
Minna-sané sono lieto di accettare l'onore di rivolgermi a voi in
questo convegno su 'la scienza e l'uomo'. Il tema proposto da Mister
Tsuru, "La società gestita dal computer", fa suonare un campanello di
allarme, in quanto contiene una chiara previsione del fatto che macchine
che scimmiottano gli esseri umani tendono a infiltrarsi in ogni aspetto
della vita delle persone e le costringono a comportarsi come macchine. I
nuovi dispositivi elettronici hanno in verità il potere di costringere le
persone a 'comunicare' con essi e con gli altri esseri umani nei termini
dettati dalla macchina. Ciò che strutturalmente non rientra nella logica
delle macchine viene filtrato e in pratica scompare da una cultura
dominata dal loro uso.
Il comportamento meccanico degli esseri umani incatenati
all'elettronica corrisponde a un deterioramento del loro benessere e della
loro dignità, a lungo andare intollerabile per la maggior parte di essi. Le
osservazioni sulla nocività di ambienti elettronicamente programmati
dimostrano che in essi le persone diventano indolenti, impotenti,
narcisiste e apolitiche. Il processo politico si deteriora perché la gente
diviene incapace di governarsi e chiede invece di essere gestita.
Mi congratulo con Asahi Shimbun per i suoi sforzi miranti a
sollecitare un nuovo consenso democratico in Giappone che renda
consapevoli i suoi oltre sette milioni di lettori della necessità di limitare
l'influenza delle macchine sul loro comportamento. E' importante che
sia proprio il Giappone a prendere una simile iniziativa. Il Giappone
viene considerato la capitale dell'elettronica: sarebbe meraviglioso se
diventasse per il mondo intero il modello di una nuova politica di
autolimitazione nel campo delle comunicazioni, necessaria, a mio
avviso, se un popolo vuole continuare a governarsi da sé.La gestione elettronica della società come questione politica può
essere affrontata in vari modi. Io propongo, all'inizio di questa
consultazione pubblica, di considerarla come problema di ecologia
politica. Il termine 'ecologia', nel corso dell'ultimo decennio, ha
acquistato un nuovo e più ampio significato. Esso indica ancora un ramo
della biologia professionale, ma serve anche sempre più a definire
l'ambito in cui un ampio settore di pubblico politicamente organizzato
analizza e influenza le decisioni tecniche. Voglio esaminare i dispositivi
di gestione elettronica come un mutamento tecnico dell'ambiente umano
che, per essere innocuo, deve restare sotto controllo politico, e non
esclusivamente tecnico. Ho scelto questo tema per la mia conversazione
con i tre colleghi giapponesi a cui devo la conoscenza del vostro paese: i
professori Yoshikazu Sakamoto, Joshiro Tamanoi e Jun Ui.
Nei tredici minuti che ho ancora a disposizione su questo podio
voglio mettere in chiaro una distinzione che io considero fondamentale
per l'ecologia politica. Intendo distinguere l'ambiente come "commons",
cioè bene di uso comune, 'uso civico', dall'ambiente come risorsa.
Dalla nostra capacità di cogliere questa distinzione dipende non
solo la costruzione di una solida ecologia teorica, ma anche (cosa ancora
più importante) la possibilità di una legislazione ecologica efficace.
Minna-sané come vorrei, a questo punto, essere un allievo del
vostro poeta Zené il grande Basho. Allora forse in sole 17 sillabe saprei
tracciare la distinzione fra l'ambiente come bene di uso comune, in cui
le attività di sussistenza della gente sono immerse, e l'ambiente come
risorsa che serve alla produzione economica di quelle merci da cui
dipende la sopravvivenza in una società moderna. Se fossi un poeta,
forse saprei esprimere questa differenza in maniera così bella e incisiva
da farla penetrare nei vostri cuori e rendervela indimenticabile.
Disgraziatamente non sono un poeta giapponese. Sono costretto a
parlarvi in inglese, una lingua in cui, nel corso dell'ultimo secolo, questa
distinzione è andata perduta; e, inoltre, devo parlarvi attraverso una
traduzione. E solo perché posso contare sul genio del mio traduttore,
Mister Muramatsu, che oso cercare di recuperare significati dell'inglese
antico in un discorso pronunciato in Giappone.
"Commons" è infatti una parola dell'inglese antico. I miei amici
giapponesi mi dicono che il suo significato è abbastanza vicino a quello
che la parola "iriai" ha tuttora in giapponese. "Commons", come "iriai", è una parola che nell'epoca preindustriale veniva usata per indicare certi
aspetti dell'ambiente. La gente chiamava "commons" quelle parti
dell'ambiente per cui la consuetudine esigeva certe forme specifiche di
rispetto da parte della comunità. "Commons" (in tedesco "Allmende" o
"Gemeinheit", in italiano 'usi civici') denotava quella parte dell'ambiente
che si trovava al di fuori dei confini e delle proprietà, ma che le persone
avevano tuttavia diritto di usare, non per produrre merci, ma per la loro
sussistenza domestica. La legge della consuetudine che umanizzava
l'ambiente istituendo gli usi civici era di solito non scritta. E ciò non
solo perché la gente non si dava la pena di metterla per iscritto, ma
anche perché la realtà che essa proteggeva era troppo complessa per
essere riducibile in paragrafi. La legge degli usi civici regolava il diritto
di passaggio, il diritto di pesca e di caccia, il diritto di pascolo e quello
di raccogliere legna o piante medicinali nel bosco.
Una quercia, per esempio, poteva trovarsi nei "commons".
D'estate, la sua ombra serviva ai pastori e alle loro greggi; le sue
ghiande nutrivano i porci dei contadini della zona; i suoi rami secchi
fornivano legna da ardere alle vedove del villaggio; alcuni dei suoi
ramoscelli verdi, a primavera, venivano tagliati per ornare la chiesa; e al
tramonto poteva magari essere il luogo dove si riuniva l'assemblea del
villaggio. Parlando di "commons", "iriai", usi civici, la gente si riferiva
a un aspetto dell'ambiente limitato, necessario alla sopravvivenza della
comunità, utile a vari gruppi in modi diversi, ma che, in senso
strettamente economico, non veniva percepito come scarso.
Quando in Europa, parlando ai miei studenti all'università, uso la
parola "commons", essi pensano immediatamente al diciottesimo
secolo.
Pensano a quei pascoli in Inghilterra in cui ogni abitante del
villaggio poteva condurre qualche pecora; e ricordano la recinzione di
quei pascoli, che li trasformò da usi civici in risorsa per l'allevamento
commerciale. In primo luogo, tuttavia, i miei studenti ricordano il nuovo
tipo di povertà introdotto da quelle recinzioni: l'assoluto impoverimento
dei contadini, sottratti alla terra e costretti al lavoro salariato, e
l'arricchimento commerciale dei proprietari terrieri.
Il loro pensiero va subito all'emergere di un nuovo ordine
capitalistico. Quella dolorosa innovazione tende a far loro dimenticare
che le recinzioni rappresentano un cambiamento anche più profondo. La privatizzazione degli usi civici inaugura un nuovo ordinamento
ecologico. Le recinzioni non solo trasferirono fisicamente il controllo
dei pascoli dai contadini ai proprietari terrieri, ma segnarono anche un
radicale mutamento nell'atteggiamento della società nei confronti
dell'ambiente. Fino ad allora tutti i sistemi giuridici avevano considerato
la maggior parte dell'ambiente come "commons", bene di uso comune,
da cui la gente poteva trarre gran parte del proprio sostentamento senza
dover ricorrere al mercato. Dopo la privatizzazione, l'ambiente divenne
in primo luogo una risorsa al servizio di 'imprese', che, organizzando il
lavoro salariato, trasformavano la natura nei beni e nei servizi necessari
a soddisfare i bisogni fondamentali dei consumatori. Questo
cambiamento è il punto rispetto a cui l'economia politica è cieca.
Il mutamento in questione si comprende meglio pensando alle
strade, anziché ai pascoli. Che differenza c'era, vent'anni fa, fra le parti
nuove e quelle vecchie di Città del Messico! Nelle parti vecchie della
città le vie erano veri e propri usi civici. Vi era gente seduta per terra a
vendere verdura o carbone, mentre altre persone se ne stavano sedute
sulle loro sedie per strada a bere caffè o tequila. Alcuni vi tenevano
riunioni per decidere il nuovo capo-quartiere o per contrattare il prezzo
di un asino. Altri conducevano il proprio asino carico di mercanzie in
mezzo alla folla, oppure erano in sella. I bambini giocavano nella
cunetta; e nello stesso tempo i passanti si servivano della strada per
andare da un posto all'altro.
Quelle vie erano fatte per la gente. Come tutti i veri "commons", la
strada stessa era il prodotto della gente che ci viveva e che la rendeva
vivibile. Gli edifici sul bordo della strada non erano case private nel
senso moderno del termine, garage per il deposito notturno dei
lavoratori. La soglia di casa separava due spazi vivibili, uno intimo,
l'altro comune. Ma n‚ le case in questo senso intimo n‚ le strade come
usi civici sono sopravvissute allo sviluppo economico.
Nei quartieri nuovi di Città del Messico le strade non sono più
fatte per la gente. Esse sono ormai arterie per il traffico di automobili,
autobus, taxi e camion. I pedoni sono a malapena tollerati sulla strada, a
meno che siano in cammino verso una fermata dell'autobus. Se
rimanessero fermi o si sedessero per strada, ostacolerebbero il traffico e
rischierebbero di essere investiti. La strada è stata degradata da uso
civico a risorsa per la circolazione dei veicoli. La gente non può più circolare sulle proprie gambe: il traffico condiziona la mobilità delle
persone. La gente può circolare solo con le cinture allacciate e
trasportata da un veicolo.
La privatizzazione dei pascoli è stata contestata; ma la
trasformazione ancora più radicale dei pascoli (e delle strade) da usi
civici in risorse ha avuto luogo, fino a epoca recente, senza venire messa
in discussione. L'appropriazione dell'ambiente da parte di pochi è stata
chiaramente riconosciuta da molti come un abuso intollerabile.
Al contrario, la trasformazione, ancora più degradante, delle
persone in membri di una forza lavoro industriale e in consumatori è
stata, fino a epoca recente, tacitamente accettata. Da quasi cento anni
vari partiti politici contestano l'accumulazione delle risorse ambientali
in mani private. Ma il problema è stato affrontato in termini di
utilizzazione privata di tali risorse, non di estinzione degli usi civici.
Perciò finora le forze politiche anticapitalistiche hanno avallato la
legittimità della trasformazione degli usi civici in risorse.
Solo recentemente, alla base della società un nuovo tipo di
'intellettuale popolare' ha cominciato a riconoscere quello che è
successo. Le recinzioni hanno privato la gente del diritto a quel tipo di
ambiente da cui dipendeva, fin dagli inizi della storia, l'economia
morale della sussistenza. La suddivisione della terra, una volta accettata,
ridefinisce le comunità umane. Essa mina l'autonomia locale delle
comunità. La recinzione degli usi civici, perciò, corrisponde tanto agli
interessi dei burocrati statali e dei professionisti quanto a quelli dei
capitalisti. Essa consente al burocrate di considerare la comunità locale
incapace di provvedere al proprio sostentamento. Le persone diventano
soggetti economici, dipendenti per la propria sopravvivenza dalle merci
che vengono prodotte per loro.
Fondamentalmente, la maggior parte dei movimenti di base
rappresenta una rivolta contro questa ridefinizione delle persone come
consumatori, indotta dalla trasformazione dell'ambiente.
Minna-sané vi aspettavate che io parlassi di elettronica, non di
pascoli e di strade. Ma io sono uno storico: perciò ho voluto parlare
prima degli usi civici rurali com'erano in passato, per arrivare alla ben
più ampia minaccia all'uso comune dell'ambiente rappresentata oggi
dall'elettronica.
L'uomo che vi parla è nato cinquantacinque anni fa a Vienna. A un mese di età, è stato messo su un treno e poi su una nave e portato
all'isola di Brac, in un villaggio sulla costa dalmata, dove suo nonno
voleva impartirgli la sua benedizione. Mio nonno viveva nella casa
abitata dalla sua famiglia fin dai tempi in cui Muromachi governava
Kyoto. Da allora, vari governi si erano avvicendati in Dalmazia: i dogi
di Venezia, i sultani di Istanbul, i corsari di Almissa, gli imperatori
austriaci e i re jugoslavi. Ma i molti cambiamenti di uniforme e di
lingua dei governanti avevano influito ben poco sulla vita quotidiana
della gente nel corso di quei cinquecento anni. Gli stessi travi di olivo
sostenevano il tetto della casa di mio nonno.
