venerdì 15 marzo 2013

Congedo





Canti d’angoscia, di sprezzo e di livore,

vi mando per la Patria

come saette intossicate e barbare;

ho troppo amato e sofferto,

sul cuore della Patria dilaniato,

per concedermi il lusso dell’imparzialità.

Chi dovrà dunque ascoltarmi,

se non colui che manca d’ogni cosa?

Colui al quale, ecco, io tributo l’armi,

non le preghiere, per osare e prendere?

Questo è il mazzo di vepri, di rose,

di cardi, di mortelle:

non vi ho aggiunto l’elleboro:

perché desidero non vi scordiate mai.

Chi vorrà dunque appressare le nari

ed odorare e ungersi e lacerarsi le guancie

dentro i profumi e le corolle aspre?

Chi risentire le angoscie provate?

Ho cantato la Morte e l’ho protetta

sopra alle soglie della veniente Vita;

ho ridetto che senza questa divina ministra

non altre culle vagiran domani.

Chi dunque vorrà proibirmi

d’aggiungere al peana l’epicedio,

la canzone della strage all’inno della nascita?

E vi diranno che ho nascosto bombe,

sotto i fiori selvaggi, e che vi ho convitati

a nozze gaie, per assassinarvi

in codesto banchetto avvelenato d’insolita poesia,

per un Valhalla erotto in mezzo la Città.

Ma chi potrà imputarmi

il cieco delitto della incoscienza,

della bombarda scoppiata pazza,

d’odio, d’entusiasmo e frenesia

in mezzo alla folla ed in mezzo alla piazza?

Sciocchezza anarchica,

sacrificatasi co’ suoi nemici, non fa per me.

No; l’arme ch’io impugno è perfetta;

l’arte la volle così;

brunita e rabescata, saggiata dal perito,

di calibro grosso, per bestie grosse;

e il mio bersaglio è scelto e lucido.

Lo designai, con cura, tra il greggie;

l’ho postillato con croci purpuree,

Tarquinio, col giunco, decapitava,

parlando col Messo del Senato,

i massimi papaveri di tra le siepi.

Dunque, ho premeditato;

premeditai le vittime, scelsi l’arme sicura,

vengo a colpire, senza paura,

giusto delitto allegro per la mia superbia.

Certo, l’ipocrisia d’ogni e qualunque uomo

e la falsa modestia, e il larvato corrompere,

e il rubare con grazia col codice benigno,

e l’impostura, badessa venerabile;

l’uccider lento e calmo per fame,

lo straziare coi triboli morali;

e tutti li aguzzini intemerati,

e le baldracche che hanno seguito e conto,

questa Gente-per-bene pasciuta e riverita,

tutta questa canaglia favorita,

e i vostri tradimenti, e la universa vigliaccheria,

tutti, a cartone lucido e specchiante

per le palle blindate di feroce ironia,

codesta società di saltimbanchi,

che schiaffeggio ed accuso ad alta voce.

Uscite, giovanetti dalle coscienze bianche spappolate,

laminati dal buon terz’ordine boschino,

riconfortati dall’aure impoverite

de’ respiri melensi e cittadini;

nonzoli, uscite, libidinosi

bitorzoluti dall’onanismo,

emunti liceisti di mal francese,

madamigelle pallide di leucorrea,

chierichetti mignoni insatiriti,

vittime, colleggiali, compiacenti;

uscite, galantuomini meschini

e nevrastenici di monarchia,

belle speranze e prodotti d’Italia,

eroi da un soldo, poetini in fregola,

poetesse di rossor’ catameniali,

pie prostitute de’ confessionali

scintillanti ufficiali inuzzoliti,

monaci, monacelle,

abati modernisti,

incappucciati Anticristi del vecchio rituale;

uscite fuori funzionarietti indebitati,

facili prosseneti delle spose

languide, intenzionali e feministe,

cornuti compiacenti per il bene della famiglia

che s’aumenta e insiste capriciosetta;

uscite fuor per la densa fanghiglia

dell’alba lutulenta e miseranda:

- lumache viscide tentano il passo,

molli tentaculi sporgono a prova;

or sì, or no, si giova il mollusco flacido,

chiocciola o piovra lattiginosa e crudele;

or no, or sì, pretende l’invertebrato il pasto: -

no, Gente-per-bene! domani,

saran tutte le strade sbarrate, ingombre di cadaveri;

vostri cadaveri affratellati:

sian tutte queste carogne sociali

che abbattei con piacer, l’una sull’altra,

con giuste e numerate revolverate.


Breglia, il 13 di Giugno 1908


Gian Pietro Lucini (in Revolverate, 1909)

Nessun commento: