mercoledì 18 dicembre 2013

L'arma della gratuità per esempio...

Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire «scelta» o «punto di svolta», ora sta a significare: «Guidatore, dacci dentro!». Ma «crisi» non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero. In pochi decenni il mondo si è amalgamato. Le reazioni degli uomini agli eventi quotidiani si sono standardizzate. Le lingue e le divinità possono ancora apparire differenti, ma ogni giorno altra gente si aggrega a quell'enorme mag­gioranza che marcia al ritmo della medesima megamac­china. Il gesto del braccio verso l'interruttore accanto alla porta ha soppiantato le decine di modi in cui si accendevano un tempo fuochi, candele e lanterne. In dieci anni il numero degli utenti di interruttori si è triplicato; sciacquo­ne e carta igienica sono diventati condizioni essenziali per poter andare di corpo. Per un numero sempre maggiore di persone l'illuminazione non fornita da reti ad alto voltaggio e l'igiene senza carta velina significano povertà. Aumentano le aspettative, mentre declinano rapidamente la fiducia speranzosa nelle proprie capacità e l'interesse per gli altri. Ora striduli ora soporiferi, i media penetrano a forza ella comune, nel villaggio, nell'azienda, nella scuola. I suoni prodotti dagli autori e dagli annunciatori di testi programmati stravolgono di giorno in giorno le parole della lingua viva facendone tanti blocchi di frasario per messaggi prefabbricati. Oggi solo chi è tagliato fuori dal mondo oppure l'anticonformista ricco e ben protetto può far giocare i propri bambini in un ambiente dov'essi sen­tano parlare persone anziché divi, annunciatori o istrut­tori. In ogni parte del mondo si vede dilagare quella di­sciplinata acquiescenza che caratterizza lo spettatore, il paziente e il cliente. Aumenta rapidamente la standardiz­zazione del comportamento umano. E’ dunque chiaro che non c'è quasi alcuna comunità al mondo cui non si ponga esattamente la medesima scelta cruciale: o continuare ad essere mere cifre nella folla con­dizionata che è sospinta verso una sempre maggiore di­pendenza (ed essere così costretti a feroci lotte per strap­pare la propria razione di droga), o trovare quel coraggio che è l'unica possibilità di salvezza in una situazione di panico: il coraggio di restare fermi e di guardarsi attorno alla ricerca di una via di scampo diversa da quella su cui tutti si precipitano perché c'è scritto “uscita”. Molti pe­rò, quando gli si dice che tanto i boliviani quanto i cana­desi o gli ungheresi si trovano tutti dinanzi alla stessa scelta di fondo, non solo si infastidiscono, ma si indignano. L'idea appare loro non soltanto ridicola, ma insultante. Non riescono a scorgere l'identica degradazione, di forma nuova e acuta, che sta sotto la fame dell'indio dell'Altipiano, la nevrosi dell'operaio di Amsterdam e la cinica corruzione del burocrate di Varsavia. In tutte le società lo sviluppo ha avuto il medesimo effetto: ognuno si è trovato irretito in una nuova trama di dipendenza ­nei confronti di prodotti sfornati dal medesimo tipo di macchine: fabbriche, cliniche, studi televisivi, isti­tuti di ricerca. Per appagare questa dipendenza bisogna continuare a produrre le stesse cose in quantità maggiori:beni standardizzati, concepiti e realizzati ad uso di un futuro consumatore già addestrato dall'agente del produt­tore ad aver bisogno di ciò che gli viene offerto. Questi prodotti, siano essi beni tangibili o servizi intangibili, costituiscono la produzione industriale. Il valore mone­tario che si attribuisce loro in quanto merci è determinato, in proporzioni variabili, dallo Stato e dal mercato. Cul­ture differenti diventano così scialbi residui di stili d'a­zione tradizionali, relitti sbiaditi in un unico deserto di dimensioni planetarie, una terra arida devastata dal mac­chinario che serve a produrre e consumare. Sulle rive della Senna come su quelle del Niger, le donne hanno disim­parato ad allattare, perché ora quella sostanza bianca la si compra in drogheria. (In Francia, grazie ai maggiori stanziamenti per la tutela del consumatore, è meno vele­nosa che nel Mali.) Certo, un maggior numero di bambini beve oggi latte di mucca; ma tanto nei paesi ricchi quanto in quelli poveri il seno materno si inaridisce. Il consumatore dipendente nasce allorquando il neonato piange perché vuole il biberon; quando l'organismo è ad­destrato a reclamare il latte del droghiere e a distogliersi dal seno, che così non svolge più la propria funzione. L'attività umana autonoma e creativa, indispensabile a far fiorire l'universo umano, si atrofizza. I tetti di assicelle e di stoppie, di tegole e di ardesia, vengono soppiantati dal calcestruzzo per i pochi, dalla plastica ondu­lata per i più. Né le giungle e le paludi né le prevenzioni ideologiche hanno impedito che i poveri e i socialisti si lanciassero a capofitto nelle autostrade dei ricchi, le quali portano al mondo in cui gli economisti prendono il posto dei preti. La zecca annulla tutti i tesori e gli idoli locali. La moneta svaluta quello che non può misurare. La crisi, dunque, è la stessa per tutti: si tratta di scegliere tra una maggiore o una minore dipendenza dalle merci industriali. Maggiore vorrà dire la distruzione rapida e totale di cul­ture generatrici di attività di sussistenza soddisfacenti. Mi­nore vorrà dire una variegata fioritura di valori d'uso en­tro culture moderne intensamente attive. Per i ricchi come per i poveri là scelta è sostanzialmente la stessa, anche se è difficile da immaginare per chi è già abituato a vivere nel supermercato - una struttura che solo il nome diffe­renzia da una clinica per infermi di mente. L'attuale società industriale organizza la vita in funzione delle merci. Le nostre società ad alta intensità di mercato misurano il progresso materiale dall'aumento di volume e di varietà delle merci prodotte. E sull'esempio di questo settore, noi misuriamo il progresso sociale dal modo in cui è distribuito l'accesso a tali merci. La scienza economica è diventata un'attività propagandistica volta a favorire la supremazia delle grandi industrie produttrici di beni di consumo. Il socialismo è stato svilito a lotta contro la di­sparità nella distribuzione, e l'economia del benessere ha identificato il bene pubblico con l'abbondanza - l'abbon­danza umiliante di cui gode il povero negli ospedali, nelle prigioni e nei manicomi degli Stati Uniti. Indifferente a ogni scambio che non sia contrassegnato da un prezzo monetario, la società industriale ha creato un paesaggio urbano inadatto a persone che non divorino ogni giorno in metalli e carburanti l'equivalente del pro­prio peso, un mondo nel quale la costante necessità di di­fendersi dalle conseguenze indesiderate di un numero mag­giore di cose e di controlli ha portato alla luce nuovi filoni di discriminazione, di impotenza e di frustrazione. Il mo­vimento ecologico, influenzato dal sistema, sinora non ha fatto che rafforzare questa tendenza: ha infatti preso ai difetti della tecnologia industriale e, nei casi migliori, lo sfruttamento privato della produzione industriale. Ha contestato il depauperamento delle risorse naturali, i danni dell'inquinamento e i trasferimenti netti di potere. Ma anche quando si assegni un prezzo alla degradazione dell'ambiente e alle perdite causate dalla nocività o si calcoli il costo della polarizzazione, non si è ancora detto in modo chiaro che la divisione del lavoro, la molti­plicazione delle merci e la dipendenza da esse hanno for­zosamente sostituito con confezioni standardizzate quasi tutte le cose che la gente un tempo faceva da sé o fabbricava con le proprie mani.

Nessun commento: