giovedì 15 novembre 2012

Davanti al dolore degli altri

 Foto di Horst Faas


Non è detto che lasciarsi commuovere sia meglio. Il sentimentalismo, come è tristemente noto, è del tutto compatibile con la propensione alla brutalità o ad atti ben peggiori. (Pensate al classico esempio del comandante di Auschwitz che la sera rientra a casa, abbraccia moglie e figli e si siede al pianoforte per suonare un po' di Schubert prima di cena.) La gente non si assuefà a quel che le viene mostrato - se così si può descrivere ciò che accade - a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. È la passività che ottunde i sentimenti. Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale e emotiva, in realtà traboccano di sentimenti: ciò che si prova è rabbia e frustrazione. Ma se dovessimo stabilire quali emozioni siano auspicabili, sarebbe forse troppo semplice optare per la compassione. L'immaginaria partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce l'esistenza tra chi soffre in luoghi lontani - in primo piano sui nostri schermi televisivi - e gli spettatori privilegiati di un legame che non è affatto autentico, ma è un'ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere. Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono - in modi che preferiremmo non immaginare - essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l'indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale

Nessun commento: