio dell’epoca, e ne disegnano il profilo ideologico: «Noi -scrivevo- che riceviamo la qualità dai tempi». E dicevo, anche: «Noi les objects à réaction poétique». E ancora, con un rinvio a Artaud: «impossibile parlare di due cose (di una c’est avoir le sens de l’anarchie)». E finalmente: «Noi stessi i santi anarchici». Quel «noi», che impiegavamo allora con insistenza, non era soltanto un «pluralis humilitatis», se così è lecito dire. Era un «noi» che faceva appello, per intanto, a una comunità poetica che non esisteva che nella forma del desiderio, anzi del bisogno, e che, bene o male, avrebbe trovato una qualche realizzazione, dieci anni più tardi, nel ‘61, con la costituzione del gruppo dei cinque poeti Novissimi,  per i quali, me compreso naturalmente, proposi appunto questa designazione battesimale, insieme esteticamente eversiva e catastroficamente apocalittica. Ma quel «noi» faceva anche appello, in origine, a una mia minima comunità di lettori di quelle mie poesie del principio degli anni Cinquanta, formata da pochi miei coetanei fedeli e fanatici. Non è una cabala, ma eravamo in cinque. E i miei quattro lettori erano una ragazza che ho amato, e che ho perduto di vista qualche anno più tardi, un aspirante filologo classico che si stava per laureare su Aulo Gellio, e che precocemente morì alcolizzato, e due altri studenti, uno di farmacia e uno di medicina, e che diventarono quindi, in effetti, un farmacista e un medico. Racconto queste cose non per un qualche gusto di confessione o di evocazione autobiografica, non per offrirvi un assaggio di miei souvenirs d’égotisme, anche se, a mio modo, sono, e soprattutto fui, un po’ stendhaliano, e forse anche un po’ egoista. Penso, piuttosto, che quanto ho detto possa essere un piccolo emblema del destino di ogni poesia, e almeno della sua genesi. Si comunica, a principio, con una ristrettissima cerchia di complici. Poi, quando accade, se accade, l’uditorio si allarga, e l’orizzonte dei destinatari, ma sarebbe assai più esatto dire dei committenti, si dilata, e  diviene un pubblico vero. Ma si è comunque segnati sempre, in una certa misura, da quei lettori primi, settari e faziosi, che formano una microsocietà di favoreggiatori e di conniventi. Perché chi scrive, scrive, in sostanza, per la semplice ragione che non trova, disponibili e prefabbricate, per quanto si guardi in giro, quelle poesie, quelle scritture in genere, e deve costruirsele da solo. La poesia è un autentico fai-da-te che trova una convalida iniziale, se si è fortunati, in una limitata cerchia di consumatori, altrettanto insoddisfatti delle merci letterarie che circolano nel mercato dei versi e dei libri. Molti anni più tardi, nel ‘76, ho scritto una poesia sul fare poesia. È organizzata come una ricetta di cucina. Vi è il consiglio di prendere, proprio alla Stendhal, «un piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)», e di trattarlo curando spazio e tempo, con date precise, con luoghi definiti, con personaggi obiettivamente riconoscibili, in vista della preparazione di «una pietanza gustosamente commestibile» e, alla Brecht, «verificabile». La poesia, scrivevo in quel testo, è una particolare «specie di lavoro: mettere parole come/in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute/e brevi: (che si stampano in testa, così, con un qualche contorno di adeguati segnali/socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore):/(che vengono a significare, poi, nell’insieme:/attento, o tu che leggi, e manda a mente)». Ma voglio ritornare, per finire, a quei «santi anarchici», e a quel «sens de l’anarchie» di cui dicevo a principio. Perché se oggi io dovessi dire, in breve, quale  sia la pulsione profonda, non importa se conscia o incoscia, da cui è nata tutta la moderna poesia, questa modernità che ancora viviamo nella forma di una inesaurita e inesauribile anarchia, direi che tale pulsione è quella dell’anarchia. E intendo questa parola, questa idea, non in un senso rigorosamente ma limitatamente politico, ma, anche più radicalmente se possibile, in senso etimologico. È questo impulso che mi ha fatto scrivere, una volta, a conclusione di un’altra mia poesia del ‘76, come una proposta di autoepitaffio: «Non ho creduto in niente». E il problema di un poeta, oggi, rimane sempre per me, come per i suoi lettori del resto, quello di trasformare l’impulso alla rivolta in una proposta di rivoluzione, e fare della propria miscredenza un progetto praticabile. In Tempi moderni di Chaplin, accade che Charlot raccolga per caso, per strada, uno straccio rosso di segnalazione, che è caduto in terra da un autocarro che stava passando per la via. Con candido zelo, egli insegue l’autocarro, agitando freneticamente quello straccio, per riportarlo a chi lo ha smarrito. Ma da una traversa laterale, senza che egli se ne accorga, spunta un corteo di manifestanti, e Charlot si trova così alla festa di una massa di sovversivi, e il suo straccio funziona come una bandiera. E Charlot sarà infine catastroficamente implicato nella repressione della polizia. Ai miei occhi, questa sequenza può essere interpretata come una mirabile allegoria del felice destino di un poeta. Egli agita uno straccio di parole, ignaro e  cortese, non importa, ma si trova poi alle spalle, a seguirlo, e a trasformare in azione il senso delle sue povere operazioni verbali, e a caricarlo di un valore collettivo, una turba di sconosciuti, che vogliono, come si dice da tanto, e come si sogna forse sempre, modificare il mondo, e cambiare la vita.

Nessun commento: