
Brian Froud
1) L’intellettualizzazione è l’ultimo stadio dell’espansione mercantile.
I progressi dell’intellettualità esprimono il progresso dell’organizzazione come bisogno prioritario dell’economia. Dal diciannovesimo secolo alla prima metà del ventesimo l’imperialismo mercantile si fonda su due preoccupazioni dominanti: lo sviluppo della tecnica e la conquista di mercati. Con l’apparizione del capitalismo di Stato ciò che passa in primo piano e la necessità di una organizzazione economica onnipresente.
La merce investe il suo potere in una amministrazione delle sue risorse dove essa tende a a prodursi e ad allargarsi secondo un circolo chiuso. Condannata a realizzare fino in fondo la sua propria astrazione, essa stessa esegue la sentenza pianificando e burocratizzando la sua morte e la morte delle società che la produce.
La burocrazia è la forma concreta di questa astrazione che svuota gli individui e loro sostanza umana e li riduce ad essere nient’altro che l’ombra della merce. Essa è il rapporto pratico che lo Stato intrattiene con se stesso cioè, con la parte di vita che annette, controlla, governa.
Quelli che la condizione di cittadino ha identificato con gli ingranaggi dello Stato descrivono volentieri la burocrazia come un’escrescenza assurda, un’ernia operabile con un trattamento appropriato, un apparato grottesco che impedirebbe un’organizzazione migliore delle cose. Ma essa è la realizzazione perfetta dello Stato come pensiero come separato dal vivente, e niente altro. Cos’è il pensiero così separato se non il prodotto del lavoro che ciascuno è costretto a fornire socialmente e a spese della propria vita?
Dopo che la merce ha finito di espandersi, essenzialmente attraverso le guerre e la colonizzazione, essa ha incominciato la conquista delle province del vivente con un’arroganza accresciuta dalle procedure di sfruttamento. Più si concretizza il suo bisogno di astrazione, più diventa tangibile la sua astrazione.
Il progresso dell’umano attraverso la merce accorda a tutti la libertà di pensare, mentre il simultaneo progresso della merce attraverso l’umano non accorda che la libertà di agire secondo un pensiero separato. Il lavoro del pensiero è il pensiero che fa lavorare. Ecco su cosa si fondano le nostre libertà!
Attingendo dalla vita una forza lavoro che poco a poco la esaurisce ognuno arriva a svuotarsi della sua presenza viva, a perdere il suo corpo, a non essere che un’immagine proiettata, sullo schermo del pensiero morto, dal film fantastico che gli presta le forme del vissuto. E molti stanno ancora a battersi per la liberalizzazione delle immagini.
L’emancipazione intellettualizzata non è che un altro balzo nella proletarizzazione. Il totalitarismo della merce si propaga attraverso la testa.
Il partito intellettuale costituisce l’esercito di riserva della burocrazia. Con il pretesto e il privilegio di non lavorare l’aristocrazia esercitava un’autorità che era in fondo un lavoro intellettuale. Al contrario, la borghesia, vede nel diritto - acquistato a caro prezzo - di governare, la vittoria dell’intelligenza sulla materia, la superiorità dell’intellettuale sul manuale. La sua funzione dirigente non porta più il sigillo del divino, ma si vuole « natura » pensante. Più il potere cibernetico assorbe il lavoro manuale, come l’industria ha inghiottito l’artigianato, più vada sé, che il lavoro generalizzato, all’insieme dei comportamenti, prende la forma di un lavoro intellettuale.
La funzione intellettuale è l’arma del padrone. Lo schiavo che se ne impadronisce è catturato. La stessa ragione che lo libera riproduce la schiavitù. Essa ha giustificato tutti i crimini dello Stato: gli dei, la gerarchia, la morale le appartengono, come tutto quello che perpetua il servaggio.
Ma da essa sono nati anche i miti insurrezionali di Prometeo e di Lucifero. Essa ha saputo ridicolizzare convenientemente gli dei, lavorare al fallimento del sacro, scalzare dal potere i signori, i padroni, i burocrati, è stata in tutte le rivolte, ha risposto a tutti gli appelli della libertà. Non merita questo ordine di cose che definisce la prospettiva del potere la sua reputazione di essere allo stesso tempo la migliore e la peggiore?
Tuttavia, essa perde ogni ambiguità quando rivela la sua partecipazione allo sviluppo contraddittorio della merce. Religiosa e antireligiosa, nelle società agrarie, diventa ideologica e anti-ideologica quando l’astrazione tangibile del denaro e del potere si allarga a tutte le attività umane. Essa non cessa di attaccare e di consolidare il sistema mercantile, di cui sposa il movimento di autodistruzione e di rafforzamento.
Alla fine dei conti, la classe burocratico-borghese ci guadagna tanto a reprimere le idee sovversive che a tollerarle - finché esse stanno separate dalla volontà di vivere. Il pensiero « rivoluzionario » serve alla liberazione della condizione oppressiva che il pensiero mantiene nel rapporto con il potere. Più chiaramente, la sua natura di lavoro intellettuale ne fa la più astuta e la più moderna delle repressioni, quella che si esercita in nome dell’emancipazione.
Voi che puntate sul progresso dell’intellettualità per accelerare la presa di coscienza delle masse, proponete, nei fatti, al proletariato da sempre condannato al lavoro manuale, di migliorare il suo destino diventando lavoratore intellettuale. Eccovi qui a fare, senza saperlo l’elogio dell’automazione, della cibernetica, dello spettacolo, dell’alienazione autoamministrata.
La peggiore intellettualità è quella che si rifiuta, che prende le parti del corpo contro la testa, oppone le forze oscure e oscurantiste dell’io ai lumi della ragione, preferisce il lavoro manuale a quello intellettuale come se non si trattasse di due momenti della stessa dittatura del lavoro. Quelli che si aspettano dalla muscolatura proletaria la verifica della radicalità del loro pensiero non sono molto diversi dagli ufficiali che fan fare le battaglie alla soldatesca. Il loro disprezzo dell’intellettuale esorcizza cinicamente il disprezzo che hanno per se stessi. Essi si sacrificano nella migliore della tradizione stalinista e fascista, al culto ambiguo del lavoro manuale e del lavoro intellettuale, questa divinità cornuta che si insinua, fino alla chiaroveggenza radicale, sotto il nome di teoria e di pratica. Il partito intellettuale non finisce di crescere all’interno del proletariato. Esso costituisce l’esercito di riserva della burocrazia. La canaglia spirituale rimpiazza opportunamente la canaglia in sottana. Ha le sue ortodossie e le sue eresie, le sue scomuniche e i suoi ecumenismi. Il lodare e vituperare alternativamente la nullità studente riconvertita in critica-critica e le teorie rivoluzionarie che un gruppetto dí pensatori fa pascolare nel libero campo degli affari tenta invano di dissimulare che la funzione intellettuale opera in ciascuno di noi e che ella ci proletarizza e ci ficca nella testa il cuneo progressista del deperimento mercantile.
Accettare la funzione intellettuale come l’unica forma di intelligenza, si gnifica lavorare alla rimozione dei desideri della vita, a reprimersi di più. L’illusione nata dai colpi inferti in passato al capitalismo non è più all’altezza dei tempi. Ora, è essa stessa a darci dei colpi più gravi ancora, perché ci spinge a separarci da noi stessi, realizzando praticamente il progetto di autodistruzione mercantile. Essa fa dell’emancipazione il misero approdo di una miserabile rimozione.
Pertanto, se la funzione intellettuale è l’arma essenziale della classe dominante, essa arriva al proletariato, classe senza un potere riconosciuto, come una intrusione dall’esterno; lo spirito che governa questo lavoro manuale attraverso cui si definiscono, all’inizio della loro storia, i proletari. Solo quando il proletario tenta di prendere il potere invece di distruggerlo essa si trasforma in un’astratta coscienza di classe, la cui interpretazione è riservata ai burocrati e ai timonieri della liberazione proletaria.
Come l’emancipazione si rinnega passando per la filiera intellettuale, così, il sussulto della volontà di vivere individuale, contro la proletarizzazione incombente, offre a ciascuno un’arma radicalmente diversa per sbarazzarsi delle attività separate dal godimento.
2) Il mondo alla rovescia raggiunge il suo punto di rovesciamento possibile quando la proletarizzazione per riflesso intellettuale non ha altra via d’uscita che la morte o la superiorità dell’intelligenza sensuale.
L’intellettualità cresce a spese della volontà di vivere. Poiché la divisione del lavoro si riproduce nella divisione del corpo, la separazione in schiavi e padroni ha fatto della testa il ricettacolo del pensiero separato. L’apparire di una classe intellettuale e di una classe manuale ne hanno fatto diventare il luogo del potere che controlla e ricaccia la sessualità nel resto del corpo.
A giudicare dal culto delle teste tagliate, sacerdoti e capi, fin dalle origini, sembrano aver vissuto concretamente questa separazione dal corpo. Non so cosa sia la morte naturale, ma la morte che noi conosciamo nasce nella culla del potere gerarchico, con la castrazione economica.
Per molto tempo è durato il costume di decapitare i condannati appartenenti alla classe superiore, mentre i colpevoli provenienti dalle classi inferiori - questi bassifondi libidinali che costituiscono il « corpo laborioso » dello Stato - sono pubblicamente appesi per il collo e subiscono lo strattone fino a svuotarsi, con una specie di orgasmo, della vergognosa materia che li compone, sperma, urina, escrementi. A questi sistemi rozzi si avvicinano, ancora i torturatori in camice bianco, gli psichiatri, gli educatori,quelli che usano gli elettrodi;è con più finezza, ormai, che l’astrazione crescente che ci guida ci prende per la testa e ci svuota della nostra sostanza umana. La razionalità nevrotica e le sue crisi di disinibizione «bestiale» e assurda sigillano la nostra epoca di gulag umanista con il marchio della lacerazione finale del corpo.
Il sistema cervicale si è modellato sul sistema mercantile. Esso traduce in meccanismo di potere l’organizzazione astratta dell’economia, catalizza la reazione di scambio in cui la vita si trasforma in lavoro. La testa diventa così il luogo del corpo estraniato da se stesso.
Più bisogno di comandare si identifica apertamente con un lavoro, più la testa porta la parola dello Stato fino ai confini dei territori non ancora controllati della vita. La società si riduce al mercato, i piaceri diventano un lavoro, il lavoro tende a intellettualizzarsi, e la corazza muscolare, reprimendo gli impulsi sessuali, mantiene la testa fuori dalla mischia e gli affida il mantenimento dell’ordine. Come la normalità di un tale mondo non potrebbe confondersi con una accolita di pazzi?
Stretta fra la testa che comanda, controlla, organizza, e il resto del corpo che esegue gli ordini e blocca l’uscita dei desideri, la « lotta di classe » riesce difficilmente a sfuggire la trappola dello scambio, essa si dibatte nell’immobilità costitutiva del mondo dominato dall’economia. E’ l’equilibrio nel terrore dove ogni parte reclama per sé il diritto all’insurrezione e alla repressione. Succede che il corpo scoppia, esige i suoi divertimenti, le sue licenze esige il suo carnevale, le sue sommosse. Cosa importa se continua a restare rigido, a reprimere i suoi desideri, a filtrarne l’energia a vantaggio del lavoro. Anche la testa sa prendersi le sue libertà, perdersi nelle stravaganze, sprofondare, delirare, identificarsi al corpo con lo zelo dell’intellettuale populista. Ciò che non sparisce mai è la separazione.
Sia che vegli sulla bestia apocalittica che dorme in noi o la liberi in un’orgia di sfrenatezza e di sangue, la funzione intellettuale continua a riprodurre l’evoluzione della merce che si distrugge distruggendo la vita, una vita che essa identifica scientificamente con la malattia da cui vuole assolutamente guarirci.
Le nevrosi del potere non possono volere che dei nevrotici a potere. Più risputiamo le medicine che teste rozze e meno rozze son d’accordo a farci ingoiare, più si raffinano i sistemi per farcele ingurgitare. Appena l’aspirazione al godimento minaccia di espandersi, ecco arriva l’ideologia psicosomatica ad affermare che «l’organico e lo psichico costituiscono una unità i cui termini sono indissociabili», ma per farci ignorare meglio l’origine della separazione e i mezzi per combatterla. Lo stesso vale per il culto della sensazione che si allarga quanto più si riduce a una astrazione a una immagine mentale. Mentre la vita si ritira fino ad essere una forma vuota, il sensualismo fiorisce sulla sua dove il piccolo uomo avido di guadagni viene a celebrare l’odore del fieno tagliato e della frutta matura. Piu il godimento è una questione dì testa, più si parla di culo.
L’emancipazione che parte dalla testa si porta dietro la sua propria putrefazione. Chiamo intellettuale non l’individuo che usa la testa più delle mani, ma chiunque lavori a rimuovere i suoi desideri dalla vita. L’intellettualità non si misura con il grado di sapere, di erudizione, di scienza, di discernimento d’intelligenza. Essa non traccia un confine fra, da una parte, il pensatore, l’artista, l’ideologo, il critico, l’organizzatore, il burocrate, il capo, e dall’altra, l’operaio, il manovale, il pugile, l’ignorante, il contadino, il macellaio, il bruto, il militare. E’ presente in ciascuno, perché traduce l’ancoraggio dell’economia nell’individuo, come la cultura, in senso lato, lo impone alla società.
La funzione intellettuale appartiene ai meccanismi di rimozione e di disinibizione. Porta fatalmente il marchio della trappola, del non-superamento, della peste delle emozioni, del cambiamento nell’immobilità. Il godimento essa lo vede solo a rovescio, con lo sguardo dell’impossibilità a godere, non vi scorge che un’illusione destinata a mascherare la vera mancanza di vita. L’intellettuale è l’individuo proletarizzato dall’inflazione cerebrale della merce, dal lavoro che produce il pensiero diviso dalla vita. Egli arriva alla comprensione degli esseri e delle cose attraverso un gioco di tramoggie funzionanti per compulsione ed espulsione, e questo genere di comprensione è tipico del mondo dominante, della merce che si nega e si rafforza. Non capisce niente se non per necessità, costrizione, ragione esterna; perché è vero, perché bisogna, perché questo è l’ordine perentorio venuto dal cielo delle idee che insieme venera e maledice.
Partire dalla funzione intellettuale, vuol dire prendere la direzione opposta dei desideri, reprimere la volontà di vivere per la volontà di potenza, che ne è l’inversione. Il proletariato, che subisce la parte più faticosa del lavoro, è meglio attrezzato per farla finita con l’intellettualità della classe dominante che l’ha organizzata e imposta. La condizione proletaria gode del privilegio di poter rifiutare i capi, ma questo rifiuto riproduce il principio che la comanda e serve solo a lubrificare gli ingranaggi della burocrazia, visto che non deriva immediatamente dalla volontà di vivere di ciascuno.
Il linguaggio dominante è la riduzione economica applicato al linguaggio del corpo. L’economia ha prodotto il suo linguaggio producendo il lavoro senza il quale non potrebbe esistere e sul quale si è modellata lentamente la società. La trasformazione della vita in forza di produzione si esprime necessariamente secondo le forme astratte che ci svuotano della nostra umanità. La comunicazione ufficiale è fondata sull’inversione dei desideri e perpetua la nostra alienazione radicale.
Esiste, tuttavia, un infralinguaggio che l’economia deve recuperare giacché ha bisogno di conquistare le zone non ancora controllate della vita. Intorno ai vuoti oscuri del linguaggio del dominio, danzano affannosamente le parole del potere. Quello che non possono definire, afferrare, nominare, tentano di trasformarlo in "gratuità", vale a dire in assurdità, tentativi maldestri, arretratezza, aldilà leggendario, sconvenienza.
L’abisso da dove salgono le pericolose pulsioni sessuali, l’antico potere patriarcale, l’ha immediatamente equiparato alla bocca della donna, per la quale il godimento è ancora un canto, un inno panico di cui la musica e la poesia conservano il lontano ricordo.
La saliva del linguaggio sensuale, del linguaggio del corpo, si secca lungo la storia. La donna è, all’inizio, il vaso malefico dove il potere tenta di imprigionare l’incomprensibile.
Le favole, la letteratura, la religione non la descrivono forse come quella che parla troppo e parla per non dire niente? Essa non scambia le parole, le getta a piacere. Chiacchierona, petulante, confidente, indiscreta e infedele, simbolizza la parte oscura dell’umanità, recalcitrante alle ragioni dell’intelletto, che rifiuta l’economia del linguaggio in cui l’economia si esprime. Parola selvaggia, recuperata al sacro soprattutto negli antichi riti: seduta su un treppiede, il sesso aperto al di sopra del suolo mentre dalle crepe escono vapori sulfurei, la profetessa lancia dalla bocca parole e grida giaculatorie che i sacerdoti traducono ai loro clienti. Anche le streghe danzeranno nude sotto la luna, bocche del cielo, fino al trance orgiastico nel quale profetizzano. Più tardi, gli uomini, nella loro infinita accondiscendenza, accrediteranno le donne di una qualità che si compiaceranno di non avere, l’intuizione, un orecchio misterioso che capta le vibrazioni occulte delle cose, una comunicazione che i criteri del linguaggio economico giudicano naturalmente sottosviluppata.
Le donne hanno per lungo tempo diviso con gli artisti,i bambini e i folli, il privilegio di gridare, cantare, piangere, gesticolare, dire qualsiasi cosa, tradire quello che non va detto. Dopo che l’industrializzazione le ha emancipate all’inestimabile diritto di lavorare in fabbrica, guadagnare un salario, dirigere un’impresa e comandare una divisione aereo-navale - mentre gli artisti entrano nel funzionariato della promozione culturale - non restano che i bambini e i cosiddetti malati di mente ad esprimere confusamente le pieghe del linguaggio sfuggito all’influsso della merce.
L’intellettualità compie il filtraggio del linguaggio con l’economia. Dal discorso quotidiano, fino ai gesti impacciati nella peste delle emozioni, l’espressione e la comunicazione si trasformano a loro volta in lavoro, un modo costrittivo di esistenza, una astrazione del vissuto. L’aspetto critico e negatore della funzione intellettuale ha così bene dimostrato la menzogna del linguaggio dominante che ha finito per imporsi come verità. Ma la verità svelata attraverso l’intellettualità non è forse la confessione spontanea dell’autodistruzione mercantile?
Che valore ha una verità intellettuale che è d’accordo nel dissimulare la menzogna che la fonda, la sua natura di lavoro, di separazione, di castrazione? Non è che la macchia di sangue del mondo alla rovescia dei desideri di morte.
La parola che si «ammutoliva» per il suo silenzio e le sue falsità si modernizza diventando la parola del consenso. L’inconscio è rivelato, ma a profitto di una nuova oppressione, i gesti interpretati e commentati forniscono i materiali per le altre requisitorie. Ognuno si fa trasparente per essere meglio giudicato. Non bisogna ingannarsi sulle persone! Bisogna dire tutto! Via dunque! L’era della franchezza e della trasparenza arriverà a far rimpiangere la vecchia lingua biforcuta, l’ipocrisia del puritano e del burocrate rivoluzionario. Là, la separazione era evidente, ora, invece, la verità intellettuale ricostruisce l’unità della vita nella sua perfetta astrazione. La dittatura delle parole su tutti gli aspetti del vissuto è peggiore di quella del silenzio, perché la vita non ha niente in comune con il linguaggio che le è imposto.
Che approvi o no il mondo dominante, il linguaggio ridotto all’intellettualità è sempre e solo lavoro e, il suo rifiuto, lavoro di rifiuto. Per quanto radicale si creda, non si dissocia dalla concrezione mercantile che ci distrugge.
Tuttavia, enuncia questo godimento che porta in sé la fine dell’intellettualità, sia quando tenta di dissimulare la sua funzione repressiva, sia quando cerca di definire ciò per cui mancano le parole.
La lingua qui impiegata non nasconde il suo intrinseco discredito. La critica che si rivolge contro di sé non riesce ad evitare, sapendolo, il processo mercantile. Del resto, non può distruggersi all’interno del suo stesso movimento. E’ alla soglia della vita, dove necessariamente si ferma, che aspetta dalla vita, la sua distruzione. E’ dall’esuberanza sensuale di ciascuno, dalla realizzazione individuale dei desideri che aspetta la sua sparizione. Ed è la sola possibilità che abbiamo di farla finita con le parole e con i segni che governano il corpo e la società.
Quando l’unità del sentire l’avrà vinta sul pensiero separato, più niente sarà nominato che non distrugga allo stesso tempo il nome.
L’intellettualità parla la lingua della castrazione. E’ sufficiente ascoltare la maggior parte delle conversazioni: ordini dati o suggeriti,rapporti di polizia, requisitorie da procuratori, panegirici da avvocati. Nello sferragliamento verbale del prestigio e dell’interesse, avere l’ultima parola non nasconde più che si ha l’ultima delle vite.
La ferocia scaturita dalla repressione dei desideri si libera in urla, polemiche, colpi di spillo e botte che non hanno altra ragione di quella dell’economia che distrugge l’umano. Il linguaggio è così compenetrato di una tale fatalità da paralizzare subito ogni fondamentale rimessa in discussione del sistema mercantile.
Più lascerete che il linguaggio della volontà di potenza blocchi l’impulso alla vita nella corazza muscolare, più vi distruggerete nel flusso di emozioni negative, più subirete l’usura spregevole dello scambio che emana da ogni incontro. Parlate di un film, di un amico, di una avventura, di un avversario, di una futilità? Non sono che constatazioni di elogio o di svalutazione nati dalle vostre rinunce; compensazioni ambiziose o mortificate cercano di riempire bene o male il vaso rotto delle vostre frustrazioni. A che pro fustigare i politicanti malati di virtù, i giornalisti bugiardi, le vedettes radicali dello spettacolo rivoluzionario? In lotta contro di essi con il loro stesso linguaggio, voi vi associate con loro nei fatti, una comune castrazione dei desideri vi unisce nel bene e nel male.
A parlare per gli altri, mentre altri parlano per me, come non perdere il senso della vita a vantaggio del linguaggio che mi altera, come fare a tenere il filo dei desideri nel groviglio inestricabile della loro inversione?
Le chiacchiere pedagogiche che cullano l’infanzia salmodiano la lezione delle tenebre e del terrore. I racconti di morte, di malattie, di incidenti, di cataclismi, di miseria quotidiana danno il tono su cui si modulano gli appelli alla rivolta e gli inviti alla rassegnazione, la colpevolezza e i suoi esorcismi. Il terrorismo del linguaggio familiare regna sulla vita intera. Questa peste delle emozioni, questo mormorio patetico, questa ironia congelata che ossessiona i discorsi, le frasi dette a tavola, le dispute, le rotture e le riconciliazioni, tutto questo linguaggio della testa dove la sessualità è investita in una mostruosa inversione ha, sotto la varietà delle sue intonazioni, dei gesti e delle espressioni, un solo significato: la castrazione iniziale.
Ora, bisogna bene che il linguaggio che astrae l’individuo da sé stesso, lo appende per il collo, lo confronta, lo misura, lo scambia ad arbitrio della sintassi al potere, colpito dalla sua stessa miseria, sveli il suo di qua e il suo di là, la volontà di vivere che, unica, manca di un linguaggio riconosciuto. Questa funzione intellettuale che ci trascina per la testa, noi la stiamo spingendo verso le sue ultime difese, togliendole l’alibi della sua autocritica e piegandola davanti alle porte dell’indicibile per farle gridare «chi vive?». E’ da questo grido che verrà la sua distruzione.
Chi vuole veramente essere innamorato di sé in un mondo innamorato di lui perde a poco a poco la sua esistenza intellettuale, non esiste più niente nell’ordine del linguaggio, perché godendo, egli cessa di lavorare. Una persona gelosa, autoritaria, avara può ben capire e rimproverarsi questi odiosi atteggiamenti, tuttavia, non cambierà, ma vi si attaccherà attraverso i tormenti masochisti della cattiva coscienza e l’astuzia sadica della menzogna. Quando l’autoanalisi gli riveli, sotto l’angoscia e le voluttà che prova, i piaceri della vita che lì si nascondono rovesciati, eccolo giunto al rovesciamento di prospettiva. Qui si arresta l’autodistruzione della funzione intellettuale, qui si arresta il Libro dei piaceri. Qui, ciascuno è libero di accontentarsi della sua preveggenza e morirne, o di accordare all’impulso dei suoi desideri l’energia abitualmente usata a vessarli.
L’ultima pratica dell’intellettualità è d’indicare quello che non può raggiungere, la vita intorno alla quale essa si stringe e che nondimeno la distruggerà.
