
Si comincia presto a creare poesie. Da bambini
si è tutti poeti. Poi in genere ci fanno perdere
l’abitudine. L’arte di diventare poeti, tra le varie
cose, è non lasciare che la vita, la gente, i soldi
ci facciano perdere questa abitudine.
Io mi sono abituato molto presto a «inventare». La realtà – parola troppo sofisticata – diventava più calorosa, più interessante e divertente da osservare, se la si modificava un po’.
Non troppo, giusto quanto bastava. Vivevo in
una vecchia casa rurale, in alto, sopra un fiume ampio e impetuoso. Sotto la casa correvano vene d’acqua sorgiva, perciò faceva sempre
freddo e c’erano correnti d’aria. La fattoria era
isolata in mezzo ai campi e dei miei primi anni
ricordo solo gli inverni, quando il vento arrivava
ululando e copriva di neve il mondo intero. La
neve si ammassava fin sopra le finestre e non si
usciva quasi mai. Era già un’avventura spingersi
fino al secchio della spazzatura che si trovava
all’ingresso, dove la neve si infilava turbinando
sotto la porta, come una lettera. La casa brulicava di zie, di zii e di gatti. Gli adulti litigavano in
continuazione. I gatti piagnucolavano. Io andavo ad acciambellarmi come un gatto davanti al
camino, al caldo, mentre un cugino più grande,
che ammiravo molto, si sedeva sul suo letto e
riusciva a sputarmi esattamente sui piedi, nonostante la distanza. Una mattina d’inverno,
in cui come al solito me ne stavo a letto a lungo, perché ero ritenuto gracile – e forse lo ero
anche – sentii miagolare e lamentarsi sotto la
coperta. La sollevai e vidi che il letto era pieno
di micini: una gatta aveva figliato accanto a me
mentre dormivo.
Di tanto in tanto, durante l’inverno, era
Natale. Una volta ricevetti dal nonno un arco
e delle frecce con la punta avvolta nella stoffa
perché potessi tirarle in casa. In altri Natali mi
furono regalati degli orsacchiotti e delle macchinine a molla. Venivano da Stoccolma, da papà,
che non avevo mai visto e su cui mi inventavo
continuamente delle storie. Un’estate però arrivò anche lui e mi sembrò uguale a tutti gli altri
stoccolmesi che capitavano a volte da noi perché avevamo un così bel panorama. Usavano
parole strane, come pure, e storcevano il naso
per l’odore che c’era in casa e perché bevevamo
tutti l’acqua dallo stesso mestolo. Quando se ne
andavano noi ridevamo di loro, non per molto
però, e con un po’ di imbarazzo, come si ride di
qualcosa che non è normale.
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