martedì 18 giugno 2013

L'atto definitivamente sovversivo è vivere




Scesi per rue Cuvier. Perché non visitare il Jardin des Plantes, dove avevo contemplato l’indimenticabile spirale? Penetrai fra la folla di madri e di bambini che, terminati i loro giochi, stavano rincasando. Nel centro del maestoso edificio centrale scorsi la Vergine della Scienza fiancheggiata da medaglioni di pietra con le effigi dei saggi che imperituramente avevano lì svelato tanti enigmi della scienza. A sinistra: Guy de la Brosse, Facon, Buffon, Cuvier, Geoffroy Saint-Hilaire. A destra: Lamarck, Brugnias, Jussieu, Havy, Gay-Lussac. Le strade parallele o convergenti al Jardin portano i loro nomi. Senza fermarmi a guardare la statua di Buffon, avanzai per l’avenue Cuvier, parallela al Grande Viale Centrale, ombreggiato da platani, freschi e profumati come d’estate.
Il cielo si arrossava. Il crepuscolo si ammutinava sui tetti di Parigi. Entrai nel Grande Viale. Mi lasciai sedurre dall’incendio delle dalie gialle, bianche, rosse, viola dei giardini centrali. Quando raggiunsi le dalie scarlatte, circondata dall’alone delle dalie viola, stagliata contro il delicato splendore delle dalie arancione, rividi la sconosciuta della Coupole. La meraviglia rallentò la mia marcia. Camminava assorta. Questa volta mi sembrò più piccola. Indossava una sottana di velluto marrone. I due minuscoli taschini della camicia scozzese color vino, insieme al cinturone di cuoio rosso che le cingeva la vita sottile, le avrebbero conferito l’aspetto di un giovinetto se dietro la stoffa a quadri i seni non avessero imperato. No, non era più piccola: la sottana sembrava
tagliarle la sagoma. Sollevò gli occhi azzurri. Nella sua mano scorsi un libro, un libro qualsiasi sui Cile, perché sulla copertina lessi la parola “Allende”. Mi avvicinai. E col coraggio di un soldato designato per una missione suicida, con sorriso calmo e negligente, perché, in tal caso, che cosa può perderci un soldato?, mentii:
— Io ero a Santiago quando Allende è caduto…
Lei si fermò, io proseguii:
— Abbiamo voluto fare tutto allo stesso tempo, ignorando che una rivoluzione deve sapersi porre i suoi limiti…
— Lei ha assistito al bombardamento del Palazzo della Moneda…?
— Non vi ho assistito: l’ho sofferto — le dissi con occhi pieni di lacrime, che mi suscitavano la sua bellezza e non il crimine di Pinochet, lei e non il drammatico spettacolo delle rovine che io avevo contemplato, al pari di lei, sui giornali.
— Che cos’è successo veramente?
— La cosa più terribile non è stata il bombardamento… Neppure il prevedibile tradimento dei militari che avevano giurato di rispettare le elezioni democratiche…
L’azzurro dei suoi occhi divenne scuro.
— La cosa più terribile è accaduta dopo. L’assassinio in massa di detenuti, di innocenti, di allendisti, gli stupri delle bambine dei villaggi callampa. Le fucilazioni ed esecuzioni sommarie nell’Isola Dawson, nei commissariati, nelle caserme, nelle scuole, nello Stadio Nazionale di Santiago. I funerali clandestini, le migliaia di cadaveri mutilati e buttati in fosse anonime fra gli arenili…
Ci avvicinavamo alla fine di rue Cuvier. Madri in ritardo si allontanavano spingendo carrozzelle con i bambini, si riconoscevano con certe altre, si fermavano a chiacchierare. Il sole titillava sulla casa di Cuvier, semicoperta di vite. Proseguimmo per rue Jussieu.
— Forse Allende ha sognato troppo? — mi chiese.
— Non si sogna mai troppo.
— Non si può fare politica e poesia nello stesso tempo — postillò lei.
