Uomini di grandissimo valore, igienisti e biologi, hanno studiato così a fondo i problemi relativi all’alimentazione abituale
che mi guarderei bene dal dare prova d’incompetenza esprimendo la mia opinione sull’alimentazione animale e vegetale. A ciascuno il suo mestiere. Non essendo né chimico né medico, non
parlerò né dell’azoto né dell’albumina; non riprodurrò i dosaggi
forniti dagli analisti; mi limiterò semplicemente a riferire le mie
impressioni personali, che sicuramente coincideranno con quelle di molti vegetariani. Ripercorrerò il corso della mia vita e,
all’occorrenza, mi fermerò a fare delle riflessioni quando le piccole avventure dell’esistenza lo solleciteranno.
All’inizio, devo dirlo, la ricerca della pura verità non ebbe
niente a che vedere con le prime impressioni che fecero di quel
monello che ero, ancora vestito da bambino, un vegetariano virtuale, in potenza. Ricordo distintamente l’orrore del sangue versato. Una persona della mia famiglia, mettendomi un piatto in
mano, mi aveva mandato dal macellaio del paese, chiedendomi
di prendere non so quale pezzo di carne sanguinolenta. Ingenuo
e timoroso, mi avviai di buona lena a fare la commissione e
penetrai nel cortile dove stavano i carnefici della bestia sgozzata. Ricordo ancora quel cortile sinistro, dove passavano uomini
spaventosi, con grandi coltelli in mano che asciugavano sui
grembiuli schizzati di sangue. Sotto un portico, un’enorme carcassa occupava, così mi pareva, uno spazio immenso; dalla
carne bianca un liquido rosa colava nei canaletti di scolo. Muto
e tremante, me ne stavo in quel cortile insanguinato, incapace di
procedere, troppo terrorizzato per fuggire.
Altre scene amareggiano i miei anni infantili e, come quella
della macelleria, segnano altrettante date della mia storia. Rivedo il maiale dei contadini, macellai occasionali e tanto più crudeli: uno di loro sgozza lentamente l’animale affinché il sangue
coli goccia a goccia: è indispensabile, sembra, per la buona preparazione dei sanguinacci che la vittima abbia molto sofferto.
Questa emette continui stridii, interrotti da pianti infantili, da
richiami disperati, quasi umani. Sembra di sentire un bambino:
il maiale domestico non è forse stato davvero per un anno il
bambino di casa, rimpinzato per l’ingrasso, che con vero affetto
rispondeva a tutte quelle cure che non avevano altro scopo se
non quello di procurargli uno spesso strato di lardo? E quando
l’amore è corrisposto, quando la massaia, incaricata di accudire
al maiale, prova amicizia per il suo protetto, lo accarezza, lo
lusinga e gli parla, appare forse ridicolo, come se fosse assurdo,
quasi disdicevole, amare un animale che ci ama? Una forte
impressione della mia infanzia è l’avere assistito a uno di questi
drammi rusticani: la sgozzatura di un maiale eseguita da una
piccola folla insorta contro una mia generosa e vecchia prozia
che non voleva acconsentire all’uccisione del suo pingue amico.
A forza la piccola folla del villaggio era entrata nel recinto dei
maiali, a forza aveva trascinato la bestia nel rustico mattatoio
dove l’attendeva l’apparato per la sgozzatura, mentre la sfortunata donna, accasciata su uno sgabello, piangeva lacrime silenziose. Stavo al suo fianco, vedevo queste lacrime e non sapevo
se dovevo impietosirmi per il suo dolore o credere, insieme alla
folla, che la sgozzatura del maiale fosse giusta, voluta dal buon
senso così come dalla sorte.
Ognuno di noi, soprattutto se ha vissuto in un contesto popolare, lontano dalle banali città uniformi dove tutto è metodicamente classificato e nascosto, ognuno di noi ha potuto assistere
ad uno di questi atti barbarici, commessi dal carnivoro contro
le bestie che mangia. Non è il caso di andare in una qualche
Porcopoli dell’America del Nord o in un saladero della Plata
per osservarvi l’orrore dei massacri che rappresentano la base
della nostra abituale alimentazione. Ma con il passare del
tempo queste impressioni si cancellano: lasciano il posto a
quella deplorevole educazione di tutti i giorni che consiste nel
ricondurre l’individuo nella media, togliendoli tutto ciò che lo
rende un essere unico, una persona. I genitori, gli educatori,
ufficiali e non, i medici, senza contare quell’insieme tanto
potente che si chiama «tutti», lavorano in sintonia per indurire
il carattere del bambino riguardo a queste «carni ambulanti»,
che però amano come noi e come noi sentono e, grazie alla
nostra influenza, progrediscono e regrediscono come accade a
noi.
Perché uno dei più tristi risultati delle nostre abitudini alimentari carnivore è che gli animali sacrificati dall’appetito
umano sono stati sistematicamente e metodicamente resi brutti,
informi, degradati nella loro intelligenza e nel loro valore morale. Il nome stesso dell’animale nel quale il cinghiale è stato trasformato è diventato il più grosso degli insulti: la massa di carne
che è stata vista voltolarsi nelle pozze nauseabonde è così laida
da guardare che si evita ben volentieri ogni analogia tra la bestia
e il piatto che se ne ricava. Quale differenza di aspetto e di portamento tra il muflone che salta sulle rocce delle montagne e il
montone che, ormai privo di qualsiasi iniziativa, semplice carne
abbrutita in balia della paura, non osa più allontanarsi dal gregge, si getta da solo in bocca al cane che lo rincorre! Stesso imbastardimento nel manzo, che ora vediamo muoversi faticosamente nei campi, trasformato dagli allevatori in un’enorme
massa di carne ambulante dalle forme geometriche, come progettate per il coltello del macellaio. È per produrre simili mostri
che usiamo l’espressione «allevamento»! Ecco come gli uomini
svolgono la loro missione di educatori nei confronti degli animali loro fratelli!
Del resto, non è forse in questo modo che ci comportiamo nei
confronti dell’intera natura? Lasciate una banda di ingegneri in
un’affascinante vallata, in mezzo ad alberi e praterie, sulle rive
di un bel fiume, vedrete presto ciò che ne faranno! S’impegneranno al massimo a rendere la loro opera personale il più evidente possibile e a nascondere la natura sotto mucchi di pietre e
di carbone; saranno allo stesso modo tutti fieri di vedere il fumo
delle loro locomotive innalzarsi in uno sporco intrico di volute
giallastre o nere. È vero che talvolta questi ingegneri pretendono
anche di abbellire la natura. Tant’è che quando, di recente, gli
artisti belgi hanno protestato contro la devastazione dei paesaggi
rivieraschi della Mosa, il ministro si è affrettato a far loro sapere
che da allora in poi sarebbero stati contenti di lui: si impegnava
infatti a fare costruire le nuove fabbriche tutte ornate con torrette gotiche! Allo stesso modo i macellai espongono le carcasse
smembrate, le carni sanguinolente sotto gli occhi del pubblico,
sul ciglio stesso delle strade più frequentate, a fianco di negozi
infiorati e profumati; e hanno persino l’audacia di inghirlandare
con rose le carni appese: così l’estetica è salva!
Ci si meraviglia di leggere sui giornali che tutte le atrocità
della guerra in Cina siano non un brutto sogno, ma una triste
realtà! Com’è possibile che uomini che hanno avuto la fortuna
di essere accarezzati dalle loro madri e di ascoltare a scuola
parole di giustizia e di bontà, come può accadere che queste
belve dal volto umano provino piacere a legare dei cinesi fra
loro per i vestiti e per i codini e a gettarli nel fiume? Come può
succedere che diano il colpo di grazia ai feriti e che facciano
scavare le proprie fosse ai prigionieri, prima di fucilarli? Chi
sono questi terribili assassini? Sono persone che ci assomigliano, che studiano e leggono come noi, che hanno fratelli, amici,
una moglie o una fidanzata: prima o poi, siamo destinati ad
incontrarli, a stringere loro la mano senza trovarvi traccia del sangue versato! Ma non c’è forse una diretta relazione di causa
ed effetto tra l’alimentazione di questi carnefici che si proclamano «civilizzatori» ed i loro atti feroci? Anch’essi si sono abituati a esaltare la carne grondante di sangue come portatrice di
salute, di forza e di intelligenza. Anch’essi entrano senza disgusto nelle macellerie dove si scivola sul pavimento rossastro e si
respira l’odore dolciastro del sangue! C’è dunque una differenza
così grande tra il cadavere di un bue e quello di un uomo? Le
membra tagliate, le viscere mischiate dell’uno e dell’altro si
assomigliano molto: l’abbattimento del primo facilita l’uccisione del secondo, soprattutto quando risuona l’ordine del capo e si
sentono di lontano le parole del signore incoronato: «Siate
implacabili!».
