Era venerdì. S’andava via
per l’atmosfera tepida come tanti punti interrogativi. Gli uni guardavano in
faccia agli altri e tutti sentivano dell’inquietudine dell’Italia agitata dalla
fame. Pavia come Sesto Fiorentino e come Soresina, aveva avuto i suoi ciottoli
innaffiati dalla strage militare. Il povero Muzio Mussi, il figlio del vice
presidente della Camera, era stato tramazzato al suolo a ventitre anni e
la notizia angosciosa, propalata dai giornali, passava sui nervi della
cittadinanza come una scarica d’indignazione. In mezzo alle piazze, lungo le
vie, si temeva e si presentiva la fucilata. La conversazione sentiva del
momento. Era una conversazione animata, concitata, che lasciava udire un po’
della campana a martello. La gente parlava a monosillabi tragici, coi gesti che
facevano sobbalzare il pensiero, con l’atto finale della mano in aria che
traduceva l’impotenza e la minaccia.
Nei sobborghi, dove è più fitta la popolazione operaia, sarebbe bastata un po’ di retorica calda per mettere sottosopra il sangue cittadino che spumeggiava nelle vene. Con tanta irritazione che si andava accumulando per i quartieri di ora in ora, a ogni telegramma che annunciava che il governo curava, dappertutto, lo stomaco vuoto con la balistite, Milano avrebbe avuto bisogno di uomini prudenti che avessero saputo, con dolcezza, togliere e non aggiungere combustibile alla catasta che aspettava lo zolfino. Invece la metropoli lombarda ha avuto Vigoni, Negri, Minozzi, Prina, Winspeare e Bava Beccaris, regi lenoni che vedevano in ogni aggruppamento di operai masse di rivoltosi o di congiurati, imbecilli feroci che avrebbero livragato tutti coloro che non fossero caduti ai loro piedi a implorare la vita. Senza costoro, senza agenti di pubblica sicurezza, senza soldati, è certo che io non sarei qui a cucire insieme i brandelli sanguinolenti della pagina che ha iniziato le giornate di Bava Beccaris, il vecchio rimbambito che nasconde la testa nella sabbia come la testuggine per non udire le maledizioni che imperversano intorno al suo capo.
Alla mattina, come tutte le altre mattine, i grandi stabilimenti dei dintorni di Ponte Seveso, spalancarono i portoni e i proletari vi entrarono a frotte per non uscire che a mezzogiorno. Nelle fabbriche si era lavorato con disattenzione e si era chiacchierato molto sugli avvenimenti. In via Galilei, il contingente dei lavoratori, come il solito, ingrossava di minuto in minuto. Poiché vi si fermavano come negli altri giorni, quelli del Pirelli, quelli del Grondona, quelli dello Stigler, quelli del Vago, quelli dell’Elvetica e quelli di altri stabilimenti vicini, così non era una meraviglia se si vedeva in quella via e nelle adiacenze una massa nera di diecimila persone.
Nei sobborghi, dove è più fitta la popolazione operaia, sarebbe bastata un po’ di retorica calda per mettere sottosopra il sangue cittadino che spumeggiava nelle vene. Con tanta irritazione che si andava accumulando per i quartieri di ora in ora, a ogni telegramma che annunciava che il governo curava, dappertutto, lo stomaco vuoto con la balistite, Milano avrebbe avuto bisogno di uomini prudenti che avessero saputo, con dolcezza, togliere e non aggiungere combustibile alla catasta che aspettava lo zolfino. Invece la metropoli lombarda ha avuto Vigoni, Negri, Minozzi, Prina, Winspeare e Bava Beccaris, regi lenoni che vedevano in ogni aggruppamento di operai masse di rivoltosi o di congiurati, imbecilli feroci che avrebbero livragato tutti coloro che non fossero caduti ai loro piedi a implorare la vita. Senza costoro, senza agenti di pubblica sicurezza, senza soldati, è certo che io non sarei qui a cucire insieme i brandelli sanguinolenti della pagina che ha iniziato le giornate di Bava Beccaris, il vecchio rimbambito che nasconde la testa nella sabbia come la testuggine per non udire le maledizioni che imperversano intorno al suo capo.
Alla mattina, come tutte le altre mattine, i grandi stabilimenti dei dintorni di Ponte Seveso, spalancarono i portoni e i proletari vi entrarono a frotte per non uscire che a mezzogiorno. Nelle fabbriche si era lavorato con disattenzione e si era chiacchierato molto sugli avvenimenti. In via Galilei, il contingente dei lavoratori, come il solito, ingrossava di minuto in minuto. Poiché vi si fermavano come negli altri giorni, quelli del Pirelli, quelli del Grondona, quelli dello Stigler, quelli del Vago, quelli dell’Elvetica e quelli di altri stabilimenti vicini, così non era una meraviglia se si vedeva in quella via e nelle adiacenze una massa nera di diecimila persone.
In mezzo a tanta gente che
discuteva, alcuni operai e parecchi ragazzi distribuivano il manifesto
pubblicato la sera prima dal partito socialista, manifesto redatto dalla penna
turatiana che sentiva il momento e mandava in piazza la protesta
d’«intonazione-repubblicana», come dissero il Secolo e L’Italia del Popolo. Ma
per gli agenti non educati all’agitazione costituzionale e resi prepotenti
dall’incoraggiamento dei superiori, un semplice foglio volante che riassuma la
condizione miserabile del proletariato diventa una perturbazione pubblica, un
delitto. Due agenti della squadra volante, certo Rossi e certo Domenico Viola,
detto il calabrese, si avvicinarono ai distributori, strapparono loro di mano
gli stampati e ne arrestarono due. Potete immaginarvi il subbuglio. Uomini e
donne si misero a gridare: molla! molla! Ma il Viola, che era il Prina della
bassa forza, tirò via con la sua preda fino in via Napo Torriani, fermandosi al
numero 24, la sede della questura del quartiere.
- Io ero sul posto,
- mi disse un testimone oculare, capo sala in una Sezione dello Stabilimento
Pirelli. - Alcuni compagni mi invitarono a trovare il mezzo di liberare gli
arrestati, i quali erano seguiti da una moltitudine di tre o quattro mila
persone. Avviandomi presso la sezione di questura trovai Carlo della Valle,
l’omino che amministrava la Lotta di Classe e si poteva dire l’anima del
partito. Ci trovammo in via Vittor Pisani e andammo senza indugio a parlare col
delegato. Intanto di fuori si urlava e si scagliavano sassate incessanti contro
lo stemma al di sopra dell’entrata. Dicemmo al delegato che i ragazzi arrestati
erano dello Stabilimento Pirelli e che secondo noi non avevano commesso che
qualche ragazzata. E il delegato ci promise che dopo aver consultato il
questore, sarebbero stati messi in libertà. Uscimmo mentre i fischi degli
stabilimenti chiamavano al lavoro. Il largo del Trotter e le vie adiacenti
erano gremite. Ci avviammo verso l’edificio dei sordomuti e al largo del
Trotter vedemmo venire il Viola, con la rivoltella in mano, seguito da altri
sei o sette poliziotti in borghese, che tenevano in mano lo stesso strumento
della civiltà moderna. I cagnotti in borghese saltavano da una parte e
dall’altra, puntando le bocche da fuoco alla faccia delle donne e degli uomini,
minacciandoli e dicendo loro ingiurie che facevano impallidire e rimescolare il
sangue.
-
Mascalzoni! Vaianne!
Con
tanta confusione, non so più se sia stato il Viola o un suo collega. So che uno
di loro si avventò contro una delle ragazze che aveva agitato il foulard rosso
che si era tolta dal collo, percotendola alla fronte con il calcio della
rivoltella. Non ricordo bene il nome della sventurata. Ma credo si chiamasse
Marietta, una ragazza dai fianchi opulenti e dalle braccia che non avevano
paura. La Marietta, uscita dallo stordimento, con la faccia rigata di sangue,
con la bocca tutta agitata che gridava: assassini! assassini!,
divenne una demonia che non si sapeva più come tenere, perché voleva rincorrere
e agguantare il malandrino e punirlo come meritava. Ma io e alcune sue compagne
riuscimmo a trattenerla e a trascinarla allo stabilimento a farsi medicare
nell’ambulanza interna. Intanto che la si medicava gli operai e le operaie
entrati volevano uscire di nuovo perché di fuori si gridava con insistenza che
si doveva smettere di lavorare.
Il
direttore dello stabilimento, signor Emilio Calcagni, e l’ispettore dell’ordine
interno, signor Cavalli, correvano da una parte all’altra dell’edificio
raccomandando a tutti la calma e supplicando ciascuno di dare il buon esempio e
riprendere il lavoro. Così io, pur sapendo che dovevano venire Turati e
Rondani, stati chiamati d’urgenza dal della Valle e dal compagno Songia,
dovetti acconciarmi a rimanere chiuso nello stabilimento!
Io
e gli altri di dentro, parevamo sugli aghi. Il lavoro che si faceva era un
lavoro meccanico. La mente era di fuori, attorno, con le orecchie che venivano
perturbate dalle grida che si udivano nell’aria: abbasso i birri! morte
al Viola! - l’agente esacrato in tutto il quartiere per il suo carattere
malvagio e violento e perché si diceva da tutti che era stato lui a menare il
calcio del revolver sulla fronte dell’operaia ferita. Tra le due e le due e
mezzo, riuscii a mettermi alla grata di una delle finestre che guardano in
Ponte Seveso, proprio tra il numero ventitre e venticinque dello stabilimento.
Era giunto il Turati e per i fori vedevo che era sulle spalle di due giovani
tarchiati, con la mano appoggiata all’albero, che parlava a pochi passi
dall’ufficio postale.
-
Come deputato del vostro collegio, invoco da voi calma e pazienza. Non la
pazienza dell’asino, intendiamoci, ma una pazienza di alcuni momenti, affinché
in nome vostro, se lo consentite, noi possiamo trattare con le autorità per la
liberazione dell’arrestato.
L’arrestato
era Angelo Amadio, detto el pompierin, di diciannove anni.
Mezz’ora
dopo ritornò Turati e riparlò alla folla su per giù con queste parole:
-
Sentite, compagni. Noi abbiamo saputo che ormai questore e prefetto non possono
farci nulla. L’arrestato che fu trovato coi sassi in mano... (Molte voci
gridarono: No, non è vero!)... Credo anch’io, anzi mi auguro che non sia vero.
Ma ora l’arrestato è nelle mani del procuratore del re, e io mi recherò da lui.
Ci
fu una lunga pausa.
-
Ascoltate ora un mio consiglio, o compagni! Qualunque possa essere la risposta,
ve lo dico in coscienza, non dovete insistere. Questo non è il giorno. (Fu
interrotto da una voce: E quand l’è ch’el vegnarà el dì?). Ho detto che
questo non è il giorno; perché tutto è preparato per le più feroci repressioni.
Il popolo deve essere abile e scegliere lui il giorno in cui si crederà
preparato e organizzato per la vittoria. Non è oggi il giorno per la battaglia
in piazza (grida e interruzione in vario senso). Sono di parere che
dobbiamo limitarci a una cosa per volta. Ora dobbiamo liberare un nostro
compagno, insistiamo per la sua liberazione.
E
siccome la massa era assai eccitata e le pareva poco quello che le offriva il
deputato del quinto collegio, così il Turati fu obbligato a ripetere quello che
aveva detto.
-
Vi ripeto, compagni, non dobbiamo lasciar scegliere all’autorità il giorno
della battaglia. Oggi vi dico che sarebbe massacro! Fidatevi di me in questo
momento: oggi è una rovina! Contentatevi della scarcerazione.
La cosa si era fatta
seria. Su circa tremila operai non ne erano entrati, tra uomini e donne ottocento.
In uno dei cortili erano stati introdotti, alla chetichella, un centinaio di
soldati, i quali caricavano i fucili. Di fuori, in giro per l’edificio, tutte
le entrate e tutte le uscite erano bloccate da un cordone di quattro file di
soldati. Il fischio delle sei fu un sollievo per tutti. Uscimmo alla
spicciolata, passando per la corte zeppa di soldati di fanteria, dai corridoi
che precedono la porta d’uscita, e poi tramezzo agli altri soldati allineati
sui marciapiedi. Vidi di nuovo il Turati, il Rondani e un altro che non ricordo
in una carrozza scoperta. L’onorevole Turati annunciava a tutti che l’Amadio
sarebbe stato messo in libertà prima di sera. Scomparsa la carrozza e gli
oratori per la via Galilei, la moltitudine pigiata si ruppe e la maggioranza,
che abita nei paraggi di Corso Loreto e alla Cascina Rotole e nelle vicinanze
della chiesa di San Francesco, si avviò per la via Napo Torriani - anche per
vedere che cosa si faceva alla sezione di P.S. Fra la moltitudine che si
avviava verso casa, rasentando la sezione di P.S., l’ultima casa della via in
faccia al Trotter, era l’operaio Silvestro Savoldi, un uomo di circa
trentacinque anni, bassotto, tarchiato, dai capelli castano chiari, con due
baffoni che tiravano al rossiccio, con due occhi che lampeggiavano. È
impossibile dire, in mezzo a tanta gente, se era un tumultuante o un operaio
che rincasasse. Ma la gente che lo ha veduto prima di cadere, mi ha assicurato
che andava via lentamente senza badare a quello che avveniva.
Dal
Trotter, dove era stata chiusa, a mezzogiorno, la truppa, usciva un plotone del
cinquantasettesimo fanteria, attraversava il piazzale Andrea Doria e
procedeva verso Napo Torrioni coi fucili a crociat-et. Il grosso dei
dimostranti era lungo il marciapiedi dalla parte opposta alla caserma dei
questurini. I curiosi si erano assiepati a dieci metri di distanza dalla truppa
che aveva fatto alt, e qua e là si movevano gli individui che lanciavano sassi
allo stemma questurinesco. Pare che qualche sassata abbia raggiunto anche qualche
soldato.
Fu
come il segnale. Si udì lo squillo di tromba.
Si
vide il fuggi fuggi, e si sentì il ran ran che spaventava, che infuriava, che
sollevava grida disperate da tutte le parti e lanciava in aria una nube bianca
in un silenzio sepolcrale.
Fu
allora che anch’io gridai come la Marietta: assassini! assassini! Far seguire
allo squillo le fucilate, senza il tempo di vuotare la via a gambe levate, è un
delitto senza nome.
Non
vi so dire se il fuoco sia stato iniziato dai soldati o dai questurini. Ma se
tra l’uno e l’altro non c’è stato attimo di mezzo, le rivoltelle e i fucili
devono aver incominciato insieme.
Non
erano ancora le sei e mezzo e il povero Savoldi che credeva di andare in Corso
Loreto, 40, era vicino all’altro mondo. Stavano per suonare le sei e mezzo e il
disgraziato giungeva proprio al malaugurato portone della sede della sezione di
questura, dove dovevano essere appiattati gli agenti della squadra volante. I
dimostranti di fuori schiamazzavano e domandavano a gola piena se erano stati
messi in libertà gli arrestati. E in questo mentre si vide sbucare il Viola con
la bocca spalancata e la rivoltella tesa verso la moltitudine. Il Savoldi,
sorpreso, vacillò e cadde col sangue che gli usciva a fiotti dalla tempia
sinistra. Il suo assassino non ebbe tempo di ritornare indietro a leccarsi le
labbra, perché una palla all’inguine lo stese al suolo cadavere. I due cadaveri
mi avevano terrorizzato. Non ebbi un gesummaria! né per il primo né per
il secondo. Mi batteva il cuore, mi sentivo in fiamme. In quel momento non ho
potuto fare supposizioni. Ma non appena mi trovai fuori della zona dei disastri
umani mi venne spontanea l’interrogazione, da chi era stato ammazzato il Viola.
Da chi? Dalla folla: no; perché nessuno di essa possedeva un’arma da fuoco.
Dalla truppa? No, perché la ferita non è stata fatta da una pallottola a
balistite. E da chi allora? Mi è stato spiegato più tardi da uno che ha aiutato
a raccoglierlo. È una supposizione, ma pare che il questurino voltatosi per
ritornare a corsa sotto la porta sia stato colpito dalla rivoltella di un
collega che lo aiutava a sfollare con le palle di piombo. La stessa persona mi
ha dato l’altra supposizione, che la prima revolverata del Viola sia partita
proprio tra lo squillo e la scarica, come un’incitazione, un avviso di far
fuoco. Sia avvenuto in un modo o nell’altro, la moltitudine non ha avuto tempo
di mettersi in salvo.
Dopo
le tre scariche militari corsi dov’era il Savoldi e là, io e altri amici
lo raccogliemmo, prendendolo per i piedi e per le ascelle. Respirava ancora e
lo chiamammo per nome.
-
Silvestro? Savoldi?
Egli
guardava, con gli occhi istupiditi dalla morte che lo invadeva, senza
rispondere. Lo riprendemmo e ci avviammo verso il Ponte Seveso per vedere se
era possibile farlo medicare nell’infermeria dello stabilimento Pirelli. Ma la
porta era chiusa e la linea dei soldati non ci permetteva di avvicinarci allo
stabilimento.
Senz’altro
decidemmo di metterlo sul tram, avviato alla Piazza del Duomo per il Corso di
Porta Nuova. Fu una scena pietosa. Scomodammo la gente e, sorreggendolo davanti
e dietro, riuscimmo a tirarlo sulla carrozza, adagiarlo lungo il cuscino e
mettergli la testa insanguinata sulle ginocchia di uno di noi. Il tram non si
era ancora mosso che il Savoldi tirò un sospiro lungo che ci andò al cuore, e
chiuse gli occhi. Il tram andava e le nostre mani palpavano sul suo cuore come
se avessimo voluto che continuasse a battere e a mantenersi caldo. Ma la pelle
andava raffreddandosi e quando fummo in piazza Mercanti il medico
di guardia ci mandò via con un bisillabo: morto! Il padre di cinque o sei figli
era morto. E noi, angosciati, ricaricammo il primo cadavere delle
giornate di Milano sul tram che andava a Porta Volta e dal luogo di sosta lo
portammo a braccia, al Cimitero Monumentale.
Ritornato
a casa seppi che la balistite aveva lasciato sul terreno delle donne e degli
uomini feriti, due dei quali morirono prima o subito dopo l’aurora.
L’eccidio
di Bava Beccaris era incominciato.
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