giovedì 30 agosto 2012

Günther Anders - L'uomo è antiquato




L’uomo è antiquato – Volume II

I prodotti
1958

1.      I prodotti in serie sono nati per morire


Il principio di riproduzione dell’industria odierna non significa solo che i prodotti fabbricati nel processo di serie sono caduchi e transitori; non solo che essi, come i singoli pezzi delle precedenti generazioni di prodotti, purtroppo finiscono un giorno col diventare decrepiti, ma che soffrono di una mortalità altamente particolare, una mortalità la cui caratterizzazione appare addirittura teologica:cioè che essi  sono destinati a morire, che essi sono destinati alla transitorietà. E prevista non è solo la loro transitorietà, bensì, perlomeno approssimativamente, la loro data di scadenza, e sempre una che sia il più possibile a breve termine. Come nelle parole di una canzone nazista, la cui finalità consisteva nell’inculcare nei giovani non solo l’idea della loro sostituibilità ma persino la festosa affermazione di quest’ultima, le merci in serie sono “nate per morire”.
Si presti bene orecchio a questa espressione.
Un morire per cui si “nasce” (che dunque, invece di limitarsi a concludere una esistenza, fin dall’inizio ne costituisce lo scopo) è solo un “morire a parole”. Non al loro proprio morire venivano preparati i giovani cui si faceva cantare la canzone, ma al loro venire uccisi. E lo stesso vale per il “morire” dei prodotti in serie. Essi non nascono per morire ma per essere uccisi.
E difatti vengono uccisi da quei nuovi e freschi esemplari, i quali (per il fatto che la loro fattura e il loro rendimento sono identici alla fattura e al rendimento di quelli di cui è adesso venuto il turno) hanno il medesimo diritto a realizzarsi; e che in un certo senso stanno sempre già pronti lì, come “potenzialità imballata”, impazienti di dare il cambio ai vecchi.
O meglio, per dirla con maggior precisione: i vecchi vengono uccisi dalla produzione stessa. Giacché è questa che mette al mondo i vecchi esemplari a bella posta in condizione di scarsa vitalità. E dato che la produzione usa noi, i consumatori, come alleati, cioè ci esorta e ci educa a consumare esemplari usandoli, a sfruttarli utilizzandoli, noi ci assumiamo questo lavoro omicida a scapito dei nuovi esemplari, così che questi adesso possano affrontare il loro posto, anche se di un unico giorno, sempre innocenti e con mani pulite.
Ascoltiamo che cosa avevano da dire in proposito i molussi:
“Che i prodotti muoiano nella più tenera età infantile – si legge in uno dei più famosi documenti molussici – non prova nulla contro la nostra industria. Anche se è vero che essa genera questa discendenza mortale e persino, espressamente, la loro mortalità; e che dosa in anticipo la durata media della loro vita, e preferisce agli altri quelli che muoiono a breve scadenza; e persino che essa – cosa che si diceva un tempo a proposito delle rivoluzioni – “divora i suoi stessi figli”. Ma biasimarla per questo, rinfacciarle per questo una politica demografica priva di scrupoli o persino ingiuriarla per questo come “madre mostruosa”, sarebbe tanto meschino quanto calunnioso.  L’industria sa quello che fa e quello che è bene. Pensate solo per un momento dove saremmo se essa fosse così stolta da produrre una discendenza troppo buona, troppo sana, troppo longeva o persino – ce ne guardino gli dei! – immortale. Non vi rendete conto che così essa si priverebbe della propria stessa fertilità e, insieme con se stessa, porterebbe anche noi alla rovina? La mortalità dei suoi figli è la garanzia della sua immortalità e della nostra. E noi dovremmo lodarla come una delle garanzie della nostra felicità!
Dunque non chiamate la produzione una madre crudele! Se essa conduce una tremenda politica demografica, lo fa esclusivamente nell’interesse della propria ulteriore e permanente fertilità. E dimostra fin dall’inizio la sua ingegnosità nel non produrre solo figli mortali, bensì la mortalità dei suoi figli. Perciò possiamo tranquillamente ammettere che non solo essa rende i suoi figli esplicitamente mortali, ma che li degrada fin dalla loro prima ora. A nessuno di loro essa permette di portare un articolo determinativo, di essere un “il”. A ognuno di loro concede di portare a compimento la propria vita solo come un “un”. E a nessuno di loro la sensazione rassicurante di essere identico a se stesso. E’ vero, è destinato a essere identico, anzi deve esserlo. Ma appunto identico soltanto a quel modello di cui questo o quell’esemplare viene preso in considerazione e, rispettivamente, a quelle sorelle che sono venute al mondo proprio come lui, cioè come questo o quell’esemplare dello stesso modello. Chi dunque crede di poter descrivere la situazione odierna con le parole: “Ciò che viene prodotto oggi, domani diventerà uno scarto”, rimane indietro nella verità. Piuttosto è vero che la produzione fa nascere i prodotti come scarti di domani, che insomma la produzione è produzione di scarto. Di uno scarto, tuttavia, la cui caratteristica è che si trovi temporaneamente in stato di utilizzazione”.

  1. Sulla fine di una virtù

Noi proprietari e consumatori di prodotti non siamo indifferenti nei confronti della lotta spietata e regolarmente vittoriosa che la produzione conduce senza tregua contro la generazione dei suoi prodotti di ieri. Piuttosto siamo dalla sua parte, cioè dalla parte della produzione, il che significa che partecipiamo alla lotta come partigiani, di volta in volta, della nuova generazione. E significa anche che noi stessi ci siamo fatti spietati.
Anche noi. Infatti è quasi impossibile, in un mondo la cui massima è di sostituire il più rapidamente possibile la vecchia generazione di prodotti con la nuova, che noi ci comportiamo con riguardo nei confronti delle cose. Se nondimeno uno di noi osa tentarlo, nuota contro la corrente che porta anche lui. E se il tentativo gli riesce, se ce la fa a ritardare l’attimo della sostituzione (della vecchia generazione con la nuova), allora passa per sabotatore. La spietatezza è diventata per noi un imperativo morale.
Naturalmente tale imperativo non viene proclamato mai e in nessun luogo. Se qualcuno sollevasse delle tavole della legge, portanti scritte come: “Domina il tuo rispetto nei confronti delle cose!”, oppure: “Evita di rispettare ciò che possiedi!”, oppure: “Coltiva la tua spietatezza!”, c’irriterebbe profondamente e considereremmo pazzi quelli che comandano così. Ciò nondimeno, tali comandamenti esistono, e tanto più massicci quanto più segretamente e indirettamente si manifestano. E queste forme di camuffamento non sono solo fenomeni rari e occasionali, bensì realtà tra le più vistose e inevitabili del nostro mondo. Ciò sembra contraddire le espressioni “versioni indirette” e “forme di camuffamento”. Non oggi. Infatti per “camuffamento” non ci si deve immaginare trasformazione nel poco appariscente – oggi non ci si camuffa così – bensì trasposizioni nel vistoso e nel chiassoso: esagerazioni che coprono la voce della libertà. Che il modo migliore di sfuggire alla verità sia l’urlare, lo sappiamo già da un quarto di secolo. E nell’urlare consistono, in effetti, le versioni camuffate dei comandamenti. Parlo della réclame.
Perché le réclames pubblicitarie sono versioni camuffate dei comandamenti?
Perché ogni réclame, a parte il fatto che è spietata di per sé (cioè interrompe sempre la nostra vita, interferisce sempre in essa), incita anche alla spietatezza. Sì, alla spietatezza; perché noi già oggi possediamo il 95 per cento (anche se, forse, in qualche altra forma) dei prodotti che essa ci ordina di comprare. Così, ad esempio, mentre sto lavorando alla stesura di questo testo, mi viene ostinatamente raccomandato, cioè comandato, da un altro testo, stampato su una delle mie cartelle, di usare, invece della mia penna a sfera, che per me è del tutto sufficiente, un’altra, di cui si garantisce che “funziona anche sott’acqua”; dunque, nonostante che io non senta la minima necessità di fare lo scrittore sottomarino, di sacrificare la mia penna abituale a una nuova. Ciò che questo testo sulla mia cartella si permette, se lo permette con altrettanta sfacciataggine ogni réclame. Ognuna ci richiede implicitamente di rinunciare a quegli oggetti che già possediamo; di metterli da parte come fossero già finiti: dunque di essere spietati, senza riguardi.  Ogni pubblicità è un appello alla distruzione.
