Foto di Horst
Faas
Non è detto che lasciarsi commuovere sia meglio. Il sentimentalismo, come è
tristemente noto, è del tutto compatibile con la propensione alla brutalità o ad
atti ben peggiori. (Pensate al classico esempio del comandante di Auschwitz che
la sera rientra a casa, abbraccia moglie e figli e si siede al pianoforte per
suonare un po' di Schubert prima di cena.) La gente non si assuefà a quel che le
viene mostrato - se così si può descrivere ciò che accade - a causa della
quantità di immagini da cui è sommersa. È la passività che ottunde i
sentimenti. Le condizioni a cui diamo il nome di apatia, o di anestesia morale e
emotiva, in realtà traboccano di sentimenti: ciò che si prova è rabbia e
frustrazione. Ma se dovessimo stabilire quali emozioni siano auspicabili,
sarebbe forse troppo semplice optare per la compassione. L'immaginaria
partecipazione alle sofferenze degli altri promessaci dalle immagini suggerisce
l'esistenza tra chi soffre in luoghi lontani - in primo piano sui nostri schermi
televisivi - e gli spettatori privilegiati di un legame che non è affatto
autentico, ma è un'ulteriore mistificazione del nostro rapporto con il potere.
Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che
ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che
impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una
reazione sconveniente, se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da
parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche
criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta
geografica delle loro sofferenze e possono - in modi che preferiremmo non
immaginare - essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di
alcuni può implicare l'indigenza di altri. Ma per un compito del genere le
immagini dolorose e commoventi possono solo fornire una scintilla iniziale
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