L’uomo è antiquato – Volume II
I prodotti
1958
1. I prodotti in serie sono nati per morire
Il principio di riproduzione
dell’industria odierna non significa solo che i prodotti fabbricati nel
processo di serie sono caduchi e transitori; non solo che essi, come i singoli
pezzi delle precedenti generazioni di prodotti, purtroppo finiscono un giorno
col diventare decrepiti, ma che soffrono di una mortalità altamente
particolare, una mortalità la cui caratterizzazione appare addirittura
teologica:cioè che essi sono
destinati a morire, che essi sono destinati alla transitorietà. E prevista
non è solo la loro transitorietà, bensì, perlomeno approssimativamente, la loro
data di scadenza, e sempre una che sia il più possibile a breve termine. Come
nelle parole di una canzone nazista, la cui finalità consisteva nell’inculcare
nei giovani non solo l’idea della loro sostituibilità ma persino la festosa
affermazione di quest’ultima, le merci in serie sono “nate per morire”.
Si presti bene orecchio a questa
espressione.
Un morire per cui si “nasce” (che
dunque, invece di limitarsi a concludere una esistenza, fin dall’inizio ne
costituisce lo scopo) è solo un “morire a parole”. Non al loro proprio morire
venivano preparati i giovani cui si faceva cantare la canzone, ma al loro
venire uccisi. E lo stesso vale per il “morire” dei prodotti in serie. Essi non
nascono per morire ma per essere uccisi.
E difatti vengono uccisi da quei
nuovi e freschi esemplari, i quali (per il fatto che la loro fattura e il loro
rendimento sono identici alla fattura e al rendimento di quelli di cui è adesso
venuto il turno) hanno il medesimo diritto a realizzarsi; e che in un certo
senso stanno sempre già pronti lì, come “potenzialità imballata”, impazienti di
dare il cambio ai vecchi.
O meglio, per dirla con maggior
precisione: i vecchi vengono uccisi dalla produzione stessa. Giacché è questa
che mette al mondo i vecchi esemplari a bella posta in condizione di scarsa
vitalità. E dato che la produzione usa noi, i consumatori, come alleati,
cioè ci esorta e ci educa a consumare esemplari usandoli, a sfruttarli
utilizzandoli, noi ci assumiamo questo lavoro omicida a scapito dei nuovi
esemplari, così che questi adesso possano affrontare il loro posto, anche se di
un unico giorno, sempre innocenti e con mani pulite.
Ascoltiamo che cosa avevano da
dire in proposito i molussi:
“Che i prodotti muoiano nella più
tenera età infantile – si legge in uno dei più famosi documenti molussici – non
prova nulla contro la nostra industria. Anche se è vero che essa genera questa
discendenza mortale e persino, espressamente, la loro mortalità; e che dosa in
anticipo la durata media della loro vita, e preferisce agli altri quelli che
muoiono a breve scadenza; e persino che essa – cosa che si diceva un tempo a
proposito delle rivoluzioni – “divora i suoi stessi figli”. Ma biasimarla per
questo, rinfacciarle per questo una politica demografica priva di scrupoli o
persino ingiuriarla per questo come “madre mostruosa”, sarebbe tanto meschino
quanto calunnioso. L’industria sa quello
che fa e quello che è bene. Pensate solo per un momento dove saremmo se essa
fosse così stolta da produrre una discendenza troppo buona, troppo
sana, troppo longeva o persino – ce ne guardino gli dei! – immortale.
Non vi rendete conto che così essa si priverebbe della propria stessa fertilità
e, insieme con se stessa, porterebbe anche noi alla rovina? La mortalità dei
suoi figli è la garanzia della sua immortalità e della nostra. E noi
dovremmo lodarla come una delle garanzie della nostra felicità!
Dunque non chiamate la produzione
una madre crudele! Se essa conduce una tremenda politica demografica, lo fa
esclusivamente nell’interesse della propria ulteriore e permanente fertilità. E
dimostra fin dall’inizio la sua ingegnosità nel non produrre solo figli
mortali, bensì la mortalità dei suoi figli. Perciò possiamo tranquillamente
ammettere che non solo essa rende i suoi figli esplicitamente mortali, ma che
li degrada fin dalla loro prima ora. A nessuno di loro essa permette di portare
un articolo determinativo, di essere un “il”. A ognuno di loro concede di
portare a compimento la propria vita solo come un “un”. E a nessuno di loro la
sensazione rassicurante di essere identico a se stesso. E’ vero, è destinato a
essere identico, anzi deve esserlo. Ma appunto identico soltanto a quel
modello di cui questo o quell’esemplare viene preso in considerazione e,
rispettivamente, a quelle sorelle che sono venute al mondo proprio come lui,
cioè come questo o quell’esemplare dello stesso modello. Chi dunque crede di
poter descrivere la situazione odierna con le parole: “Ciò che viene prodotto
oggi, domani diventerà uno scarto”, rimane indietro nella verità. Piuttosto è
vero che la produzione fa nascere i prodotti come scarti di domani, che insomma
la produzione è produzione di scarto. Di uno scarto, tuttavia, la cui
caratteristica è che si trovi temporaneamente in stato di utilizzazione”.
- Sulla fine di una virtù
Noi proprietari e consumatori di
prodotti non siamo indifferenti nei confronti della lotta spietata e regolarmente
vittoriosa che la produzione conduce senza tregua contro la generazione dei
suoi prodotti di ieri. Piuttosto siamo dalla sua parte, cioè dalla parte
della produzione, il che significa che partecipiamo alla lotta come
partigiani, di volta in volta, della nuova generazione. E significa anche che
noi stessi ci siamo fatti spietati.
Anche noi. Infatti è quasi
impossibile, in un mondo la cui massima è di sostituire il più rapidamente
possibile la vecchia generazione di prodotti con la nuova, che noi ci
comportiamo con riguardo nei confronti delle cose. Se nondimeno uno di noi osa
tentarlo, nuota contro la corrente che porta anche lui. E se il tentativo gli
riesce, se ce la fa a ritardare l’attimo della sostituzione (della vecchia
generazione con la nuova), allora passa per sabotatore. La spietatezza è
diventata per noi un imperativo morale.
Naturalmente tale imperativo non
viene proclamato mai e in nessun luogo. Se qualcuno sollevasse delle tavole
della legge, portanti scritte come: “Domina il tuo rispetto nei confronti delle
cose!”, oppure: “Evita di rispettare ciò che possiedi!”, oppure: “Coltiva la
tua spietatezza!”, c’irriterebbe profondamente e considereremmo pazzi quelli
che comandano così. Ciò nondimeno, tali comandamenti esistono, e tanto più massicci
quanto più segretamente e indirettamente si manifestano. E queste forme di
camuffamento non sono solo fenomeni rari e occasionali, bensì realtà tra le più
vistose e inevitabili del nostro mondo. Ciò sembra contraddire le espressioni
“versioni indirette” e “forme di camuffamento”. Non oggi. Infatti per
“camuffamento” non ci si deve immaginare trasformazione nel poco appariscente –
oggi non ci si camuffa così – bensì trasposizioni nel vistoso e nel
chiassoso: esagerazioni che coprono la voce della libertà. Che il modo
migliore di sfuggire alla verità sia l’urlare, lo sappiamo già da un quarto di
secolo. E nell’urlare consistono, in effetti, le versioni camuffate dei
comandamenti. Parlo della réclame.
Perché le réclames pubblicitarie
sono versioni camuffate dei comandamenti?
Perché ogni réclame, a parte il
fatto che è spietata di per sé (cioè interrompe sempre la nostra vita,
interferisce sempre in essa), incita anche alla spietatezza. Sì, alla
spietatezza; perché noi già oggi possediamo il 95 per cento (anche se, forse,
in qualche altra forma) dei prodotti che essa ci ordina di comprare. Così, ad
esempio, mentre sto lavorando alla stesura di questo testo, mi viene
ostinatamente raccomandato, cioè comandato, da un altro testo, stampato su una
delle mie cartelle, di usare, invece della mia penna a sfera, che per me è del
tutto sufficiente, un’altra, di cui si garantisce che “funziona anche
sott’acqua”; dunque, nonostante che io non senta la minima necessità di fare lo
scrittore sottomarino, di sacrificare la mia penna abituale a una nuova. Ciò
che questo testo sulla mia cartella si permette, se lo permette con altrettanta
sfacciataggine ogni réclame. Ognuna ci richiede implicitamente di rinunciare a
quegli oggetti che già possediamo; di metterli da parte come fossero già
finiti: dunque di essere spietati, senza riguardi. Ogni pubblicità è un appello alla distruzione.
Per quanto faticoso possa essere valutare l’effetto di ogni
singola réclame pubblicitaria – un intero settore scientifico è incaricato oggi
di trovare metodi per il rilievo quantitativo degli effetti della réclame –
nessuno può contestare che la réclame, nel suo complesso, porta i suoi frutti.
Ma con ciò si ammette anche quel successo (per quanto la differenza tra i due
successi sia in genere necessaria e sensata) che può registrare a proprio
vantaggio l’appello a consumare senza riguardi. Questo successo è in effetti
tanto evidente che si dev’essere colpiti da cecità per non riconoscerne i
riflessi nei nostri gesti e nelle nostre fisionomie. Dato che viviamo in un
mondo che consiste esclusivamente di cose che non solo sono sostituibili, ma
devono essere sostituite (in casi estremi appaiono addirittura avide di essere
sostituite), non soltanto è plausibile, ma semplicemente inevitabile che noi
finiamo per crearci un tipo di rapporto sociale appropriato a questi oggetti
dichiaratamente mortali e degni di morire; che noi sviluppiamo una mancanza di
attenzione e di rispetto nel nostro modo di lavorare, di muoverci, di sostare,
di esprimerci con l’espressione del volto. E non solo nei confronti delle cose.
Mi sembra impensabile che nei rapporti umani si possano far sopravvivere, come
virtù, modi di comportamento che, nei confronti dei prodotti, non passano più
per virtù ma, al contrario, per non-virtù. L’umanità che tratta il mondo come
un “mondo da buttar via”, tratta anche se stessa come una “umanità da buttar
via”.
Sia ben chiaro quel che si vuole
sostenere con questo. Né più né meno, che tutte le morali esistite fino ad oggi
(per quanto fondamentalmente diverse possano essere state) si sono ormai fuse
in un’unica epoca, poiché, tra esse, non c’è stata neppure una nella
quale il rispetto per i prodotti non fosse naturale; e quest’unica epoca è
ormai per sempre alle nostre spalle. Il rispetto è ormai una virtù antiquata, e
a ragione.
Ma ciò non basta. Infatti, al
posto di quella virtù antiquata ne è subentrata una opposta: virtù è adesso la
più spietata mancanza di riguardi. E chi non sta al gioco è sospetto. Già negli
anni quaranta venni a conoscenza del caso di una studentessa che sotto ogni
aspetto era veramente normale, ma fu costretta a subire un trattamento
psicoanalitico perché opponeva resistenza a lasciarsi comprare dalla madre
sempre nuovi vestiti (di cui in realtà non aveva bisogno). Fu classificata non
soltanto come “cocciuta” ma, addirittura come poorly adapted.
“Disadattata” a che cosa? Al divieto di aver riguardo, cioè: al mondo
dominante. E non solo essa era considerata come una “malata” da curare, ma
anche come una nemica virtuale, come una leftist. “Chi non sta al nostro
volere/costui è un sabotatore”. (Canzone molussica dei prodotti).
- Il paese della Cuccagna della produzione
Se questa tesi corrisponde a
verità , allora non esiste nulla di più miope che voler riconoscere la nostra
odierna spietatezza esclusivamente nelle nostre azioni belliche, cioè in quelle
manifestamente distruttive. E nulla è più sciocco che vedere nella nostra
tecnica di riproduzione un contravveleno, un rimedio col cui ausilio potremmo
agire contro la nostra voglia di distruzione. E’ assai dubbio che dietro la
nostra attuale ricostruzione delle città distrutte nella seconda guerra
mondiale agisca una mentalità contrapposta a quella bellica. Quel taxista di
Berlino che nel 1953, non del tutto insoddisfatto, così commentò il paesaggio
di macerie cui era ridotto l’ex quartiere del Tiergarten: “Bhe, almeno ci hanno
creato tanti di quegli spazi vuoti da costruire!” si avvicinava alla verità,
dato che almeno attirava l’attenzione sul rapporto tra distruzione e
costruzione. Tuttavia la piena verità neppure lui la disse, lasciando ancora
inespresso il fatto che l’elemento della distruzione è immanente alla
produzione stessa.
La verità
viene alla luce per davvero solo nel momento in cui ci si rende conto del punto
a cui siamo oggi confrontandosi con l’antico modo di dire, così fiero della
propria positività: “Distruggere è facile, ma ricostruire!”. Infatti questo modo
di dire, che in passato pareva solo banale, oggi è semplicemente divenuto privo
di senso. E non soltanto perché, nell’epoca della produzione in serie,
invece della “cosa in sé” possono venir distrutti sempre unicamente degli
esemplari (il che ha già ridotto il rogo dei libri di Hitler a un’azione
puramente ideologica, anzi a una farsa); e non soltanto per il fatto che la
quantità che oggi si può produrre in un arco di tempo stabilito difficilmente è
più piccola di quella che può essere distrutta nel medesimo arco di tempo; ma –
e con ciò torniamo alla nostra tesi principale – anche perché il distruggere
e il ricostruire non sono affatto due opposti, ma nascono da un’unica e
identica radice; e perché questo principio è distruttivo in quanto tale, cioè
in quanto interessato alla distruzione del suo prodotto. Se si tentasse una
volta di abbozzare, in un quadro utopistico, la situazione nella quale fossero
maturati tutti i sogni fioriti dall’odierna tecnica di produzione, nella quale
dunque si fosse realizzata la situazione del paese di cuccagna (non tanto per
il consumatore quanto per il produttore), si dovrebbe descrivere un mondo
nel quale non esistesse più assolutamente l’usare, ma solo il pi spietato
consumare; nel quale tutti i prodotti, non importa se calze da donna, bombe
all’idrogeno, automobili o città, venissero distrutti con l’atto stesso
dell’usarli, non altrimenti che per i prodotti dell’industria alimentare o
quella di piatti o tovagliolini di carta; in breve, un mondo nel quale
l’industria, nel suo complesso, si fosse trasformata in un’unica industria
comprendente tutti i prodotti di consumo.
Se questo
quadro resta utopistico è innanzi tutto (dal punto di vista dell’industria) a
causa del nostro oblio del dovere. E’ perché noi clienti trascuriamo di
combattere con sufficiente energia il sottosviluppo della nostra “spietatezza”,
di assecondare con un comportamento adeguato e conformistico le potenzialità
ideali che spingono verso la sua realizzazione. Così almeno si presenta la
situazione dal punto di vista del principio di produzione. E questa prospettiva
non è poi così falsa. Infatti siamo rimasti davvero antiquati, tutti quanti. A
differenza di ciò che dice Benjamin, noi dotiamo di aura a posteriori anche i prodotti
di serie, sebbene questi ultimi al momento dell’acquisto erano stati privi
di aura, noi li “auratizziamo”, li intridiamo con la nostra atmosfera esistenziale:
il nostro cuore non si attacca meno a un paio di pantaloni comprati già
confezionati che a un altro fattoci su misura; il sentimentalismo penetra nel
nostro rapporto con i prodotti di massa in modo altrettanto profondo che nei
nostri rapporti con un esemplare unico. Anche i prodotti di fabbrica li
trattiamo come “questi pezzi”, come i “nostri pezzi”, come “pezzi
insostituibili”, invece che (come sarebbe d’uopo nella nostra situazione
odierna) come “quei pezzi là”, “pezzi privi di proprietario”, come pezzi sostituibili.
E se dobbiamo staccarci dai pezzi, spesso siamo incapaci di arrivare a quella
indifferenza, o addirittura a quella soddisfazione, che sarebbe opportuna
nell’era in cui la spietatezza è diventata una virtù. Chissà se tra poco non
esisteranno degli psicoanalisti specializzati che avranno il compito di
addolcire le nostre difficoltà interiori, nate da tabù nei confronti del mondo
degli oggetti, e di renderci capaci di violentare prodotti con gusto e con
buona coscienza. Da portare con sé per questo esercizio: porcellana di prima
qualità e un martello pesante.
L’uomo è
antiquato – Volume II
La realtà
Tesi per
un simposio sui mass media
1960
IV.
Quali
effetti produce il fatto che “l’immagine” è diventata la categoria principale
della nostra vita?
I.
Veniamo defraudati dell’esperienza e della capacità
di prendere posizione. Dato che non possiamo prendere conoscenza del vasto
orizzonte del mondo che oggi è realmente il “nostro mondo” (giacché “reale” è
ciò che possiamo incontrare e da cui dipendiamo) in diretta visione sensibile,
ma solo attraverso le immagini, proprio quello che è più importante lo
incontriamo sotto forma di apparenza e fantasma, dunque in versione
rimpicciolita, se non addirittura svuotata di realtà. Non come “mondo” (del
mondo ci si può appropriare solo movendosi in esso e sperimentandolo), bensì
come un oggetto di consumo che ci viene fornito a domicilio. Chi ha
consumato nella propria stanza ben riscaldata un’esplosione atomica sotto forma
di un’immagine fornita a domicilio, cioè di una cartolina illustrata in
movimento, costui ormai assocerà tutto ciò che può capitargli di sentire su una
situazione atomica a questo avvenimento domestico di dimansioni minuscole e con
questo verrà defraudato della capacità di concepire la cosa stessa e di
prendere nei suoi confronti una posizione adeguata. Ciò che viene fornito allo
stato liquido, cioè a dire, tale che può essere immediatamente inghiottito,
rende impossibile, perché superfluo, un confronto personale. Per lo più, anzi, l’auspicata
presa di posizione viene essa stessa fornita amichevolmente insieme
all’immagine, poche cose sono così caratteristiche per le trasmissioni odierne
quanto la libera consegna a domicilio dell’applauso. In fondo non esiste più “mondo
esterno”, perché queso ormai è soltanto l’occasione di una possibile
rappresentazione a domicilio.
II.
Veniamo defraudati della capacità di distinguere tra
realtà e apparenza. Se, come per lo più accade in trasmissioni
radiofoniche e televisive, l’apparenza viene rappresentata in modo realistico,
la realtà al contrario (che non suona e non appare nient’altro che
trasmissione) assume l’aspetto di apparenza, di una mera esibizione; se
“le tavole del palcoscenico” (che, come si usa dire, rappresentano il mondo)
appaiono come il mondo stesso, allora il mondo si trasforma anch’esso in
“palcoscenico”, dunque in mero spectaculum, che non occorre prendere poi
tanto sul serio. Così l’intera “immaginificazione” della nostra vita è una
tecnica dell’illusionismo, visto che ci dà e ci deve dare l’illusione di
vedere la realtà. “L’impressione di spectaculum”, che la realtà produce
in televisione ha un “effetto di boomerang”, che contagia la realtà stessa: il
fatto che Kennedy e Nixon si facessero truccare in modo da apparire più giovani
per le loro dispute televisive prova che i due non solo erano attesi dal
pubblico come uno “show”, ma che essi già concepivano se stessi come attori,
che entravano in concorrenza con le stars televisive, che la loro
effettiva chance politica dipendeva dalla qualità del loro “show”.
Dunque, non solo l’interpretazione della realtà da parte del pubblico diventa
poco seria, ma la realtà stessa lo diventa, dato che deve prendere in dovuta
considerazione le immagini. Ormai il mondo diventa “rappresentazione”, tuttavia
in un senso che Schopenhauer non si sarebbe mai sognato. In rapporto
strettissimo con ciò
III.
Noi formiamo in nostro mondo sulla base delle
immagini del mondo: “imitazione invertita”. Dato che non esiste alcuna
immagine che, almeno potenzialmente, non agisca da modello, effettivamente noi
formiamo il mondo secondo l’immagine delle sue illustrazioni: ogni Johnny bacia
oggi come Clark Gable. Con ciò la realtà diventa illustrazione delle sue
illustrazioni (e non come, per esempio in Platone, illustrazione di idee).
IV.
Veniamo “passivizzati”. Con il
rifornimento permanente veniamo trasformati in consumatori permanenti. Mentre,
per esempio, come lettori siamo ancora autonomi, cioè possiamo sfogliare il
libro all’indietro e determinare noi stessi il tempo che ci serve per
assimilarlo, come ascoltatori e spettatori a tempo pieno siamo ormai
incessantemente tenuti al guinzaglio; quando consumiamo, dobbiamo farlo anche
secondo il ritmo fornitoci con il rifornimento. Invero ciò valeva sempre per il
pubblico dei teatri e dei concerti; ma adesso è diventato una fatalità, poiché
gli spectacula ci scorrono davanti senza tregua incanalando, proprio per
questa mancanza di pause, la nostra mancanza di autonomia. Detto altrimenti:
Il rapporto dell’uomo con il mondo viene addestrato a una dimensione
unilaterale. Visto che siamo abituati a vedere le immagini ma non ad
esserne visti; ad ascoltare persone ma non ad esserne ascoltati, ci abituiamo a
una esistenza nella quale siamo defraudati della metà del nostro essere uomini.
