lunedì 10 dicembre 2012

da " Omaggio alla Catalogna "

Era la prima volta che mi trovavo in una città dove la classe operaia aveva in mano il potere.
In pratica non c'era edificio, di qualsiasi dimensione, che non fosse in mano agli operai, e dappertutto sventolavano bandiere rosse o bandiere rosse e nere degli anarchici, su ogni muro erano disegnati falci e martelli e le sigle dei partiti rivoluzionari; quasi tutte le chiese erano state distrutte e arse le immagini sacre. Qua è là squadre di operai, sistematicamente, demolivano chiese.
Su ogni negozio e caffè stava scritto che era stato collettivizzato; avevano collettivizzato anche i lustrascarpe e dipinto di rosso e nero le loro cassettine.
Camerieri e commessi ti guardavano dritto in faccia e ti trattavano da pari a pari, erano scomparse per il momento tutte le espressioni servili e anche solo cerimoniose.
Nessuno diceva: "Senor" o "Don" e neppure "Usted"; si chiamavano tutti "compagno" e si davano tutti del tu e dicevano "Salud!" invece di "Buenas dìas".
Le mance erano proibite già dai tempi di Primo de Rivera e, appena arrivato a Barcellona, mi toccò subito una predica  da parte di un direttore d'albergo che mi aveva sorpreso a tentare di dar la mancia al ragazzo dell'ascensore.
Non esistevano automobili private, che erano state tutte requisite, e i tram, i tassì e molti degli altri mezzi di trasporto erano dipinti di rosso e nero.
Ovunque fiammeggiavano dai muri manifesti rivoluzionari in squillanti colori rosso e blu che facevano sembrare tutti gli altri avvisi chiazze di fanghiglia.
Per Las Ramblas, l'ampia arteria principale della città dove masse di gente fluivano in su e giù a tutte le ore, gli altoparlanti suonavano a tutto volume inni rivoluzionari, per tutto il giorno e fino a notte tarda.
Ad eccezione di poche donne e di qualche straniero, non c'era affatto gente "ben vestita".
Praticamente tutti indossavano rozzi panni operai, o tute blu, o varianti dell'uniforme dei miliziani.
Tutto ciò era strano e commovente.
C'erano molte cose che non capivo e che, in un certo modo, neanche mi piacevano, ma riconobbi subito una situazione per cui valeva la pena di combattere.
Credevo anche che le cose stessero davvero così, come sembrava, che questo fosse davvero uno stato operaio e che tutta la borghesia fosse scappata, o fosse stata uccisa, o fosse passata spontaneamente dalla parte degli operai; non mi rendevo conto che un gran numero di ricchi borghesi si tenevano solo in disparte o si mascheravano da proletari, per il momento..., aspettando il fausto giorno in cui il potere comunista avrebbe restaurato la vecchia società e annullato la partecipazione popolare alla guerra...
Eppure, per quello che uno poteva capirne, la gente era soddisfatta e fiduciosa.
Non c'era disoccupazione, e il costo della vita era ancora bassissimo, si vedevano in giro pochissime persone veramente povere e l'elemosina la chiedevano solo gli zingari.
Avevano fede, soprattutto, nella rivoluzione e nell'avvenire, e sentivano di essere entrati all'improvviso in un 'era di uguaglianza e di libertà.
Gli esseri umani tentavano di comportarsi da esseri umani e non più come ingranaggi del sistema capitalistico.
Nei negozi di barbiere (i barbieri erano quasi tutti anarchici) c'erano manifesti anarchici in cui si spiegava solennemente che i barbieri non erano più degli schiavi.
Per le strade si vedevano manifesti a colori in cui si chiedeva alle prostitute di smetterla con il mestiere.
Per tutti noi che venivamo dalla beffarda e incallita civiltà delle razze di lingua inglese c'era qualcosa di patetico quasi nel modo in cui questi idealisti spagnoli prendevano alla lettera le frasi fatte della rivoluzione. A quel tempo si vendevano per le strade, per pochi centesimi, le più ingenue ballate rivoluzionarie, che parlavano tutte della fratellanza del proletariato e della perfidia di Mussolini, e ho visto spesso miliziani analfabeti comprare una di queste ballate, compitarne a fatica le parole e poi, quando le avevano afferrate, mettersi a cantare sull'aria giusta.

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