Per quanto faticoso possa essere valutare l’effetto di ogni singola réclame pubblicitaria – un intero settore scientifico è incaricato oggi di trovare metodi per il rilievo quantitativo degli effetti della réclame – nessuno può contestare che la réclame, nel suo complesso, porta i suoi frutti. Ma con ciò si ammette anche quel successo (per quanto la differenza tra i due successi sia in genere necessaria e sensata) che può registrare a proprio vantaggio l’appello a consumare senza riguardi. Questo successo è in effetti tanto evidente che si dev’essere colpiti da cecità per non riconoscerne i riflessi nei nostri gesti e nelle nostre fisionomie. Dato che viviamo in un mondo che consiste esclusivamente di cose che non solo sono sostituibili, ma devono essere sostituite (in casi estremi appaiono addirittura avide di essere sostituite), non soltanto è plausibile, ma semplicemente inevitabile che noi finiamo per crearci un tipo di rapporto sociale appropriato a questi oggetti dichiaratamente mortali e degni di morire; che noi sviluppiamo una mancanza di attenzione e di rispetto nel nostro modo di lavorare, di muoverci, di sostare, di esprimerci con l’espressione del volto. E non solo nei confronti delle cose. Mi sembra impensabile che nei rapporti umani si possano far sopravvivere, come virtù, modi di comportamento che, nei confronti dei prodotti, non passano più per virtù ma, al contrario, per non-virtù. L’umanità che tratta il mondo come un “mondo da buttar via”, tratta anche se stessa come una “umanità da buttar via”.
Sia ben chiaro quel che si vuole sostenere con questo. Né più né meno, che tutte le morali esistite fino ad oggi (per quanto fondamentalmente diverse possano essere state) si sono ormai fuse in un’unica epoca, poiché, tra esse, non c’è stata neppure una nella quale il rispetto per i prodotti non fosse naturale; e quest’unica epoca è ormai per sempre alle nostre spalle. Il rispetto è ormai una virtù antiquata, e a ragione.
Ma ciò non basta. Infatti, al posto di quella virtù antiquata ne è subentrata una opposta: virtù è adesso la più spietata mancanza di riguardi. E chi non sta al gioco è sospetto. Già negli anni quaranta venni a conoscenza del caso di una studentessa che sotto ogni aspetto era veramente normale, ma fu costretta a subire un trattamento psicoanalitico perché opponeva resistenza a lasciarsi comprare dalla madre sempre nuovi vestiti (di cui in realtà non aveva bisogno). Fu classificata non soltanto come “cocciuta” ma, addirittura come poorly adapted. “Disadattata” a che cosa? Al divieto di aver riguardo, cioè: al mondo dominante. E non solo essa era considerata come una “malata” da curare, ma anche come una nemica virtuale, come una leftist. “Chi non sta al nostro volere/costui è un sabotatore”. (Canzone molussica dei prodotti).

  1. Il paese della Cuccagna della produzione

Se questa tesi corrisponde a verità , allora non esiste nulla di più miope che voler riconoscere la nostra odierna spietatezza esclusivamente nelle nostre azioni belliche, cioè in quelle manifestamente distruttive. E nulla è più sciocco che vedere nella nostra tecnica di riproduzione un contravveleno, un rimedio col cui ausilio potremmo agire contro la nostra voglia di distruzione. E’ assai dubbio che dietro la nostra attuale ricostruzione delle città distrutte nella seconda guerra mondiale agisca una mentalità contrapposta a quella bellica. Quel taxista di Berlino che nel 1953, non del tutto insoddisfatto, così commentò il paesaggio di macerie cui era ridotto l’ex quartiere del Tiergarten: “Bhe, almeno ci hanno creato tanti di quegli spazi vuoti da costruire!” si avvicinava alla verità, dato che almeno attirava l’attenzione sul rapporto tra distruzione e costruzione. Tuttavia la piena verità neppure lui la disse, lasciando ancora inespresso il fatto che l’elemento della distruzione è immanente alla produzione stessa.
La verità viene alla luce per davvero solo nel momento in cui ci si rende conto del punto a cui siamo oggi confrontandosi con l’antico modo di dire, così fiero della propria positività: “Distruggere è facile, ma ricostruire!”. Infatti questo modo di dire, che in passato pareva solo banale, oggi è semplicemente divenuto privo di senso. E non soltanto perché, nell’epoca della produzione in serie, invece della “cosa in sé” possono venir distrutti sempre unicamente degli esemplari (il che ha già ridotto il rogo dei libri di Hitler a un’azione puramente ideologica, anzi a una farsa); e non soltanto per il fatto che la quantità che oggi si può produrre in un arco di tempo stabilito difficilmente è più piccola di quella che può essere distrutta nel medesimo arco di tempo; ma – e con ciò torniamo alla nostra tesi principale – anche perché il distruggere e il ricostruire non sono affatto due opposti, ma nascono da un’unica e identica radice; e perché questo principio è distruttivo in quanto tale, cioè in quanto interessato alla distruzione del suo prodotto. Se si tentasse una volta di abbozzare, in un quadro utopistico, la situazione nella quale fossero maturati tutti i sogni fioriti dall’odierna tecnica di produzione, nella quale dunque si fosse realizzata la situazione del paese di cuccagna (non tanto per il consumatore quanto per il produttore), si dovrebbe descrivere un mondo nel quale non esistesse più assolutamente l’usare, ma solo il pi spietato consumare; nel quale tutti i prodotti, non importa se calze da donna, bombe all’idrogeno, automobili o città, venissero distrutti con l’atto stesso dell’usarli, non altrimenti che per i prodotti dell’industria alimentare o quella di piatti o tovagliolini di carta; in breve, un mondo nel quale l’industria, nel suo complesso, si fosse trasformata in un’unica industria comprendente tutti i prodotti di consumo.
Se questo quadro resta utopistico è innanzi tutto (dal punto di vista dell’industria) a causa del nostro oblio del dovere. E’ perché noi clienti trascuriamo di combattere con sufficiente energia il sottosviluppo della nostra “spietatezza”, di assecondare con un comportamento adeguato e conformistico le potenzialità ideali che spingono verso la sua realizzazione. Così almeno si presenta la situazione dal punto di vista del principio di produzione. E questa prospettiva non è poi così falsa. Infatti siamo rimasti davvero antiquati, tutti quanti. A differenza di ciò che dice Benjamin, noi dotiamo di aura a posteriori anche i prodotti di serie, sebbene questi ultimi al momento dell’acquisto erano stati privi di aura, noi li “auratizziamo”, li intridiamo con la nostra atmosfera esistenziale: il nostro cuore non si attacca meno a un paio di pantaloni comprati già confezionati che a un altro fattoci su misura; il sentimentalismo penetra nel nostro rapporto con i prodotti di massa in modo altrettanto profondo che nei nostri rapporti con un esemplare unico. Anche i prodotti di fabbrica li trattiamo come “questi pezzi”, come i “nostri pezzi”, come “pezzi insostituibili”, invece che (come sarebbe d’uopo nella nostra situazione odierna) come “quei pezzi là”, “pezzi privi di proprietario”, come pezzi sostituibili. E se dobbiamo staccarci dai pezzi, spesso siamo incapaci di arrivare a quella indifferenza, o addirittura a quella soddisfazione, che sarebbe opportuna nell’era in cui la spietatezza è diventata una virtù. Chissà se tra poco non esisteranno degli psicoanalisti specializzati che avranno il compito di addolcire le nostre difficoltà interiori, nate da tabù nei confronti del mondo degli oggetti, e di renderci capaci di violentare prodotti con gusto e con buona coscienza. Da portare con sé per questo esercizio: porcellana di prima qualità e un martello pesante.






L’uomo è antiquato – Volume II

La realtà
Tesi per un simposio sui mass media
1960

IV.

Quali effetti produce il fatto che “l’immagine” è diventata la categoria principale della nostra vita?
I.                     Veniamo defraudati dell’esperienza e della capacità di prendere posizione. Dato che non possiamo prendere conoscenza del vasto orizzonte del mondo che oggi è realmente il “nostro mondo” (giacché “reale” è ciò che possiamo incontrare e da cui dipendiamo) in diretta visione sensibile, ma solo attraverso le immagini, proprio quello che è più importante lo incontriamo sotto forma di apparenza e fantasma, dunque in versione rimpicciolita, se non addirittura svuotata di realtà. Non come “mondo” (del mondo ci si può appropriare solo movendosi in esso e sperimentandolo), bensì come un oggetto di consumo che ci viene fornito a domicilio. Chi ha consumato nella propria stanza ben riscaldata un’esplosione atomica sotto forma di un’immagine fornita a domicilio, cioè di una cartolina illustrata in movimento, costui ormai assocerà tutto ciò che può capitargli di sentire su una situazione atomica a questo avvenimento domestico di dimansioni minuscole e con questo verrà defraudato della capacità di concepire la cosa stessa e di prendere nei suoi confronti una posizione adeguata. Ciò che viene fornito allo stato liquido, cioè a dire, tale che può essere immediatamente inghiottito, rende impossibile, perché superfluo, un confronto personale. Per lo più, anzi, l’auspicata presa di posizione viene essa stessa fornita amichevolmente insieme all’immagine, poche cose sono così caratteristiche per le trasmissioni odierne quanto la libera consegna a domicilio dell’applauso. In fondo non esiste più “mondo esterno”, perché queso ormai è soltanto l’occasione di una possibile rappresentazione a domicilio.
II.                   Veniamo defraudati della capacità di distinguere tra realtà e apparenza. Se, come per lo più accade in trasmissioni radiofoniche e televisive, l’apparenza viene rappresentata in modo realistico, la realtà al contrario (che non suona e non appare nient’altro che trasmissione) assume l’aspetto di apparenza, di una mera esibizione; se “le tavole del palcoscenico” (che, come si usa dire, rappresentano il mondo) appaiono come il mondo stesso, allora il mondo si trasforma anch’esso in “palcoscenico”, dunque in mero spectaculum, che non occorre prendere poi tanto sul serio. Così l’intera “immaginificazione” della nostra vita è una tecnica dell’illusionismo, visto che ci dà e ci deve dare l’illusione di vedere la realtà. “L’impressione di spectaculum”, che la realtà produce in televisione ha un “effetto di boomerang”, che contagia la realtà stessa: il fatto che Kennedy e Nixon si facessero truccare in modo da apparire più giovani per le loro dispute televisive prova che i due non solo erano attesi dal pubblico come uno “show”, ma che essi già concepivano se stessi come attori, che entravano in concorrenza con le stars televisive, che la loro effettiva chance politica dipendeva dalla qualità del loro “show”. Dunque, non solo l’interpretazione della realtà da parte del pubblico diventa poco seria, ma la realtà stessa lo diventa, dato che deve prendere in dovuta considerazione le immagini. Ormai il mondo diventa “rappresentazione”, tuttavia in un senso che Schopenhauer non si sarebbe mai sognato. In rapporto strettissimo con ciò
III.                  Noi formiamo in nostro mondo sulla base delle immagini del mondo: “imitazione invertita”. Dato che non esiste alcuna immagine che, almeno potenzialmente, non agisca da modello, effettivamente noi formiamo il mondo secondo l’immagine delle sue illustrazioni: ogni Johnny bacia oggi come Clark Gable. Con ciò la realtà diventa illustrazione delle sue illustrazioni (e non come, per esempio in Platone, illustrazione di idee).
IV.                Veniamo “passivizzati”. Con il rifornimento permanente veniamo trasformati in consumatori permanenti. Mentre, per esempio, come lettori siamo ancora autonomi, cioè possiamo sfogliare il libro all’indietro e determinare noi stessi il tempo che ci serve per assimilarlo, come ascoltatori e spettatori a tempo pieno siamo ormai incessantemente tenuti al guinzaglio; quando consumiamo, dobbiamo farlo anche secondo il ritmo fornitoci con il rifornimento. Invero ciò valeva sempre per il pubblico dei teatri e dei concerti; ma adesso è diventato una fatalità, poiché gli spectacula ci scorrono davanti senza tregua incanalando, proprio per questa mancanza di pause, la nostra mancanza di autonomia. Detto altrimenti: Il rapporto dell’uomo con il mondo viene addestrato a una dimensione unilaterale. Visto che siamo abituati a vedere le immagini ma non ad esserne visti; ad ascoltare persone ma non ad esserne ascoltati, ci abituiamo a una esistenza nella quale siamo defraudati della metà del nostro essere uomini. Chi ascolta soltanto ma non parla e per principio non può contraddire, non è solo “passivizzato” ma reso succube e schiavo.
