venerdì 30 novembre 2012

Tornare a casa…


Come tornare a casa? Come identificare (di nuovo, ovvero finalmente) in Itaca, modestissima isola ma splendida matrice della poesia, ovvero della civiltà pacifica, la patria dell’uomo postmoderno, senza proporgli l’impossibile rinunzia ai viaggi planetari e interplanetari cui si è ormai abituato, poiché si è creato le condizioni e gli strumenti per compierli? Il postmoderno, appunto. Alla dialettica del perduto, cioè dell’apparenza e dell’impotenza, deve essere contrapposta la dialettica della crescita controllata. Si tratta di questo. Sono incentivabili tutti e soltanto gli strumenti di sviluppo la cui struttura, ovvero misura di esercizio espansivo, corrisponda alle capacità di controllo da parte del singolo uomo, o della comunità di uomini costituita grazie e non al di là o malgrado le capacità di ogni suo singolo componente. Gli strumenti servono a far crescere le capacità dell’uomo, ma sempre a condizione che il beneficiario attivo, cioè colui che li può usare come strumenti e non solo fruire dei prodotti del loro uso, sia il singolo uomo, che è l’unico reale, anche se moltiplicato all'infinito: la riproducibilità (naturale, questa volta, e non tecnica) non toglie l’originalità di ciascuno come matrice di sé e di tutto ciò che lo riguarda.
Questa è la vera caratteristica dell’uomo, non la sua partecipazione alla ragione astratta, e ai suoi processi teorico pratici di espansione (scienza e tecnologia): l’uomo è quell’animale il cui inserimento «naturale» nella realtà (egli nasce, cresce, muore) deve essere ripetuto originalmente attraverso una storia, senza la quale egli non vive, ma vegeta semplicemente. La natura di ciascun uomo è la sua capacità storica, di fare la propria storia. Una società che fa la storia dell’uomo al posto del singolo, invece di fornirgli gli strumenti per farla di persona, è antiumana anche se procura all’uomo gran quantità di beni di consumo, riproponendo semplicemente al singolo ciò che la natura come contesto di partenza o di condizione gli offre, cioè uno status «naturale», di nascita; con la differenza però che si tratta già di una seconda natura, di una storia il cui meccanismo consente tutt’al più, anzi richiede, l’inserimento delle potenzialità dell’uomo singolo per funzionare e mantenersi come sistema generale. Nei confronti di questa storia la possibilità del singolo di costruirsi un rapporto con la natura e con i propri simili è già definitivamente compromessa. O inserimento o emarginazione. Il razzismo tecnologico è la forma finale della distruzione della molteplicità di civiltà ovvero di approcci al reale, poiché omologa tutto lo spazio percorribile per stabilire dovunque le basi di partenza e di arrivo di un viaggio che irreparabilmente si farà sempre più insensato consistendo nella dislocazione tra luoghi perfettamente simili, anzi identici, dove cioè la vita sarà identicamente la produzione e il consumo di beni assolutamente «universali», cioè senza luogo né tempo. Questa è in verità l’utopia nel suo senso di negazione reale (où-topos), non già ciò che è impossibile ma ciò che, realizzando la distruzione del luogo e del tempo storico, rende impossibile, uccidendone la singolarità, la vita dell’uomo, il cui contesto unico possibile è la storicità.