— Al contrario: è imprescindibile fare politica e poesia. Quando un rivoluzionario non è un poeta finisce per essere un dittatore o un burocrate, un traditore dei propri sogni…
Passammo di fronte al deplorevole edificio dell’Università di Parigi VII. Studenti frettolosi scendevano le scale, scherzando o salutandosi con ragazze senza volto, perché ormai per me esisteva un solo volto. Mi guardò come se tornasse da lontano:
— Quando Mao Tse-tung si recò ad assistere alla resa delle truppe del Kuomintang, sull’aereo scrisse una poesia.
Arrivammo al semaforo di rue de Fossey de St. Bernard. Il vento infreddoliva ormai le vicinanze della notte e io avevo addosso soltanto una camicia.
— Un tè le farebbe bene — disse lei.
Entrammo all’Étoile d’Or. Dentro scoprimmo una piccola sala con tavoli di legno che sopravvivevano al disastroso apogeo dei mobili di formica in quasi tutti i bar di Parigi. In fondo, davanti a un grande specchio, trovammo dei tavoli vuoti. Ordinai un tè con rum, lei tè semplice.
— Certe volte — dissi — la politica costringe a tralasciare i sogni. Un popolo che lotta in condizioni avverse non può indulgere a concessioni. Deve impiegare tutte le sue forze nel combattimento supremo. Non è tempo di poesie…
— E sempre tempo di poesie — disse lei, — anche se talvolta gli uomini politici lo dimenticano e, così facendo, dimenticano la Rivoluzione. Sto pensando a Majakovskij. Ecco un uomo che ha saputo essere al tempo stesso un combattente e un poeta…!
Le brillarono gli occhi e recitò:
Onore ai compagni dell’avvenire!
Scavando nell’escremento pietrificato dell’oggi
Per scoprire le tenebre dei nostri giorni
Forse si chiederanno anche chi io sono stato!
L’esaltazione le socchiuse la camicia. Guardai i bordi dei suoi seni; la striscia di pelle non tostata dal sole, salvata dal bikini dell’ultima estate, che mi mostrava l’autentico colore del suo corpo. Un desiderio lancinante mi bruciò.
— Lenin non lo capiva — proseguì lei. — Una volta interruppe grossolanamente un recital di Majakovskij… Lenin, il capo della Prima Rivoluzione Proletaria, l’incarnazione umana dell’ideale che cantò Majakovskij, scandalizzato dall’audacia dei suoi versi, lo interruppe e chiese pubblicamente che venissero recitati versi comprensibili, classici…
— Dal suo punto di vista, Lenin aveva regione — replicai.
— Davanti a un pubblico quasi completamente analfabeta, composto da operai stanchi di lavorare e di combattere, davanti a una folla il cui cuore era abituato alla poesia in rima, era certamente preferibile recitare Puškin. Il pubblico aspettava l’essenza rivoluzionaria dei versi di Majakovskij, ma forse non la capiva per via delle sue audace formali. L’avrebbero inteso se Majakovskij si fosse espresso nelle forme classiche ortodosse, tradizionali dei versi di Puškin.
Il desiderio mi fece rabbrividire di nuovo. Ero riuscito ad avvicinarla, sì, e la mia verga tesa tremava di anelo devastatore, ma lei era sempre apparentemente interessata a una chiacchiera che io avevo avviato non con l’intenzione di proseguirla ma di finirla in fretta. Di cattivo umore guardai ancora le colline che cozzavano contro la sua camicia scozzese. Chiesi il conto al cameriere.
— Evidentemente Majakovskij e Lenin non si metteranno mai d’accordo sulle poesie che bisogna recitare…
Sul suo viso passò un’ombra e, quasi subito, sulle sue labbra, un sorriso in cui un po’ di infanzia sembrava implorare.
— Possiamo cenare insieme? — chiese.
