lunedì 27 maggio 2013

Perchè i bambini devono ubbidire ?

Si comincia presto a creare poesie. Da bambini si è tutti poeti. Poi in genere ci fanno perdere l’abitudine. L’arte di diventare poeti, tra le varie cose, è non lasciare che la vita, la gente, i soldi ci facciano perdere questa abitudine. Io mi sono abituato molto presto a «inventare». La realtà – parola troppo sofisticata – diventava più calorosa, più interessante e divertente da osservare, se la si modificava un po’. Non troppo, giusto quanto bastava. Vivevo in una vecchia casa rurale, in alto, sopra un fiume ampio e impetuoso. Sotto la casa correvano vene d’acqua sorgiva, perciò faceva sempre freddo e c’erano correnti d’aria. La fattoria era isolata in mezzo ai campi e dei miei primi anni ricordo solo gli inverni, quando il vento arrivava ululando e copriva di neve il mondo intero. La neve si ammassava fin sopra le finestre e non si usciva quasi mai. Era già un’avventura spingersi fino al secchio della spazzatura che si trovava all’ingresso, dove la neve si infilava turbinando sotto la porta, come una lettera. La casa brulicava di zie, di zii e di gatti. Gli adulti litigavano in continuazione. I gatti piagnucolavano. Io andavo ad acciambellarmi come un gatto davanti al camino, al caldo, mentre un cugino più grande, che ammiravo molto, si sedeva sul suo letto e riusciva a sputarmi esattamente sui piedi, nonostante la distanza. Una mattina d’inverno, in cui come al solito me ne stavo a letto a lungo, perché ero ritenuto gracile – e forse lo ero anche – sentii miagolare e lamentarsi sotto la coperta. La sollevai e vidi che il letto era pieno di micini: una gatta aveva figliato accanto a me mentre dormivo. Di tanto in tanto, durante l’inverno, era Natale. Una volta ricevetti dal nonno un arco e delle frecce con la punta avvolta nella stoffa perché potessi tirarle in casa. In altri Natali mi furono regalati degli orsacchiotti e delle macchinine a molla. Venivano da Stoccolma, da papà, che non avevo mai visto e su cui mi inventavo continuamente delle storie. Un’estate però arrivò anche lui e mi sembrò uguale a tutti gli altri stoccolmesi che capitavano a volte da noi perché avevamo un così bel panorama. Usavano parole strane, come pure, e storcevano il naso per l’odore che c’era in casa e perché bevevamo tutti l’acqua dallo stesso mestolo. Quando se ne andavano noi ridevamo di loro, non per molto però, e con un po’ di imbarazzo, come si ride di qualcosa che non è normale.

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