Come tornare a casa? Come identificare (di nuovo, ovvero
finalmente) in Itaca, modestissima isola ma splendida matrice della poesia,
ovvero della civiltà pacifica, la patria dell’uomo postmoderno, senza proporgli
l’impossibile rinunzia ai viaggi planetari e interplanetari cui si è ormai
abituato, poiché si è creato le condizioni e gli strumenti per compierli? Il
postmoderno, appunto. Alla dialettica del perduto, cioè dell’apparenza e
dell’impotenza, deve essere contrapposta la dialettica della crescita
controllata. Si tratta di questo. Sono incentivabili tutti e soltanto gli
strumenti di sviluppo la cui struttura, ovvero misura di esercizio espansivo,
corrisponda alle capacità di controllo da parte del singolo uomo, o della
comunità di uomini costituita grazie e non al di là o malgrado le capacità di
ogni suo singolo componente. Gli strumenti servono a far crescere le
capacità dell’uomo, ma sempre a condizione che il beneficiario attivo, cioè
colui che li può usare come strumenti e non solo fruire dei prodotti del loro
uso, sia il singolo uomo, che è l’unico reale, anche se moltiplicato
all'infinito: la riproducibilità (naturale, questa volta, e non tecnica) non toglie
l’originalità di ciascuno come matrice di sé e di tutto ciò che lo riguarda.
Questa è la vera caratteristica dell’uomo, non la sua
partecipazione alla ragione astratta, e ai suoi processi teorico pratici di
espansione (scienza e tecnologia): l’uomo è quell’animale il cui inserimento
«naturale» nella realtà (egli nasce, cresce, muore) deve essere ripetuto
originalmente attraverso una storia, senza la quale egli non vive, ma vegeta
semplicemente. La natura di ciascun uomo è la sua capacità storica, di fare
la propria storia. Una società che fa la storia dell’uomo al posto del singolo,
invece di fornirgli gli strumenti per farla di persona, è antiumana anche
se procura all’uomo gran quantità di beni di consumo, riproponendo
semplicemente al singolo ciò che la natura come contesto di partenza o di
condizione gli offre, cioè uno status «naturale», di nascita; con la differenza
però che si tratta già di una seconda natura, di una storia il cui meccanismo
consente tutt’al più, anzi richiede, l’inserimento delle potenzialità dell’uomo
singolo per funzionare e mantenersi come sistema generale. Nei confronti di
questa storia la possibilità del singolo di costruirsi un rapporto con la
natura e con i propri simili è già definitivamente compromessa. O inserimento o
emarginazione. Il razzismo tecnologico è la forma finale della distruzione
della molteplicità di civiltà ovvero di approcci al reale, poiché omologa tutto
lo spazio percorribile per stabilire dovunque le basi di partenza e di arrivo
di un viaggio che irreparabilmente si farà sempre più insensato consistendo
nella dislocazione tra luoghi perfettamente simili, anzi identici, dove cioè la
vita sarà identicamente la produzione e il consumo di beni assolutamente
«universali», cioè senza luogo né tempo. Questa è in verità l’utopia nel
suo senso di negazione reale (où-topos), non
già ciò che è impossibile ma ciò che, realizzando la distruzione del luogo e
del tempo storico, rende impossibile, uccidendone la singolarità, la vita
dell’uomo, il cui contesto unico possibile è la storicità.
Ecco dunque la città da fondare, quel luogo che mette in
grado il singolo uomo di fare la storia; non inserendo la propria (o attraverso
l’inserimento di essa) nella grande storia non meglio identificata o solo a
posteriori identificata come storia degli altri, di alcuni altri eccellenti ed
emergenti o emersi, ma invece partecipando direttamente alla costruzione della
storia comune «mediante» l’organizzazione della propria. Gran
parte di questa possibilità dipende dalle misure. Teoricamente il superamento
delle distanze si è offerto, nel mondo moderno, come un modo di enfatizzare le
misure di ciascun uomo, senza distruggerne i limiti positivi, cioè l’identità.