L'acqua veniva ancora raccolta dalle stesse lastre di pietra sul tetto.
Il vino veniva prodotto pigiando l'uva negli stessi tini, il pesce pescato
dallo stesso tipo di barche e l'olio si otteneva da olivi piantati durante la
gioventù di Edo.
Mio nonno riceveva notizie del mondo due volte il mese. Le
notizie arrivavano col vaporetto, in tre giorni; in precedenza,
l'imbarcazione a vela che le portava impiegava cinque giorni. Ai tempi
in cui io sono nato, per la gente che viveva lontano dalle vie di
comunicazione principali la storia fluiva ancora lentamente, con un
ritmo impercettibile. Gran parte dell'ambiente era di uso comune. La
gente viveva in case costruite da sé, percorreva strade calcate dagli
zoccoli dei suoi animali, era autonoma nel procurarsi l'acqua e
nell'eliminare i rifiuti; e poteva contare sulla propria voce quando
voleva farsi sentire. Tutto questo è cambiato con il mio arrivo a Brac.
La stessa nave con cui io arrivai, nel 1926, scaricò sull'isola il
primo altoparlante. Pochi abitanti dell'isola avevano mai sentito, prima
d'allora, una cosa del genere. Fino a quel giorno, tutti gli uomini e le
donne avevano parlato con voci di potenza più o meno uguale. Da quel
momento in poi non sarebbe più stato così. Da quel momento, l'accesso
al microfono avrebbe determinato quale voce veniva amplificata. Il
silenzio cessava di far parte degli usi civici: esso diventava una risorsa
per la quale gli altoparlanti erano in concorrenza fra loro. E con ciò, il
linguaggio stesso veniva trasformato da uso civico locale in risorsa
nazionale per la comunicazione. Come la recinzione dei pascoli
accrebbe la produttività nazionale privando i contadini del diritto di
tenere qualche pecora, così l'invasione degli altoparlanti distrusse quel
silenzio che fino allora aveva dato a ogni uomo e a ogni donna la sua propria e uguale voce. Se non hai accesso a un altoparlante, sei messo a
tacere.
Spero che a questo punto l'analogia risulti chiara. Come gli usi
civici dei luoghi sono vulnerabili e possono venire distrutti dalla
motorizzazione del traffico, così l'uso civico del discorso è vulnerabile e
può venir distrutto dall'invasione dei moderni mezzi di comunicazione.
Il tema che propongo di discutere dovrebbe perciò essere chiaro:
come combattere l'appropriazione da parte di nuovi dispositivi e sistemi
elettronici di un bene comune che è più sottile e più intimamente
necessario al nostro essere di quanto lo siano i pascoli e le strade, un
bene comune almeno altrettanto prezioso quanto il silenzio. Il silenzio,
secondo le tradizioni sia orientali sia occidentali, è il grembo da cui
emergono gli esseri umani. Esso ci viene sottratto dalle macchine
elettroniche che imitano le persone. Così potremo facilmente diventare
sempre più dipendenti dalle macchine per parlare e per pensare, come
siamo già dipendenti dalle macchine per spostarci.
Questa trasformazione dell'ambiente da "commons" in risorsa
produttiva è la forma più radicale di degrado ambientale. Tale degrado
ha una lunga storia, che si sovrappone alla storia del capitalismo, ma
non è in alcun modo semplicemente riducibile a essa. Disgraziatamente
finora l'importanza di questa trasformazione è stata ignorata o
sottovalutata dall'ecologia politica. Essa dev'essere riconosciuta, se
vogliamo organizzare movimenti per la difesa di quel che rimane
dell'uso comune dell'ambiente. Questa difesa è il compito cruciale
dell'azione politica negli anni Ottanta. Il compito è urgente, perché gli
usi civici non hanno bisogno di polizia, ma le risorse sì. Proprio come il
traffico motorizzato, i computer necessitano di un regime di polizia, che
sarà presente in forze sempre maggiori e in modi sempre più sottili.
Per definizione le risorse richiedono una protezione poliziesca.
Una volta che tale protezione è in atto, il loro recupero come beni di uso
comune diviene sempre più difficile. E questa è una ulteriore ragione di
urgenza per il nostro impegno.
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