Chi ha inventato e diffuso l’espressione
«fatto con i piedi», per indicare qualcosa di mal realizzato? Viene da
sospettare un produttore di automobili, o un petroliere, desiderosi di
aggiungere denigrazione alla forzata inattività del primo organo che possa
difenderci dalla rovina urbana. Sappiamo bene che la realtà
automobilistica è solo in minima parte circoscritta alla meccanica dei veicoli,
alla chimica e al commercio dei combustibili, e alla fascinazione del design.
Essa influenza pesantemente l’economia, l’ambiente, il modo in cui sono costruite le città,
la disposizione dei percorsi possibili nello spazio, la psicologia e la
socialità delle persone, fino a delineare una civiltà peculiare e recentissima
che non ha precedenti nella storia umana. Secondo Ivan Illich, tale realtà
del veicolo meccanico è innanzitutto un devastante strumento di deformazione
antropologica. E poiché ciò che è culturale ha sempre un equivalente
fisico, si dimostra come valga anche l’inverso constatando che la
trasformazione dell’umano indotta dall’auto comincia dai nostri organi
locomotori: l’auto castra i piedi, e dopo, come una conseguenza, la nostra
immaginazione, il senso del luogo e del mondo, il sentimento della libertà.
Uomini dalle gambe deboli e disabituate all’esperienza e al piacere di
camminare, sono allo stesso tempo effetto e causa di una perdita spirituale che
incide su quella che per millenni è stata considerata la natura umana.
Nel brevissimo lasso di un secolo, la
sostituzione della locomozione umana (e della trazione animale che ne era
l’ausilio organico) con una macchina, ha rovesciato inarrestabilmente un ordine
antico quanto la specie. La rivoluzione di John Ford – l’auto di massa –
corrisponde alla più vasta obliterazione di una facoltà umana mai vissuta
prima, una sorta di programma di sterilizzazione di massa, del quale è
impossibile oggi non constatare il successo. Non propongo qui un discorso
salutista. La prima conseguenza della fine dell’era del piede non consiste
nelle varici, nell’obesità o nei problemi cardiocircolatori e respiratori che
pure ne derivano in grandissima parte. A morire con i piedi è innanzitutto
lo spazio. Vale a dire, un tesoro di esperienza, libertà, esercizio sensoriale
ed esistenziale che è incomparabilmente più importante della stessa buona
salute quale viene intesa dalla nostra medicina. Un uomo malato secondo i
parametri del dottore, infatti, può ben essere un uomo, e conserva in sé tutta
la potenzialità di essere felice. Un uomo senza spazio, invece, è
come un topo nel labirinto tracciato dalla mano invisibile delle esigenze
tecniche ed economiche apparentemente più grandi dell’individuo, ma in realtà
infinitamente sottodimensionate rispetto al passo che, calcando l’esistenza,
porta una concreta persona verso il proprio posto nel mondo.
Fuor di poesia, ad es. tutti sappiamo
che la politica è esercizio di conoscenza, scelta, e assunzione di
responsabilità; secondo Aristotele, il commercio umano per eccellenza, che
identifica addirittura la nostra stessa natura. Ma tale esercizio diviene
impossibile al di fuori di uno spazio fisico. Quando la città (polis,
in greco) si è arresa all’invasione dell’auto, insieme alle sue mura
smantellate per far posto a milioni di veicoli affamati di nastri d’asfalto,
sono cadute anche le mura della politica, attaccate da un’economia accelerata
che ha nel consumo il proprio fine cieco. Al posto della responsabilità umana
si è insediato un surrogato illusorio di interfacce mediatiche e presunti
rappresentanti della volontà comune. I sudditi umani, sottomessi, sono stati
costretti a ritirarsi in case trasformate in rifugi immersi nei flussi del
traffico veicolare, dai quali la vita stessa ha cominciato a dipendere. La
socialità si è ridotta al simulacro dell’informazione, che ha assunto anch’essa
la forma di un ininterrotto flusso senza senso. Gli uomini le cui città
sono state invase dal barbaro meccanico ora camminano e vivono costantemente ai
margini di tali flussi, non un passo più vicino né uno più lontano da essi,
quasi vi fossero legati da catene. Gli spazi comuni – i luoghi neutrali
teatro della dialettica fra i cittadini, come le antiche piazze – sono
divenuti “non luoghi”, secondo la giusta definizione di Marc Augé, irti di
frastuono e gas di scarico. L’intera vita sociale (incontrarsi, ascoltarsi
e parlare a voce viva, persino annusarsi) ne ha subito l’imperio rozzo e
arrogante.
Riprendiamoci lo spazio. Riappropriamoci
della città, del luogo della vita comune, condivisa, dialettica, anche
conflittuale. Riafferriamo la nostra dimensione umana con lo strumento umano
del corpo, cominciando dai piedi: svegliamole queste
appendici allegre, facciamole correre come bambini, com’è nella loro natura,
per tastare la terra intorno, misurarla, conoscerla, così come per centinaia di
migliaia di anni hanno felicemente fatto i nostri predecessori. È dai piedi
ingiustamente disprezzati che possiamo ricostruire la nostra società,
sono loro a dover guidare il modo in cui tornare a definire dal basso lo spazio
urbano, dopo tanti danni imposti dal dominio dell’automobile. Il petrolio
finisce, genera guerre, sembra offuscare insieme alle acque del mare inquinato
il futuro, impregnandolo di egoismi folli, astratti, solitari? Fidiamoci dei
piedi, camminiamo, incontriamoci, costruiamo. Il futuro autenticamente umano
non è tanto lontano da non poter essere raggiunto di buon passo.
Stefano Serafini
Società Internazionale di Biourbanistica
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