martedì 31 dicembre 2013

da "La gioia della vita "

I lavoratori tutti i giorni commettono un suicidio mentale, lasciando la mente inattiva, non lasciandola vivere; uccidono dentro di sé il godimento delle arti e della pittura, della scultura e della musica, che offrono qualche sollievo alla cacofonia che li circonda. Non ci può essere questione di diritto o dovere, di codardia o di coraggio in relazione al suicidio, ma è puramente un problema materiale, di potere o mancanza di potere. Si sente dire: "Il suicidio è un diritto umano quando costituisce una necessità..." O ancora, "non ci si può prendere il diritto di vita e di morte." Giusto? Necessità? Il suo diritto di respirare male, uccide la maggior parte delle salutari molecole a vantaggio di quelle malsane? Il suo diritto di non mangiare secondo la sua fame, uccide il suo stomaco? Il suo diritto di obbedire, uccide la sua volontà? Il suo diritto di amare la donna designata dalla legge o scelta dal desiderio di un periodo della sua vita, uccide tutti i desideri dei giorni a venire? Oppure, se si sostituisce la parola "diritto" con la parola "necessità" in queste frasi, possiamo renderle in tal modo più logiche? Non ho intenzione di "condannare" questi suicidi parziali più di quei suicidi definitivi, ma mi sembra pateticamente comico descriverli come diritto o necessità, questa resa dei deboli prima che si arrendano ai più forti -e una resa fatta senza aver provato di tutto. Tali espressioni sono solo scuse a cui ci si aggrappa. Tutti i suicidi sono imbecilli, il suicidio totale più degli altri, poiché è possibile portare con sé fuori delle forme parziali. Sembrerebbe che al momento della partenza del singolo, tutta l'energia che potrebbe essere focalizzata su un unico punto di reazione contro l'ambiente, anche con la possibilità di fallire, svanisca. Ciò appare ancora più necessario e naturale, in considerazione del fatto che si lascia dietro chi si ama. Per questa parte di sé, questa porzione di energia di cui si compone, non ci si può impegnare in una lotta gigantesca, comunque ineguale nel combattimento, in grado di scuotere la colossale autorità? Molti muoiono, dichiarando di essere vittime della società: non si rendono conto che, dal momento che è la stessa società a produrre questi effetti, i loro compagni, coloro che amano, potrebbero morire come vittime di un medesimo stato di cose? Non vogliono desiderare di trasformare la loro forza vitale in energia, in potenza, in modo da bruciare tutto piuttosto che non fare nulla? Una volta che uno ha superato la paura della morte, della dissoluzione completa della forma umana, si può impegnare molto di più nella lotta con quella forza. Qualcuno ci risponderà: "Abbiamo orrore del sangue. Noi non vogliamo attaccare questa società, fatta di uomini che ci sembrano essere sia inconsapevoli che irresponsabili." La prima obiezione non regge. La lotta assume soltanto una forma violenta? Non è multipla, diversa? E tutte le persone che capiscono la sua utilità, non possono che prendere parte, ciascuno, secondo il proprio temperamento? La seconda è troppo imprecisa. Parole come "società", "conoscenza", "responsabilità" sono troppo spesso ripetute e troppo poche spiegate. La barriera che ostruisce la strada, il serpente che si morde la coda, il microbo della tubercolosi che è inconsapevole e senza responsabilità, ma ci difendiamo contro di loro. Ancora più irresponsabile (in senso relativo) sono i campi di grano che abbiamo raccolto, il bue che noi uccidiamo, l'alveare che noi derubiamo. Tuttavia ci attaccano tutti. Non so nulla di "responsabile" né di "irresponsabile". Vedo le cause della mia sofferenza, dei crampi della mia personalità; ed i miei sforzi sono piegati a sopprimere o a conquistare il tutto con ogni mezzo possibile. Secondo la mia forza di resistenza, io assimilo o rifiuto, mi assimilano o mi respingono. Questo è tutto.

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