I progressi dell’intellettualità esprimono il progresso dell’organizzazione come bisogno prioritario dell’economia. Dal diciannovesimo secolo alla prima metà del ventesimo l’imperialismo mercantile si fonda su due preoccupazioni dominanti: lo sviluppo della tecnica e la conquista di mercati. Con l’apparizione del capitalismo di Stato ciò che passa in primo piano e la necessità di una organizzazione economica onnipresente.
La merce investe il suo potere in una amministrazione delle sue risorse dove essa tende a a prodursi e ad allargarsi secondo un circolo chiuso. Condannata a realizzare fino in fondo la sua propria astrazione, essa stessa esegue la sentenza pianificando e burocratizzando la sua morte e la morte delle società che la produce.
La burocrazia è la forma concreta di questa astrazione che svuota gli individui e loro sostanza umana e li riduce ad essere nient’altro che l’ombra della merce. Essa è il rapporto pratico che lo Stato intrattiene con se stesso cioè, con la parte di vita che annette, controlla, governa.
Quelli che la condizione di cittadino ha identificato con gli ingranaggi dello Stato descrivono volentieri la burocrazia come un’escrescenza assurda, un’ernia operabile con un trattamento appropriato, un apparato grottesco che impedirebbe un’organizzazione migliore delle cose. Ma essa è la realizzazione perfetta dello Stato come pensiero come separato dal vivente, e niente altro. Cos’è il pensiero così separato se non il prodotto del lavoro che ciascuno è costretto a fornire socialmente e a spese della propria vita?
Dopo che la merce ha finito di espandersi, essenzialmente attraverso le guerre e la colonizzazione, essa ha incominciato la conquista delle province del vivente con un’arroganza accresciuta dalle procedure di sfruttamento. Più si concretizza il suo bisogno di astrazione, più diventa tangibile la sua astrazione.
Il progresso dell’umano attraverso la merce accorda a tutti la libertà di pensare, mentre il simultaneo progresso della merce attraverso l’umano non accorda che la libertà di agire secondo un pensiero separato. Il lavoro del pensiero è il pensiero che fa lavorare. Ecco su cosa si fondano le nostre libertà!
Attingendo dalla vita una forza lavoro che poco a poco la esaurisce ognuno arriva a svuotarsi della sua presenza viva, a perdere il suo corpo, a non essere che un’immagine proiettata, sullo schermo del pensiero morto, dal film fantastico che gli presta le forme del vissuto. E molti stanno ancora a battersi per la liberalizzazione delle immagini.
L’emancipazione intellettualizzata non è che un altro balzo nella proletarizzazione. Il totalitarismo della merce si propaga attraverso la testa.
Il partito intellettuale costituisce l’esercito di riserva della burocrazia. Con il pretesto e il privilegio di non lavorare l’aristocrazia esercitava un’autorità che era in fondo un lavoro intellettuale. Al contrario, la borghesia, vede nel diritto - acquistato a caro prezzo - di governare, la vittoria dell’intelligenza sulla materia, la superiorità dell’intellettuale sul manuale. La sua funzione dirigente non porta più il sigillo del divino, ma si vuole « natura » pensante. Più il potere cibernetico assorbe il lavoro manuale, come l’industria ha inghiottito l’artigianato, più vada sé, che il lavoro generalizzato, all’insieme dei comportamenti, prende la forma di un lavoro intellettuale.
La funzione intellettuale è l’arma del padrone. Lo schiavo che se ne impadronisce è catturato. La stessa ragione che lo libera riproduce la schiavitù. Essa ha giustificato tutti i crimini dello Stato: gli dei, la gerarchia, la morale le appartengono, come tutto quello che perpetua il servaggio.
Ma da essa sono nati anche i miti insurrezionali di Prometeo e di Lucifero. Essa ha saputo ridicolizzare convenientemente gli dei, lavorare al fallimento del sacro, scalzare dal potere i signori, i padroni, i burocrati, è stata in tutte le rivolte, ha risposto a tutti gli appelli della libertà. Non merita questo ordine di cose che definisce la prospettiva del potere la sua reputazione di essere allo stesso tempo la migliore e la peggiore?
Tuttavia, essa perde ogni ambiguità quando rivela la sua partecipazione allo sviluppo contraddittorio della merce. Religiosa e antireligiosa, nelle società agrarie, diventa ideologica e anti-ideologica quando l’astrazione tangibile del denaro e del potere si allarga a tutte le attività umane. Essa non cessa di attaccare e di consolidare il sistema mercantile, di cui sposa il movimento di autodistruzione e di rafforzamento.
Alla fine dei conti, la classe burocratico-borghese ci guadagna tanto a reprimere le idee sovversive che a tollerarle - finché esse stanno separate dalla volontà di vivere. Il pensiero « rivoluzionario » serve alla liberazione della condizione oppressiva che il pensiero mantiene nel rapporto con il potere. Più chiaramente, la sua natura di lavoro intellettuale ne fa la più astuta e la più moderna delle repressioni, quella che si esercita in nome dell’emancipazione.
Voi che puntate sul progresso dell’intellettualità per accelerare la presa di coscienza delle masse, proponete, nei fatti, al proletariato da sempre condannato al lavoro manuale, di migliorare il suo destino diventando lavoratore intellettuale. Eccovi qui a fare, senza saperlo l’elogio dell’automazione, della cibernetica, dello spettacolo, dell’alienazione autoamministrata.
La peggiore intellettualità è quella che si rifiuta, che prende le parti del corpo contro la testa, oppone le forze oscure e oscurantiste dell’io ai lumi della ragione, preferisce il lavoro manuale a quello intellettuale come se non si trattasse di due momenti della stessa dittatura del lavoro. Quelli che si aspettano dalla muscolatura proletaria la verifica della radicalità del loro pensiero non sono molto diversi dagli ufficiali che fan fare le battaglie alla soldatesca. Il loro disprezzo dell’intellettuale esorcizza cinicamente il disprezzo che hanno per se stessi. Essi si sacrificano nella migliore della tradizione stalinista e fascista, al culto ambiguo del lavoro manuale e del lavoro intellettuale, questa divinità cornuta che si insinua, fino alla chiaroveggenza radicale, sotto il nome di teoria e di pratica. Il partito intellettuale non finisce di crescere all’interno del proletariato. Esso costituisce l’esercito di riserva della burocrazia. La canaglia spirituale rimpiazza opportunamente la canaglia in sottana. Ha le sue ortodossie e le sue eresie, le sue scomuniche e i suoi ecumenismi. Il lodare e vituperare alternativamente la nullità studente riconvertita in critica-critica e le teorie rivoluzionarie che un gruppetto dí pensatori fa pascolare nel libero campo degli affari tenta invano di dissimulare che la funzione intellettuale opera in ciascuno di noi e che ella ci proletarizza e ci ficca nella testa il cuneo progressista del deperimento mercantile.
Accettare la funzione intellettuale come l’unica forma di intelligenza, si gnifica lavorare alla rimozione dei desideri della vita, a reprimersi di più. L’illusione nata dai colpi inferti in passato al capitalismo non è più all’altezza dei tempi. Ora, è essa stessa a darci dei colpi più gravi ancora, perché ci spinge a separarci da noi stessi, realizzando praticamente il progetto di autodistruzione mercantile. Essa fa dell’emancipazione il misero approdo di una miserabile rimozione.
Pertanto, se la funzione intellettuale è l’arma essenziale della classe dominante, essa arriva al proletariato, classe senza un potere riconosciuto, come una intrusione dall’esterno; lo spirito che governa questo lavoro manuale attraverso cui si definiscono, all’inizio della loro storia, i proletari. Solo quando il proletario tenta di prendere il potere invece di distruggerlo essa si trasforma in un’astratta coscienza di classe, la cui interpretazione è riservata ai burocrati e ai timonieri della liberazione proletaria.
Come l’emancipazione si rinnega passando per la filiera intellettuale, così, il sussulto della volontà di vivere individuale, contro la proletarizzazione incombente, offre a ciascuno un’arma radicalmente diversa per sbarazzarsi delle attività separate dal godimento.
2) Il mondo alla rovescia raggiunge il suo punto di rovesciamento possibile quando la proletarizzazione per riflesso intellettuale non ha altra via d’uscita che la morte o la superiorità dell’intelligenza sensuale.
L’intellettualità cresce a spese della volontà di vivere. Poiché la divisione del lavoro si riproduce nella divisione del corpo, la separazione in schiavi e padroni ha fatto della testa il ricettacolo del pensiero separato. L’apparire di una classe intellettuale e di una classe manuale ne hanno fatto diventare il luogo del potere che controlla e ricaccia la sessualità nel resto del corpo.
A giudicare dal culto delle teste tagliate, sacerdoti e capi, fin dalle origini, sembrano aver vissuto concretamente questa separazione dal corpo. Non so cosa sia la morte naturale, ma la morte che noi conosciamo nasce nella culla del potere gerarchico, con la castrazione economica.
Per molto tempo è durato il costume di decapitare i condannati appartenenti alla classe superiore, mentre i colpevoli provenienti dalle classi inferiori - questi bassifondi libidinali che costituiscono il « corpo laborioso » dello Stato - sono pubblicamente appesi per il collo e subiscono lo strattone fino a svuotarsi, con una specie di orgasmo, della vergognosa materia che li compone, sperma, urina, escrementi. A questi sistemi rozzi si avvicinano, ancora i torturatori in camice bianco, gli psichiatri, gli educatori,quelli che usano gli elettrodi;è con più finezza, ormai, che l’astrazione crescente che ci guida ci prende per la testa e ci svuota della nostra sostanza umana. La razionalità nevrotica e le sue crisi di disinibizione «bestiale» e assurda sigillano la nostra epoca di gulag umanista con il marchio della lacerazione finale del corpo.
Il sistema cervicale si è modellato sul sistema mercantile. Esso traduce in meccanismo di potere l’organizzazione astratta dell’economia, catalizza la reazione di scambio in cui la vita si trasforma in lavoro. La testa diventa così il luogo del corpo estraniato da se stesso.
Più bisogno di comandare si identifica apertamente con un lavoro, più la testa porta la parola dello Stato fino ai confini dei territori non ancora controllati della vita. La società si riduce al mercato, i piaceri diventano un lavoro, il lavoro tende a intellettualizzarsi, e la corazza muscolare, reprimendo gli impulsi sessuali, mantiene la testa fuori dalla mischia e gli affida il mantenimento dell’ordine. Come la normalità di un tale mondo non potrebbe confondersi con una accolita di pazzi?
Stretta fra la testa che comanda, controlla, organizza, e il resto del corpo che esegue gli ordini e blocca l’uscita dei desideri, la « lotta di classe » riesce difficilmente a sfuggire la trappola dello scambio, essa si dibatte nell’immobilità costitutiva del mondo dominato dall’economia. E’ l’equilibrio nel terrore dove ogni parte reclama per sé il diritto all’insurrezione e alla repressione. Succede che il corpo scoppia, esige i suoi divertimenti, le sue licenze esige il suo carnevale, le sue sommosse. Cosa importa se continua a restare rigido, a reprimere i suoi desideri, a filtrarne l’energia a vantaggio del lavoro. Anche la testa sa prendersi le sue libertà, perdersi nelle stravaganze, sprofondare, delirare, identificarsi al corpo con lo zelo dell’intellettuale populista. Ciò che non sparisce mai è la separazione.
Sia che vegli sulla bestia apocalittica che dorme in noi o la liberi in un’orgia di sfrenatezza e di sangue, la funzione intellettuale continua a riprodurre l’evoluzione della merce che si distrugge distruggendo la vita, una vita che essa identifica scientificamente con la malattia da cui vuole assolutamente guarirci.
Le nevrosi del potere non possono volere che dei nevrotici a potere. Più risputiamo le medicine che teste rozze e meno rozze son d’accordo a farci ingoiare, più si raffinano i sistemi per farcele ingurgitare. Appena l’aspirazione al godimento minaccia di espandersi, ecco arriva l’ideologia psicosomatica ad affermare che «l’organico e lo psichico costituiscono una unità i cui termini sono indissociabili», ma per farci ignorare meglio l’origine della separazione e i mezzi per combatterla. Lo stesso vale per il culto della sensazione che si allarga quanto più si riduce a una astrazione a una immagine mentale. Mentre la vita si ritira fino ad essere una forma vuota, il sensualismo fiorisce sulla sua dove il piccolo uomo avido di guadagni viene a celebrare l’odore del fieno tagliato e della frutta matura. Piu il godimento è una questione dì testa, più si parla di culo.
L’emancipazione che parte dalla testa si porta dietro la sua propria putrefazione. Chiamo intellettuale non l’individuo che usa la testa più delle mani, ma chiunque lavori a rimuovere i suoi desideri dalla vita. L’intellettualità non si misura con il grado di sapere, di erudizione, di scienza, di discernimento d’intelligenza. Essa non traccia un confine fra, da una parte, il pensatore, l’artista, l’ideologo, il critico, l’organizzatore, il burocrate, il capo, e dall’altra, l’operaio, il manovale, il pugile, l’ignorante, il contadino, il macellaio, il bruto, il militare. E’ presente in ciascuno, perché traduce l’ancoraggio dell’economia nell’individuo, come la cultura, in senso lato, lo impone alla società.
La funzione intellettuale appartiene ai meccanismi di rimozione e di disinibizione. Porta fatalmente il marchio della trappola, del non-superamento, della peste delle emozioni, del cambiamento nell’immobilità. Il godimento essa lo vede solo a rovescio, con lo sguardo dell’impossibilità a godere, non vi scorge che un’illusione destinata a mascherare la vera mancanza di vita. L’intellettuale è l’individuo proletarizzato dall’inflazione cerebrale della merce, dal lavoro che produce il pensiero diviso dalla vita. Egli arriva alla comprensione degli esseri e delle cose attraverso un gioco di tramoggie funzionanti per compulsione ed espulsione, e questo genere di comprensione è tipico del mondo dominante, della merce che si nega e si rafforza. Non capisce niente se non per necessità, costrizione, ragione esterna; perché è vero, perché bisogna, perché questo è l’ordine perentorio venuto dal cielo delle idee che insieme venera e maledice.
Partire dalla funzione intellettuale, vuol dire prendere la direzione opposta dei desideri, reprimere la volontà di vivere per la volontà di potenza, che ne è l’inversione. Il proletariato, che subisce la parte più faticosa del lavoro, è meglio attrezzato per farla finita con l’intellettualità della classe dominante che l’ha organizzata e imposta. La condizione proletaria gode del privilegio di poter rifiutare i capi, ma questo rifiuto riproduce il principio che la comanda e serve solo a lubrificare gli ingranaggi della burocrazia, visto che non deriva immediatamente dalla volontà di vivere di ciascuno.
Il linguaggio dominante è la riduzione economica applicato al linguaggio del corpo. L’economia ha prodotto il suo linguaggio producendo il lavoro senza il quale non potrebbe esistere e sul quale si è modellata lentamente la società. La trasformazione della vita in forza di produzione si esprime necessariamente secondo le forme astratte che ci svuotano della nostra umanità. La comunicazione ufficiale è fondata sull’inversione dei desideri e perpetua la nostra alienazione radicale.
Esiste, tuttavia, un infralinguaggio che l’economia deve recuperare giacché ha bisogno di conquistare le zone non ancora controllate della vita. Intorno ai vuoti oscuri del linguaggio del dominio, danzano affannosamente le parole del potere. Quello che non possono definire, afferrare, nominare, tentano di trasformarlo in "gratuità", vale a dire in assurdità, tentativi maldestri, arretratezza, aldilà leggendario, sconvenienza.
L’abisso da dove salgono le pericolose pulsioni sessuali, l’antico potere patriarcale, l’ha immediatamente equiparato alla bocca della donna, per la quale il godimento è ancora un canto, un inno panico di cui la musica e la poesia conservano il lontano ricordo.
La saliva del linguaggio sensuale, del linguaggio del corpo, si secca lungo la storia. La donna è, all’inizio, il vaso malefico dove il potere tenta di imprigionare l’incomprensibile.
Le favole, la letteratura, la religione non la descrivono forse come quella che parla troppo e parla per non dire niente? Essa non scambia le parole, le getta a piacere. Chiacchierona, petulante, confidente, indiscreta e infedele, simbolizza la parte oscura dell’umanità, recalcitrante alle ragioni dell’intelletto, che rifiuta l’economia del linguaggio in cui l’economia si esprime. Parola selvaggia, recuperata al sacro soprattutto negli antichi riti: seduta su un treppiede, il sesso aperto al di sopra del suolo mentre dalle crepe escono vapori sulfurei, la profetessa lancia dalla bocca parole e grida giaculatorie che i sacerdoti traducono ai loro clienti. Anche le streghe danzeranno nude sotto la luna, bocche del cielo, fino al trance orgiastico nel quale profetizzano. Più tardi, gli uomini, nella loro infinita accondiscendenza, accrediteranno le donne di una qualità che si compiaceranno di non avere, l’intuizione, un orecchio misterioso che capta le vibrazioni occulte delle cose, una comunicazione che i criteri del linguaggio economico giudicano naturalmente sottosviluppata.
Le donne hanno per lungo tempo diviso con gli artisti,i bambini e i folli, il privilegio di gridare, cantare, piangere, gesticolare, dire qualsiasi cosa, tradire quello che non va detto. Dopo che l’industrializzazione le ha emancipate all’inestimabile diritto di lavorare in fabbrica, guadagnare un salario, dirigere un’impresa e comandare una divisione aereo-navale - mentre gli artisti entrano nel funzionariato della promozione culturale - non restano che i bambini e i cosiddetti malati di mente ad esprimere confusamente le pieghe del linguaggio sfuggito all’influsso della merce.
L’intellettualità compie il filtraggio del linguaggio con l’economia. Dal discorso quotidiano, fino ai gesti impacciati nella peste delle emozioni, l’espressione e la comunicazione si trasformano a loro volta in lavoro, un modo costrittivo di esistenza, una astrazione del vissuto. L’aspetto critico e negatore della funzione intellettuale ha così bene dimostrato la menzogna del linguaggio dominante che ha finito per imporsi come verità. Ma la verità svelata attraverso l’intellettualità non è forse la confessione spontanea dell’autodistruzione mercantile?
Che valore ha una verità intellettuale che è d’accordo nel dissimulare la menzogna che la fonda, la sua natura di lavoro, di separazione, di castrazione? Non è che la macchia di sangue del mondo alla rovescia dei desideri di morte.