Chi ascolta soltanto ma non parla e per principio non può contraddire, non è
solo “passivizzato” ma reso succube e schiavo.
V.
Questa perdita di libertà procede tuttavia in modo talmente
naturale che adesso noi, a differenza degli schiavi di buona memoria, siamo
persino defraudati della libertà di avvertire la perdita della nostra libertà.
Infatti, la “schiavitù” ci viene portata a domicilio e servita come merce di
svago e come comodità. E ci vuole una sovranità fuori del comune per non
fraintendere la comodità come libertà.
VI.
Veniamo “ideologicizzati”. Infatti,
le immagini di oggi sono le ideologie di oggi: le rappresentazioni di immagini
devono trasmetterci un’immagine del mondo, o meglio l’ondata d’immagini
singole deve impedirci di giungere a un’immagine del mondo e di accorgerci
della mancanza di questa immagine del mondo. Il metodo odierno, con il cui
aiuto s’impedisce sistematicamente la comprensione, non consiste nel fornire
troppo poco ma troppo. L’offerta d’immagini
(pubblicità), in parte gratuita, in parte persino inevitabile, soffoca
la possibilità di farsi una immagine per conto proprio. Veniamo sopraffatti da
una tale abbondanza di alberi perché ci venga impedito di vedere la foresta.
L’ignoranza odierna è il prodotto della moltiplicazione di apparente materia
didattica. Quanto meno dobbiamo immischiarci in decisioni che ci riguardano
realmente da vicino, tanto più smisuratamente veniamo “immischiati” in cose che
non ci riguardano affatto, per esempio nelle pene di certe imperatrici
iraniane. Le mille immagini nascondono il contesto del mondo e tanto più in
quanto ogni immagine, persino ogni flash di cinegiornale, rimane spezzettata,
rendendoci dunque “ciechi alla casualità”. Visto che le immagini difficilmente
mostrano i contesti, ma appunto solo “questo e quello”, veniamo trasformati in
esseri puramente sensibili e questa vittoria della sensibilità è
incomparabilmente più fatale della sensualità alla Lolita sotto l’ombelico.
VII.
Veniamo “macchinalmenteinfantilizzati”. Non
diversamente dai neonati che si attaccano alle mammelle materne, ci attacchiamo
alle mammelle inesauribili degli apparecchi; infatti tutto il bisogno di
consumo e ciò che ci viene imposto come bisogno di consumo, il mondo così come
il cosiddetto “mondo dell’arte”, ci viene servito allo stato liquido. Anzi:
non ci viene servito affatto, ma fornito in modo talmente diretto da poter
essere immediatamente usato e consumato; essendo liquido, il prodotto
già finisce nell’atto di essere consumato; dunque viene liquidato. I
“pezzi” forniti (già un’espressione errata) si coagulano tanto poco in oggetti
concreti, quanto poco il latte materno si trasforma, tra rifornimento e
consumo, in formaggio o burro; li abbiamo già dentro di noi prima di avere la
possibilità di occuparcene. Modello della ricezione sensoriale oggi non
è, come nella tradizione greca, il vedere; né, come in quella
ebraico-cristiana, l’udire, bensì il mangiare. Siamo stati spinti in una
fase orale industriale, nella quale la pappa culturale scende giù
liscia. In tale fase quello che viene fornito non dev’essere più nemmeno
percepito ma, appunto, esclusivamente assorbito. Ciò che la musica di
sottofondo pretende da noi (e il 99 per cento delle musiche radiofoniche e
televisive ne fanno parte, finiscono per diventarlo, poiché c’est la
situation qui fait la musique) non è più di essere ascoltata; esiste
piuttosto per il semplice fatto che, senza di essa, scoppierebbe un vuoto
insopportabile. La merce fornita, l’ascoltatore la considera come “aria”, in
doppio senso: 1) non ci fa più caso; 2) ma, senza di essa, non può respirare.
Questo modo di distruggere, di liquidare l’oggetto, che procede attraverso la
sua liquefazione, dunque liquidazione, non è una specialità della radio e della
televisione, ma caratteristica della produzione odierna in quanto tale. Negli
Stati Uniti si parla già del principio della obsolescenza guidata, cioè
del principio di produrre prodotti in maniera tale che non durino come
oggetti. Cosa ben comprensibile: infatti è appunto nell’interesse della
produzione far seguire a ogni prodotto A, il più rapidamente possibile, un
prodotto B, il che può essere realizzato soltanto se il prodotto A viene
fabbricato in modo tale che già nell’uso si consumi da sé, dunque che venga
liquidato all’atto della consegna. Nella radio e nella televisione tale
principio ha trovato finora la sua realizzazione più perfetta.
VIII.
Ciò che è fornito viene “disinnescato”. Poiché la
merce deve essere consumata dal maggior numero possibile di consumatori, essa
deve possedere un mass appeal. E’ evidente che ciò vale al massimo per
il cinema e per la televisione. Si obietterà: non vale per la radio, dato che
abbiamo la libertà di regolare il rubinetto culturale, spostandolo sul caldo o
sul tiepido, o addirittura sull’avanguardistico; dato che insomma possiamo
scegliere chi o che cosa deve riempirci di canto la dimora. Ed è pur vero che
nella radio e talvolta anche nella televisione anche l’avanguardistico, dunque
in fin dei conti l’esoterico, ha un certo ruolo; ma a questo punto si pone il
quesito: quale funzione spetta all’avanguardistico, visto che esso ci giunge
come merce da consegna, non avendo in sé più nulla di rischioso o di
cospirativo? Risposta, che vale altresì per tutti i pezzi che ci vengono
presentati integralmente e di cui siamo ansiosamente in attesa: essi vengono
“disinnescati”. Infatti, proprio perché ci vengono consegnati a domicilio,
s’inseriscono nella categoria del riconosciuto prima ancora di essere
conosciuti da noi, il pubblico; prima ancora che noi abbiamo potuto prendere
posizione nei loro confronti. Il conformismo oggi rappresenta una chance
persino per ciò che non è conformistico. Dato che quest’ultimo, il
non-conformismo, in un certo senso ci arriva nella medesima confezione, come
merce di tutto rispetto, o come merce di svago a destra o a sinistra, o come
mondo quotidiano premasticato, non assorbiamo il non-conformismo con
atteggiamento dialettico, ma appunto come consumatori, che inghiottono tutto,
anche quando il gusto è forse un po’ amaro o non identificabile. Uso la parola
“disinnescare”, perché in realtà appartiene alla natura dell’arte lo stare
all’opposizione: cioè il presentare un altro “mondo”. Tale carattere di
opposizione spetta, in misura minima, persino all’arte più accademica, a quella
che offre solo bella apparenza: giacché anche l’apparenza è una parte che, come
un’isola all’interno della realtà, interrompe il reale o lo nega; e d’altra
parte, tale carattere spetta persino al naturalismo: infatti quest’ultimo
mostra il mondo, appunto, in modo diverso da come l’immagine del mondo che ci è
abituale, o imposta, sostiene che sia reale. Dato che l’avanguardia può vendere
al mondo tutte le sue contraddizioni sul mondo, e dato che non poche volte è
viziata da esso, spesso corre il rischio che i suoi lavori, persino dove
sostengono verità e sono presentati come fedeli alla verità, raggiungano i
destinatari in stato esangue. Non diversamente che se gli anarchici venissero
pregati di vendere le loro bombe e poi queste, per il piacere della
popolazione, fossero usate per fare fuochi d’artificio di massa. Stando così le
cose, oggi il vero avanguardismo deve rincantucciarsi nella non-appariscenza
del linguaggio quotidiano. Si legge in Brecht: “Dalle vecchie antenne
venivano le vecchie scemenze. Le cose sagge venivano trasmesse di bocca in
bocca”. E persino la nuova saggezza, se diffusa dalle nuove antenne come
vecchie scemenze, può diventare vecchia scemenza. Oppure, detto in termini
sociologici: tutto può essere massificato, persino l’avanguardistico, persino
l’esoterico. “Why don’t you join our
intimate candlelight chamber music club? Millions joined it!” si sentiva
ripetere nel ’47 alla radio Americana. La differenza fra essoterico ed
esoterico così è stata inserita nell’essoterico stesso. Ovvero, detto in
termini economici: gli interessati alla produzione di beni di consumo sono
riusciti ad assimilare, e dunque a “consumare”, persino la differenza
anticonsumistica tra non-consumo e consumo. Siamo già arrivati al punto che i
beni di consumo, per essere venduti, vengono osannati come beni di non-consumo.
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