Nello specchio che rifletteva le nostre immagini, la folla di clienti, le conversazioni incrociate, mi sembrò che un gesso senza mano disegnasse come delle cifre, delle lettere, forse i segni dell’equazione in cui i nostri destini si risolvevano in un simbolo unico, mostravano i logaritmi segreti che reggevano la sua infanzia, la sua giovinezza, il suo futuro, gli enigmatici numeri che ondeggiavano nel suo sguardo. Uscimmo. Avanzammo verso il ponte Henri IV. Proseguimmo verso la Place de la Bastille. Tirammo dritto per il Faubourg St. Antoine. Scorgemmo le luci multicolori del Papyrus. Camerieri affrettati davano gli ultimi tocchi a un imminente banchetto, perché l’entrata e l’interno del ristorante erano zeppi di mazzi di fiori e dietro la vetrina, davanti a cui si accalcavano i curiosi, girava un appetitoso mechoui: un vitello intero, insaporito da erbe, il cui odore ci attraeva, si girava e si rigirava, dorandosi sulle braci, trafitto da una sottile verga d’acciaio. Era un ristorante costoso e io non potevo pagare, né lì né da nessun’altra parte, il pasto che il nostro incontro meritava.
— Entriamo? — chiese.
Senza attendere una risposta varcò la soglia. Non eravamo entrati che due ragazze sorridenti ci offrirono dei fiori. Una signora robusta ed elegante e un uomo grasso e pure lui elegante, sicuramente i proprietari, si avvicinarono e, con desueta gioia, ci baciarono su entrambe le guance. Capii in un lampo che ci confondevano con gli ospiti in cui onore era stato decorato il locale. Tre violinisti accrebbero l’equivoco circondandoci con musica greca, mentre la coppia ci guidava sottobraccio al tavolo principale. Lei era raggiante, senza sospettare che in realtà sfioravamo la catastrofe. Un cameriere, ancora più deferente, ci portò un secchio d’argento e stappò una non richiesta bottiglia di champagne. Tentando di evitare l’inevitabile, ricondussi lo sguardo alla dama:
— Mi scusi, signora, credo che ci sia un malinteso…
Troppo tardi! Il cameriere serviva la bottiglia di Moët et Chandon e la donna offriva una rosa alla mia irresponsabile compagna, mentre gli impietosi violinisti insistevano nel moltiplicarci il conto con le loro melodie fenice.
— Che cosa desiderano i signori? — sorrise il maître.
— Scelga lei il meglio — disposi rassegnato al disastro e alla felicità.
Mi sentii incontenibilmente pieno. Qualunque cosa succedesse, io ero vivo, seduto accanto alla donna che era ormai tutto per me. Che cosa poteva importarmi finire al commissariato? Il ristorante si riempiva di coppie in ghingheri, coppie giovani e non più tanto giovani, gli autentici festeggiati della serata.
— Non permetterò che nulla né nessuno guasti la mia allegria — dissi.
E lei, dimostrandomi che sapeva già tutto:
Si mangia quando si ha fame, non quando si hanno soldi. Sollevò la coppa di champagne, mi guardò. I camerieri si affannavano a servire antipasti. Non so quanto tempo trascorse. Allorché tornai dalle mie meditazioni, sentii che lei diceva:
… C’è un solo animale capace di morire di fame senza osar toccare il cibo, pur avendolo a portata di mano. Tutte le bestie attaccano e muoiono lottando per il loro sostentamento. So!tanto l’uomo si avvilisce morendo di fame e di freddo senza rompere le vetrine di un negozio qualsiasi per sopravvivere.
— L’uomo che non obbedisce al suo desiderio, muore. Hegel dice che la storia è l’insieme dei desideri desiderati. E se la storia è l’insieme dei desideri desiderati, è una storia non realizzata. In tal senso, l’accumulazione di desideri desiderati ma non soddisfatti è una perversione collettiva.
— Il problema essenziale di una società non è la giustizia — disse lei; — è il piacere. Ma deformata da quanto lei chiama la storia perversa, l’umanità non è capace di assumere il proprio piacere.
— L’uomo è un animale che non può soddisfarsi unicamente della realtà. Non si nutre solo di cibo. Il suo sostentamento fondamentale sono i simboli. E per questo, distruggere il capitalismo unicamente per motivi di giustizia sarebbe necessario ma limitato. Così la giustizia può portare solo a ridistribuire la ricchezza, a ridistribuire il desiderio pietrificato…
— La rivoluzione non soltanto ridistribuisce ricchezze; le crea. L’unica via di uscita da quanto lei chiama il desiderio pietrificato è la soddisfazione di quel desiderio in una serie infinita di desideri vivi. E questo non potrà mai succedere fra i limiti di una società caduca, passatista, immobile.
— D’accordo. La tragedia è che le rivoluzioni ripetono le istituzioni. Non si tratta di creare un nuovo stato, un nuovo esercito, una nuova chiesa, una nuova famiglia. Si tratta di inventare una società in cui lo Stato, l’Esercito, la Famiglia e la Chiesa non esistano.
— In tal caso, la differenza fra capitalismo e comunismo sarebbe la differenza fra un desiderio pietrificato e un desiderio da compiersi?
— La forza irresistibile di una rivoluzione è la sua promessa di paradiso. In teoria, la rivoluzione si propone di distruggere la società in cui i desideri non si realizzano e sostituirla con un’altra in cui i desideri si compiranno. Ecco perché c’è una tentazione più alta, più affascinante della rivoluzione. Il problema del capitalismo è che sul muro spruzzato dal sangue di milioni di rivoluzionari fucilati, sul muro finale, ci sarà sempre scritta la promessa di Saint Just: “La Rivoluzione deve fermarsi soltanto alla felicità”
— Neppure alla felicità deve fermarsi — interruppe lei, con gli occhi ingranditi non so se per via della musica, dello champagne o delle Grandi Promesse, con le guance arrossate, con la spinta dei seni che tiranneggiavano la camicia a quadri.
Era ormai mezzanotte. La lentezza dei camerieri denunciava il termine della cena. Come l’avremmo pagata?, mi inquietai di nuovo. Sì! Ma che prezzo potrà mai avere una serata simile? Sentii assottigliarsi il mio destino. Quante volte gli uomini si fermano a un angolo ed esitano fra due strade, senza sapere che prendendo la strada a sinistra incontreranno, forse in un bar o sotto un portone, la donna che meraviglierà o distruggerà la loro esistenza; o che prendendo quella a destra si avvieranno verso un bar senza nome, verso una lite di ubriachi, verso la pugnalata finale; fra la felicità e la sciagura, io sceglievo la strada buona? Fermo a quell’incrocio immaginario decisi che, pur di rimanere con lei, non mi sarebbe importato, né più mi sarebbe importata, nessuna strada.
— Ancora champagne! — ordinai.
Il maître si affrettò a portare dell’altro Moët et Chandon accompagnato questa volta da una squisita scelta di pasticceria. E rammentando che Lenin aveva detto che il carcere è la migliore scuola dei rivoluzionari, chiesi il conto.
I suoi occhi portentosi mi guardarono.
— Mi chiamo Marie Claire. Sono del Toro e marxista, tendenza Groucho.
— Mi chiamo Santiago. Sono dei Pesci. E marxista, tendenza Marie Claire.
I proprietari si avvicinarono sorridenti e posarono il conto schiacciato da un fiore, sopra un piccolo vassoio d’argento.
— Cari amici, oggi abbiamo inaugurato il nostro ristorante. Voi siete stati i nostri primi clienti. Come felice augurio per la prosperità di questo locale, dove sappiamo che tornerete spesso, vi preghiamo di considerarvi nostri ospiti. Augurateci buona fortuna. È tutto.
I benedetti violinisti ci accompagnarono fino alla porta. Un’inconcepibile luna brillava su Parigi, meno inconcepibile e luminosa dello sguardo con cui lei mi disse:
— Il caso ci aveva preparato il regalo di nozze.

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