Un proverbio francese dice che «ogni azione cattiva può
essere negata». Questa pretesa conteneva una certa verità quando i soldati delle diverse nazioni commettevano separatamente
le loro crudeltà e potevano in seguito imputare alla gelosia, agli
odi nazionali, i fatti atroci a loro attribuiti. Ma in Cina, russi,
francesi, inglesi, tedeschi non si nascondevano più con cautela
gli uni dagli altri: i testimoni oculari e gli autori stessi ci hanno
informati in tutte le lingue, gli uni con cinismo, gli altri con reticenza. La verità non può più essere negata; ma si è dovuto creare una nuova morale per spiegarla. Questa morale sostiene che
vi sono due diritti dei popoli: l’uno viene applicato ai gialli,
l’altro è privilegio dei bianchi. Assassinare, torturare i primi
sembra ormai permesso, mentre sarebbe inammissibile farlo ai
secondi. Ma a proposito degli animali, la morale non è ugualmente elastica? Eccitando i cani a sbranare la volpe, il gentiluomo impara a lanciare i suoi fucilieri sul cinese in fuga. Le due
cacce non sono che un unico e identico sport; tuttavia, quando
la vittima è un uomo, l’emozione, il piacere sono probabilmente
più intensi. Lo si chieda a chi evocò di recente il nome di Attila
per dare questo mostro come esempio ai suoi guerrieri!
Non è una digressione ricordare gli orrori della guerra a proposito dei massacri di bestiame e dei banchetti per carnivori. Il
regime alimentare corrisponde ai costumi degli individui. Sangue chiama sangue. A questo proposito, ciascuno può misurare i
propri ricordi sugli uomini che ha conosciuto; in cuor suo nessun dubbio potrà rimanere sul contrasto che esiste, in linea generale, tra i vegetariani e i grandi mangiatori di carne, gli
avidi bevitori di sangue, per la piacevolezza delle abitudini, la
dolcezza del carattere, la serenità della vita.
È vero che sono qualità tenute in poco conto dai «superuomini» che, senza essere superiori agli altri mortali, hanno però più
arroganza e contano di farsi valere disprezzando gli umili ed
esaltando i forti. Secondo costoro gli uomini miti sarebbero dei
deboli e dei malati che ingombrano la strada: allontanandoli, si
farebbe un’opera pia. Se non li si uccide, almeno li si lasci morire. Ma è che, per l’appunto, i mansueti potrebbero essere più
resistenti al male dei violenti: i tipi sanguigni e molto coloriti
non sono di solito quelli che vivono più a lungo; gli uomini
veramente forti non sono coloro che portano tutta la forza
nell’aspetto esteriore, nel colorito rubicondo del viso, nella
sporgenza dei muscoli o nelle rotondità del lucido grasso.
D’altronde, la statistica potrà presto informarci positivamente a
questo proposito; l’avrebbe già fatto se tante persone interessate
non fossero impegnate a schierare a battaglia le cifre vere o
false per difendere le rispettive teorie.
Comunque sia, diciamo soltanto che per la grande maggioranza dei vegetariani il problema non consiste nel sapere se i
loro bicipiti e tricipiti sono più solidi di quelli dei carnivori, né
se il loro organismo presenta una maggior forza di resistenza
contro i colpi della vita e le possibilità di morte; il che d’altronde è molto importante. Per loro si tratta di riconoscere i vincoli
di simpatia e collaborazione che legano gli uomini ai così detti
animali inferiori, e l’estensione a questi nostri fratelli di quella
stessa sensibilità che ha posto fine al cannibalismo tra uomini.
Le ragioni che gli antropofagi potevano invocare contro la
rinuncia alla carne umana nell’alimentazione abituale avevano
lo stesso valore di quelle addotte oggi dai semplici carnivori; le
ragioni che si fecero valere contro la mostruosa consuetudine
sono proprio quelle a cui oggi ci appelliamo: il cavallo e il bue,
il coniglio selvatico e il coniglio comune, il cervo e la lepre ci
convengono più come amici che come carne. Teniamo a conservarli sia come rispettati compagni di lavoro sia come semplici
partecipi della nostra gioia di vivere e di amare.
Ma ci obietteranno: «Se vi astenete dalla carne degli animali,
altri carnivori, uomini o bestie, li mangeranno al vostro posto oppure la fame e gli elementi si incaricheranno di distruggerli».
Probabilmente l’equilibrio delle specie si manterrà come una
volta, secondo le possibilità della vita e la lotta reciproca degli
appetiti; ma, almeno nel conflitto delle razze, spetterà ad altri
l’opera distruttiva. Sfrutteremo razionalmente la parte di Terra
che ci toccherà, rendendola il più possibile piacevole, non soltanto per noi, ma anche per le bestie che ci circondano; prenderemo sul serio il ruolo di educatori che dalle epoche preistoriche
gli uomini si sono attribuiti. La nostra parte di responsabilità
nelle trasformazioni dell’ordine universale non va al di là di noi
stessi e dell’ambiente che ci circonda. Se facciamo poco, almeno quel poco sia opera nostra.
È certo che cadremmo nella pura assurdità se avessimo l’idea
chimerica di spingere la pratica della teoria fino alle ultime conseguenze logiche, senza preoccuparci di considerazioni d’altro
genere. A questo proposito, il principio del vegetarianismo non
differisce da qualunque altro principio: deve adattarsi alle ordinarie condizioni di vita. Ovviamente, non abbiamo intenzione di
subordinare tutte le nostre pratiche ed azioni di ogni ora, di ogni
minuto, al rispetto della vita degli esseri infinitamente piccoli;
non ci lasceremo morire di fame e di sete, come quel tal lama
buddista, qualora il microscopio ci mostri una goccia d’acqua
tutta palpitante di animali invisibili ad occhio nudo. All’occasione non ci faremo scrupolo di tagliare un bastone nella foresta, né di prendere un fiore in un giardino; coglieremo insalate,
cavoli e asparagi per nostro nutrimento, pur riconoscendo pienamente la vita nelle piante come negli animali. Per noi non si
tratta di fondare una nuova religione cui assoggettarci con dogmatismo settario: si tratta di rendere la nostra esistenza più bella
possibile e conformarla, per quanto sta in noi, alle condizioni
estetiche dell’ambiente. Come i nostri antenati si sono disgustati
di mangiare la carne dei loro simili ed un bel giorno hanno cessato di portarla in tavola, così fra i carnivori ci sono molti che
rifiuterebbero di mangiare la carne del nobile cavallo, compagno dell’uomo, o quella del cane e dei gatti, accarezzati ospiti
del focolare; così ci ripugna bere il sangue e masticare il muscolo del bue, l’animale aratore che ci dà il pane. Non vediamo
l’ora di non sentire più i belati dei montoni, i muggiti delle vacche, i grugniti e gli stridii dei maiali che si conducono al macello; aspiriamo ad un’epoca in cui non passeremo più di corsa, per
abbreviare l’orrendo minuto, davanti a un mattatoio dai rivoli
sanguinolenti, dagli uncini aguzzi dove pendono carcasse, dal
personale imbrattato di sangue, armato di odiosi coltelli. Ci
preoccupiamo insomma di vivere in una città dove non si rischi
più di vedere macellerie piene di carcasse accanto a negozi di
sete o di gioielli, di fronte alla farmacia o alla vetrina di frutti
profumati, o alla bella libreria adorna di incisioni, statuette e
opere d’arte. Vogliamo intorno a noi un ambiente gradevole alla
vista e in armonia con la bellezza. Poiché i fisiologi o meglio
ancora la nostra esperienza personale ci dicono che questo odioso nutrimento di carni fatte a pezzi non è necessario per sostenere la nostra esistenza, bandiremo questi orridi alimenti che piacevano ai nostri antenati e che piacciono ancora alla maggior
parte dei contemporanei. Speriamo proprio che tra non molto
costoro avranno almeno la delicatezza di nascondere il loro
nutrimento. I macelli sono già relegati nelle periferie fuori
mano: che le macellerie seguano lo stesso cammino, rintanandosi come le stalle negli angoli bui!
Aborriamo, perché sordide, la vivisezione e ogni sperimentazione rischiosa, a meno che non sia eroicamente praticata dallo
scienziato sulla propria persona. Proviamo disgusto per l’azione
ignobile del naturalista che appunta sulla sua scatola farfalle
vive e che distrugge tutto il formicaio per contarne le formiche.
Ci scostiamo con ripugnanza dall’ingegnere che deturpa la natura imprigionando una cascata in tubi di ghisa e dal boscaiolo
californiano che abbatte un albero di quattromila anni e di cento
metri di altezza per mostrarne i cerchi nelle fiere o nelle mostre.
La bruttezza nelle persone, nelle azioni, nella vita, nella natura
circostante: ecco il nemico per eccellenza. Diventiamo belli noi
stessi, e rendiamo belle le nostre vite!
"In ultima analisi, non è dunque un pugno di governanti quello che ci schiaccia, ma è l’incoscienza, la stupidità dei montoni di Panurgo che costituiscono il bestiame elettorale. Noi lavoreremo senza tregua in vista della conquista della “felicità immediata”, restando partigiani del solo metodo scientifico e proclamando con i nostri compagni astensionisti: L’ELETTORE, ECCO IL NEMICO! E adesso alle urne, bestiame!” Manifesto dei redattori del giornale francese “L’Anarchie”, 1906
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