Ecco dunque la città da fondare, quel luogo che mette in grado il singolo uomo di fare la storia; non inserendo la propria (o attraverso l’inserimento di essa) nella grande storia non meglio identificata o solo a posteriori identificata come storia degli altri, di alcuni altri eccellenti ed emergenti o emersi, ma invece partecipando direttamente alla costruzione della storia comune «mediante» l’organizzazione della propria. Gran parte di questa possibilità dipende dalle misure. Teoricamente il superamento delle distanze si è offerto, nel mondo moderno, come un modo di enfatizzare le misure di ciascun uomo, senza distruggerne i limiti positivi, cioè l’identità. Ma è possibile eliminare le distanze senza distruggere la localizzazione spaziale e quindi le condizioni per una storicità molteplice, espressione reale della singolarità umana? La localizzazione spaziale costituisce la geografia: il problema della geografia, come quello della storia, è legato oggi al rapporto tra comunicazione ed economia, il quale a sua volta, nella versione moderna, si identifica totalmente con il progresso industriale. La geografia è stata sconvolta dal progresso industriale poiché la comunicazione ha acquisito tutte le forme dell’economia, a cominciare dalla logica dei costi. La vera comunicazione è quella commerciale, cioè la distribuzione elevata a sistema: perché i conti tornino è necessario strutturare la comunicazione come scambio, come rapporto tra produzione e consumo. In verità, non importa molto all’industria moderna che si realizzi una comunicazione universale attraverso i servigi dello scambio universale. Evidentemente la logica dell’economia produttiva è il rovescio esatto di questo rapporto: l’informazione universale serve alla crescita della produzione, e tende quindi all’omogeneizzazione corporea, all’assoluta assimilazione dei processi di soddisfazione dei bisogni. Le dimensioni dello spazio valgono esclusivamente come fatto quantitativo, la molteplicità è moltiplicazione il più possibile seriale affinché i costi e i ricavi si spartiscano convenientemente il meno e il più, il minimo e il massimo. Questa è la conseguenza dell’istituzione dell’economia di mercato, ovvero dell’economia monetaria; o per altri aspetti ne è il fine. In questa prospettiva non è tanto l’eliminazione delle distanze a distruggere la localizzazione spaziale, ma il fatto che questa eliminazione sia compiuta in vista di un’unificazione del mercato di consumo dei beni fisici ed assimilati (la cultura come vendibile), e perciò di un’unificazione spaziale. Eliminare le distanze è così eliminare le differenze, lasciandone sopravvivere solo quel tanto che permette a coloro che sono dislocati necessariamente in luoghi diversi, cioè lontani, di avere l’illusione della propria diversa identità. Questa illusione è importante perché lo stimolo al consumo sia dato dal desiderio della partecipazione, che è indubbiamente un meccanismo che riguarda l’individuo. Vi è un solo modo per «salvare la geografia», cioè la localizzazione spaziale come reale diversificazione. Ed è quello di restituire la comunicazione al suo valore conoscitivo, in vista della creazione e della crescita di una ricchezza calcolabile da ciascun possessore in termini di mondo personale, non valutabile come moneta di scambio ma come bene, appunto, da comunicare e da godere in comune. Il segno del rapporto, cioè della convivenza, tra uomini «colti» nel senso sopra definito è opposto a quello della convivenza, strutturalmente concorrenziale, tra uomini misurabili economicamente. La corrispondenza tra uomini colti comporta una dialettica in cui ciò che appartiene o è acquisito al singolo si riversa necessariamente nel rapporto e quindi nella comunità; la dialettica «economica» richiede necessariamente la contrapposizione delle parti in vista di un superamento non comunitario, ma di qualcuno sugli altri. Nella prospettiva della comunicazione culturale il rapporto dell’impresa creativa comunitaria con la localizzazione è tutt’altro che astratto, cioè «spirituale». È un rapporto analogo a quello personale della mente con il corpo, che consiste fondamentalmente nell’ordinamento estetico di esso (estetico nel senso lato e più completo, cioè di resa sensibile del progetto mentale). Tutte le grandi civiltà del passato hanno eseguito questo rapporto come invenzione storico-geografica: soltanto il mondo moderno ha cambiato radicalmente i connotati di questa tensione, confrontando semplicemente lo spazio come estensione geometrica con i procedimenti mentali come moltiplicazione aritmetica. Alla cultura puramente scientifica corrisponde l’ideale dell’immensa metropoli planetaria, che più esattamente potrebbe essere nominata come necropoli planetaria, sia per la reale abrasione dell’infinito numero delle possibilità singolari, sia per l’inclusione, prima simbolica e infine reale, del coinvolgimento di tutti nell’ipotesi deH’unanimità finale, cioè di quel fatto definitivo che, a differenza di ogni avvenimento positivo che pur travolgendo e sconvolgendo richiede sempre una partecipazione almeno parzialmente individuale, con la sua oggettività assolutamente autonoma riguarda tutti senza escludere nessuno. In verità già si presumono e si progettano difese aristocratiche, si potrebbe dire «di classe», per coloro che possono permettersi rifugi veramente «a prova di bomba». Ma questa volta l’inganno della pubblicità è troppo clamoroso, poiché l’alternativa alla morte unanime costituirebbe una situazione di calcolabile attesa della morte nel chiuso di un invalicabile luogo difensivo ad esaurimento. Sopravvivenza minima circondata, temporalmente e spazialmente, dalla morte reale. Mentre la vita di ciascun uomo è circondata normalmente dalla vita, cioè dalla storia, dalla geografia, dal futuro, dagli altri e così via, e la morte è prospettiva sicura ma in qualche modo interna alla vita, in questo caso pur esclusivo e privilegiato la vita è talmente soffocata dalla morte circostante ed incombente, da far chiedere se mai i tempi storici dei sopravvissuti potranno far fronte (con l’attesa, unica possibile attività) ai rinnovati immensi tempi biologici di un mondo che per ricominciare deve, nella migliore delle ipotesi, passare attraverso infiniti processi di riformazione.


Pietro M. Toesca

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