V.                  Questa perdita di libertà procede tuttavia in modo talmente naturale che adesso noi, a differenza degli schiavi di buona memoria, siamo persino defraudati della libertà di avvertire la perdita della nostra libertà. Infatti, la “schiavitù” ci viene portata a domicilio e servita come merce di svago e come comodità. E ci vuole una sovranità fuori del comune per non fraintendere la comodità come libertà.
VI.                Veniamo “ideologicizzati”. Infatti, le immagini di oggi sono le ideologie di oggi: le rappresentazioni di immagini devono trasmetterci un’immagine del mondo, o meglio l’ondata d’immagini singole deve impedirci di giungere a un’immagine del mondo e di accorgerci della mancanza di questa immagine del mondo. Il metodo odierno, con il cui aiuto s’impedisce sistematicamente la comprensione, non consiste nel fornire troppo poco ma troppo. L’offerta d’immagini  (pubblicità), in parte gratuita, in parte persino inevitabile, soffoca la possibilità di farsi una immagine per conto proprio. Veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi perché ci venga impedito di vedere la foresta. L’ignoranza odierna è il prodotto della moltiplicazione di apparente materia didattica. Quanto meno dobbiamo immischiarci in decisioni che ci riguardano realmente da vicino, tanto più smisuratamente veniamo “immischiati” in cose che non ci riguardano affatto, per esempio nelle pene di certe imperatrici iraniane. Le mille immagini nascondono il contesto del mondo e tanto più in quanto ogni immagine, persino ogni flash di cinegiornale, rimane spezzettata, rendendoci dunque “ciechi alla casualità”. Visto che le immagini difficilmente mostrano i contesti, ma appunto solo “questo e quello”, veniamo trasformati in esseri puramente sensibili e questa vittoria della sensibilità è incomparabilmente più fatale della sensualità alla Lolita sotto l’ombelico.
VII.               Veniamo “macchinalmenteinfantilizzati”. Non diversamente dai neonati che si attaccano alle mammelle materne, ci attacchiamo alle mammelle inesauribili degli apparecchi; infatti tutto il bisogno di consumo e ciò che ci viene imposto come bisogno di consumo, il mondo così come il cosiddetto “mondo dell’arte”, ci viene servito allo stato liquido. Anzi: non ci viene servito affatto, ma fornito in modo talmente diretto da poter essere immediatamente usato e consumato; essendo liquido, il prodotto già finisce nell’atto di essere consumato; dunque viene liquidato. I “pezzi” forniti (già un’espressione errata) si coagulano tanto poco in oggetti concreti, quanto poco il latte materno si trasforma, tra rifornimento e consumo, in formaggio o burro; li abbiamo già dentro di noi prima di avere la possibilità di occuparcene. Modello della ricezione sensoriale oggi non è, come nella tradizione greca, il vedere; né, come in quella ebraico-cristiana, l’udire, bensì il mangiare. Siamo stati spinti in una fase orale industriale, nella quale la pappa culturale scende giù liscia. In tale fase quello che viene fornito non dev’essere più nemmeno percepito ma, appunto, esclusivamente assorbito. Ciò che la musica di sottofondo pretende da noi (e il 99 per cento delle musiche radiofoniche e televisive ne fanno parte, finiscono per diventarlo, poiché c’est la situation qui fait la musique) non è più di essere ascoltata; esiste piuttosto per il semplice fatto che, senza di essa, scoppierebbe un vuoto insopportabile. La merce fornita, l’ascoltatore la considera come “aria”, in doppio senso: 1) non ci fa più caso; 2) ma, senza di essa, non può respirare. Questo modo di distruggere, di liquidare l’oggetto, che procede attraverso la sua liquefazione, dunque liquidazione, non è una specialità della radio e della televisione, ma caratteristica della produzione odierna in quanto tale. Negli Stati Uniti si parla già del principio della obsolescenza guidata, cioè del principio di produrre prodotti in maniera tale che non durino come oggetti. Cosa ben comprensibile: infatti è appunto nell’interesse della produzione far seguire a ogni prodotto A, il più rapidamente possibile, un prodotto B, il che può essere realizzato soltanto se il prodotto A viene fabbricato in modo tale che già nell’uso si consumi da sé, dunque che venga liquidato all’atto della consegna. Nella radio e nella televisione tale principio ha trovato finora la sua realizzazione più perfetta.
VIII.             Ciò che è fornito viene “disinnescato”. Poiché la merce deve essere consumata dal maggior numero possibile di consumatori, essa deve possedere un mass appeal. E’ evidente che ciò vale al massimo per il cinema e per la televisione. Si obietterà: non vale per la radio, dato che abbiamo la libertà di regolare il rubinetto culturale, spostandolo sul caldo o sul tiepido, o addirittura sull’avanguardistico; dato che insomma possiamo scegliere chi o che cosa deve riempirci di canto la dimora. Ed è pur vero che nella radio e talvolta anche nella televisione anche l’avanguardistico, dunque in fin dei conti l’esoterico, ha un certo ruolo; ma a questo punto si pone il quesito: quale funzione spetta all’avanguardistico, visto che esso ci giunge come merce da consegna, non avendo in sé più nulla di rischioso o di cospirativo? Risposta, che vale altresì per tutti i pezzi che ci vengono presentati integralmente e di cui siamo ansiosamente in attesa: essi vengono “disinnescati”. Infatti, proprio perché ci vengono consegnati a domicilio, s’inseriscono nella categoria del riconosciuto prima ancora di essere conosciuti da noi, il pubblico; prima ancora che noi abbiamo potuto prendere posizione nei loro confronti. Il conformismo oggi rappresenta una chance persino per ciò che non è conformistico. Dato che quest’ultimo, il non-conformismo, in un certo senso ci arriva nella medesima confezione, come merce di tutto rispetto, o come merce di svago a destra o a sinistra, o come mondo quotidiano premasticato, non assorbiamo il non-conformismo con atteggiamento dialettico, ma appunto come consumatori, che inghiottono tutto, anche quando il gusto è forse un po’ amaro o non identificabile. Uso la parola “disinnescare”, perché in realtà appartiene alla natura dell’arte lo stare all’opposizione: cioè il presentare un altro “mondo”. Tale carattere di opposizione spetta, in misura minima, persino all’arte più accademica, a quella che offre solo bella apparenza: giacché anche l’apparenza è una parte che, come un’isola all’interno della realtà, interrompe il reale o lo nega; e d’altra parte, tale carattere spetta persino al naturalismo: infatti quest’ultimo mostra il mondo, appunto, in modo diverso da come l’immagine del mondo che ci è abituale, o imposta, sostiene che sia reale. Dato che l’avanguardia può vendere al mondo tutte le sue contraddizioni sul mondo, e dato che non poche volte è viziata da esso, spesso corre il rischio che i suoi lavori, persino dove sostengono verità e sono presentati come fedeli alla verità, raggiungano i destinatari in stato esangue. Non diversamente che se gli anarchici venissero pregati di vendere le loro bombe e poi queste, per il piacere della popolazione, fossero usate per fare fuochi d’artificio di massa. Stando così le cose, oggi il vero avanguardismo deve rincantucciarsi nella non-appariscenza del linguaggio quotidiano. Si legge in Brecht: “Dalle vecchie antenne venivano le vecchie scemenze. Le cose sagge venivano trasmesse di bocca in bocca”. E persino la nuova saggezza, se diffusa dalle nuove antenne come vecchie scemenze, può diventare vecchia scemenza. Oppure, detto in termini sociologici: tutto può essere massificato, persino l’avanguardistico, persino l’esoterico. “Why don’t you join our intimate candlelight chamber music club? Millions joined it!” si sentiva ripetere nel ’47 alla radio Americana. La differenza fra essoterico ed esoterico così è stata inserita nell’essoterico stesso. Ovvero, detto in termini economici: gli interessati alla produzione di beni di consumo sono riusciti ad assimilare, e dunque a “consumare”, persino la differenza anticonsumistica tra non-consumo e consumo. Siamo già arrivati al punto che i beni di consumo, per essere venduti, vengono osannati come beni di non-consumo.



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