La parola che si «ammutoliva» per il suo silenzio e le sue falsità si modernizza diventando la parola del consenso. L’inconscio è rivelato, ma a profitto di una nuova oppressione, i gesti interpretati e commentati forniscono i materiali per le altre requisitorie. Ognuno si fa trasparente per essere meglio giudicato. Non bisogna ingannarsi sulle persone! Bisogna dire tutto! Via dunque! L’era della franchezza e della trasparenza arriverà a far rimpiangere la vecchia lingua biforcuta, l’ipocrisia del puritano e del burocrate rivoluzionario. Là, la separazione era evidente, ora, invece, la verità intellettuale ricostruisce l’unità della vita nella sua perfetta astrazione. La dittatura delle parole su tutti gli aspetti del vissuto è peggiore di quella del silenzio, perché la vita non ha niente in comune con il linguaggio che le è imposto.
Che approvi o no il mondo dominante, il linguaggio ridotto all’intellettualità è sempre e solo lavoro e, il suo rifiuto, lavoro di rifiuto. Per quanto radicale si creda, non si dissocia dalla concrezione mercantile che ci distrugge.
Tuttavia, enuncia questo godimento che porta in sé la fine dell’intellettualità, sia quando tenta di dissimulare la sua funzione repressiva, sia quando cerca di definire ciò per cui mancano le parole.
La lingua qui impiegata non nasconde il suo intrinseco discredito. La critica che si rivolge contro di sé non riesce ad evitare, sapendolo, il processo mercantile. Del resto, non può distruggersi all’interno del suo stesso movimento. E’ alla soglia della vita, dove necessariamente si ferma, che aspetta dalla vita, la sua distruzione. E’ dall’esuberanza sensuale di ciascuno, dalla realizzazione individuale dei desideri che aspetta la sua sparizione. Ed è la sola possibilità che abbiamo di farla finita con le parole e con i segni che governano il corpo e la società.
Quando l’unità del sentire l’avrà vinta sul pensiero separato, più niente sarà nominato che non distrugga allo stesso tempo il nome.
L’intellettualità parla la lingua della castrazione. E’ sufficiente ascoltare la maggior parte delle conversazioni: ordini dati o suggeriti,rapporti di polizia, requisitorie da procuratori, panegirici da avvocati. Nello sferragliamento verbale del prestigio e dell’interesse, avere l’ultima parola non nasconde più che si ha l’ultima delle vite.
La ferocia scaturita dalla repressione dei desideri si libera in urla, polemiche, colpi di spillo e botte che non hanno altra ragione di quella dell’economia che distrugge l’umano. Il linguaggio è così compenetrato di una tale fatalità da paralizzare subito ogni fondamentale rimessa in discussione del sistema mercantile.
Più lascerete che il linguaggio della volontà di potenza blocchi l’impulso alla vita nella corazza muscolare, più vi distruggerete nel flusso di emozioni negative, più subirete l’usura spregevole dello scambio che emana da ogni incontro. Parlate di un film, di un amico, di una avventura, di un avversario, di una futilità? Non sono che constatazioni di elogio o di svalutazione nati dalle vostre rinunce; compensazioni ambiziose o mortificate cercano di riempire bene o male il vaso rotto delle vostre frustrazioni. A che pro fustigare i politicanti malati di virtù, i giornalisti bugiardi, le vedettes radicali dello spettacolo rivoluzionario? In lotta contro di essi con il loro stesso linguaggio, voi vi associate con loro nei fatti, una comune castrazione dei desideri vi unisce nel bene e nel male.
A parlare per gli altri, mentre altri parlano per me, come non perdere il senso della vita a vantaggio del linguaggio che mi altera, come fare a tenere il filo dei desideri nel groviglio inestricabile della loro inversione?
Le chiacchiere pedagogiche che cullano l’infanzia salmodiano la lezione delle tenebre e del terrore. I racconti di morte, di malattie, di incidenti, di cataclismi, di miseria quotidiana danno il tono su cui si modulano gli appelli alla rivolta e gli inviti alla rassegnazione, la colpevolezza e i suoi esorcismi. Il terrorismo del linguaggio familiare regna sulla vita intera. Questa peste delle emozioni, questo mormorio patetico, questa ironia congelata che ossessiona i discorsi, le frasi dette a tavola, le dispute, le rotture e le riconciliazioni, tutto questo linguaggio della testa dove la sessualità è investita in una mostruosa inversione ha, sotto la varietà delle sue intonazioni, dei gesti e delle espressioni, un solo significato: la castrazione iniziale.
Ora, bisogna bene che il linguaggio che astrae l’individuo da sé stesso, lo appende per il collo, lo confronta, lo misura, lo scambia ad arbitrio della sintassi al potere, colpito dalla sua stessa miseria, sveli il suo di qua e il suo di là, la volontà di vivere che, unica, manca di un linguaggio riconosciuto. Questa funzione intellettuale che ci trascina per la testa, noi la stiamo spingendo verso le sue ultime difese, togliendole l’alibi della sua autocritica e piegandola davanti alle porte dell’indicibile per farle gridare «chi vive?». E’ da questo grido che verrà la sua distruzione.
Chi vuole veramente essere innamorato di sé in un mondo innamorato di lui perde a poco a poco la sua esistenza intellettuale, non esiste più niente nell’ordine del linguaggio, perché godendo, egli cessa di lavorare. Una persona gelosa, autoritaria, avara può ben capire e rimproverarsi questi odiosi atteggiamenti, tuttavia, non cambierà, ma vi si attaccherà attraverso i tormenti masochisti della cattiva coscienza e l’astuzia sadica della menzogna. Quando l’autoanalisi gli riveli, sotto l’angoscia e le voluttà che prova, i piaceri della vita che lì si nascondono rovesciati, eccolo giunto al rovesciamento di prospettiva. Qui si arresta l’autodistruzione della funzione intellettuale, qui si arresta il Libro dei piaceri. Qui, ciascuno è libero di accontentarsi della sua preveggenza e morirne, o di accordare all’impulso dei suoi desideri l’energia abitualmente usata a vessarli.
L’ultima pratica dell’intellettualità è d’indicare quello che non può raggiungere, la vita intorno alla quale essa si stringe e che nondimeno la distruggerà.
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