Ma è possibile eliminare le distanze senza distruggere la localizzazione spaziale
e quindi le condizioni per una storicità molteplice, espressione reale della
singolarità umana? La localizzazione spaziale costituisce la geografia: il
problema della geografia, come quello della storia, è legato oggi al rapporto
tra comunicazione ed economia, il quale a sua volta, nella versione moderna, si
identifica totalmente con il progresso industriale. La geografia è stata
sconvolta dal progresso industriale poiché la comunicazione ha acquisito tutte
le forme dell’economia, a cominciare dalla logica dei costi. La vera
comunicazione è quella commerciale, cioè la distribuzione elevata a sistema:
perché i conti tornino è necessario strutturare la comunicazione come scambio,
come rapporto tra produzione e consumo. In verità, non importa molto all’industria
moderna che si realizzi una comunicazione universale attraverso i servigi dello
scambio universale. Evidentemente la logica dell’economia produttiva è il
rovescio esatto di questo rapporto: l’informazione universale serve alla
crescita della produzione, e tende quindi all’omogeneizzazione corporea,
all’assoluta assimilazione dei processi di soddisfazione dei bisogni. Le
dimensioni dello spazio valgono esclusivamente come fatto quantitativo, la
molteplicità è moltiplicazione il più possibile seriale affinché i costi e i
ricavi si spartiscano convenientemente il meno e il più, il minimo e il
massimo. Questa è la conseguenza dell’istituzione dell’economia di mercato,
ovvero dell’economia monetaria; o per altri aspetti ne è il fine. In questa
prospettiva non è tanto l’eliminazione delle distanze a distruggere la
localizzazione spaziale, ma il fatto che questa eliminazione sia compiuta in
vista di un’unificazione del mercato di consumo dei beni fisici ed assimilati
(la cultura come vendibile), e perciò di un’unificazione spaziale. Eliminare
le distanze è così eliminare le differenze, lasciandone sopravvivere solo quel
tanto che permette a coloro che sono dislocati necessariamente in luoghi
diversi, cioè lontani, di avere l’illusione della propria diversa identità.
Questa illusione è importante perché lo stimolo al consumo sia dato dal
desiderio della partecipazione, che è indubbiamente un meccanismo che riguarda
l’individuo. Vi è un solo modo per «salvare la geografia», cioè la
localizzazione spaziale come reale diversificazione. Ed è quello di restituire
la comunicazione al suo valore conoscitivo, in vista della creazione e della crescita
di una ricchezza calcolabile da ciascun possessore in termini di mondo
personale, non valutabile come moneta di scambio ma come bene, appunto, da
comunicare e da godere in comune. Il segno del rapporto, cioè della
convivenza, tra uomini «colti» nel senso sopra definito è opposto a quello
della convivenza, strutturalmente concorrenziale, tra uomini misurabili
economicamente. La corrispondenza tra uomini colti comporta una dialettica in
cui ciò che appartiene o è acquisito al singolo si riversa necessariamente nel
rapporto e quindi nella comunità; la dialettica «economica» richiede
necessariamente la contrapposizione delle parti in vista di un superamento non
comunitario, ma di qualcuno sugli altri. Nella prospettiva della comunicazione
culturale il rapporto dell’impresa creativa comunitaria con la localizzazione è
tutt’altro che astratto, cioè «spirituale». È un rapporto analogo a quello
personale della mente con il corpo, che consiste fondamentalmente
nell’ordinamento estetico di esso (estetico nel senso lato e più completo, cioè
di resa sensibile del progetto mentale). Tutte le grandi civiltà del passato
hanno eseguito questo rapporto come invenzione storico-geografica: soltanto il
mondo moderno ha cambiato radicalmente i connotati di questa tensione,
confrontando semplicemente lo spazio come estensione geometrica con i
procedimenti mentali come moltiplicazione aritmetica. Alla cultura puramente
scientifica corrisponde l’ideale dell’immensa metropoli planetaria, che più
esattamente potrebbe essere nominata come necropoli planetaria, sia per la
reale abrasione dell’infinito numero delle possibilità singolari, sia per
l’inclusione, prima simbolica e infine reale, del coinvolgimento di tutti
nell’ipotesi deH’unanimità finale, cioè di quel fatto definitivo che, a
differenza di ogni avvenimento positivo che pur travolgendo e sconvolgendo
richiede sempre una partecipazione almeno parzialmente individuale, con la sua
oggettività assolutamente autonoma riguarda tutti senza escludere nessuno.
In verità già si presumono e si progettano difese aristocratiche, si potrebbe
dire «di classe», per coloro che possono permettersi rifugi veramente «a prova
di bomba». Ma questa volta l’inganno della pubblicità è troppo clamoroso,
poiché l’alternativa alla morte unanime costituirebbe una situazione di
calcolabile attesa della morte nel chiuso di un invalicabile luogo difensivo ad
esaurimento. Sopravvivenza minima circondata, temporalmente e spazialmente,
dalla morte reale. Mentre la vita di ciascun uomo è circondata normalmente
dalla vita, cioè dalla storia, dalla geografia, dal futuro, dagli altri e così
via, e la morte è prospettiva sicura ma in qualche modo interna alla vita, in
questo caso pur esclusivo e privilegiato la vita è talmente soffocata dalla
morte circostante ed incombente, da far chiedere se mai i tempi storici dei
sopravvissuti potranno far fronte (con l’attesa, unica possibile attività) ai
rinnovati immensi tempi biologici di un mondo che per ricominciare deve, nella
migliore delle ipotesi, passare attraverso infiniti processi di riformazione.
Pietro M. Toesca
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