Capitolo I
Avviso agli
studenti
La scuola è
stata, con la famiglia, la fabbrica, la caserma e accessoriamente l'ospedale e
la prigione, il passaggio ineluttabile in cui la società mercantile piegava a
suo vantaggio il destino degli esseri che si dicono umani.
Il governo che
essa esercitava su nature ancora appassionate delle libertà dell'infanzia
l'apparentava, infatti, a quei luoghi poco propizi alla realizzazione e alla
felicità che furono - e che restano in diversa misura - il recinto familiare,
l'officina o l'ufficio, l'istituzione militare, la clinica, le carceri.
La scuola ha
forse perso il carattere ributtante che presentava nel XIX e XX secolo, quando
rompeva gli spiriti e i corpi alle dure realtà del rendimento e della servitù,
facendosi gloria di educare per dovere, autorità e austerità, non per piacere e
per passione? Niente è meno certo, e non si potrà negare che sotto l'apparente
sollecitudine della modernità, numerosi arcaismi continuano a scandire la vita
di studentesse e studenti.
L'impresa
scolastica non ha forse obbedito fino ad oggi a una preoccupazione dominante:
migliorare le tecniche di ammaestramento affinché l'animale sia redditizio?
Nessun ragazzo
supera la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di perdersi: voglio
dire di perdere questa vita esuberante, avida di conoscenze e di meraviglie,
che sarebbe così esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e farla disperare
con il noioso lavoro del sapere astratto. Che terribile constatazione quegli
sguardi così brillanti di colpo sbiaditi!
Ecco quattro
muri. Il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi, vi saremo
imprigionati, costretti, colpevolizzati, giudicati, onorati, puniti, umiliati,
etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati, trattati come
aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi lamentate?
obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse il modo migliore di
iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono il mondo e l'esistenza?
Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero ancora accontentarsi di una società
senza gioia e senza avvenire, che gli stessi adulti sopportano ormai
rassegnati, con un'acrimonia e un malessere crescenti?
Una scuola dove
la vita si annoia insegna solo la barbarie
Il mondo è
cambiato più in trent'anni che in tremila. Mai - perlomeno nell'Europa
occidentale - la sensibilità dei ragazzi ha tanto deviato dai vecchi istinti
predatori che fecero dell'animale umano la più feroce e la più distruttrice
delle specie terrestri.
Eppure,
l'intelligenza resta fossilizzata, quasi impotente a percepire la mutazione che
si opera sotto i nostri occhi. Una mutazione paragonabile all'invenzione
dell'utensile, che produsse un tempo il lavoro di sfruttamento della natura e
generò una società composta di padroni e di schiavi. Una mutazione in cui si rivela
la vera specificità umana: non la produzione di una sopravvivenza sottomessa
agli imperativi di un'economia lucrativa, ma la creazione di un ambiente
favorevole a una vita più intensa e più ricca.
Il nostro sistema
educativo si inorgoglisce a ragione di aver risposto con efficacia alle
esigenze di una società patriarcale un tempo onnipotente, tenendo conto di un
solo dettaglio: che una tale gloria è al contempo ripugnante e superata.
Su cosa poggiava
il potere patriarcale, la tirannia del padre, la potenza del maschio? Su una
struttura gerarchica, il culto del capo, il disprezzo della donna, la
devastazione della natura, lo stupro e la violenza oppressiva. Questo potere,
la storia lo abbandona ormai in uno stato di avanzata decomposizione: nella
comunità europea, i regimi dittatoriali sono scomparsi, l'esercito e la polizia
virano all'assistenza sociale, lo Stato si dissolve nelle acque torbide degli
affari e l'assolutismo paternalistico non è altro che un ricordo di marionette.
Bisogna davvero
coltivare la stupidità con una prolissità ministeriale per non revocare
immediatamente un insegnamento che il passato impasta ancora con i lieviti
ignobili del dispotismo, del lavoro forzato, della disciplina militare e di
quell'astrazione, la cui etimologia - abstrahere, tirar fuori da -
esprime bene l'esilio da sé, la separazione dalla vita.
Finalmente
agonizza quella società in cui si entrava vivi solo per imparare a morire. La
vita riprende i suoi diritti timidamente come se, per la prima volta nella
storia, essa si ispirasse ad un'eterna primavera anziché mortificarsi di un
inverno senza fine.
Odiosa ieri, la
scuola oggi è soltanto ridicola. Essa funzionava implacabilmente secondo i
meccanismi di un ordine che si credeva immutabile. La sua perfezione meccanica
tetanizzava l'esuberanza, la curiosità, la generosità degli adolescenti per
meglio integrarli nei cassetti di un armadio che l'usura del lavoro trasformava
a poco a poco in bara. Il potere delle cose usciva vincitore sul desiderio
degli esseri.
La logica di un'economia
allora fiorente era irrefrenabile, come lo sgranarsi delle ore della
sopravvivenza che suonano con costanza a raccolta verso la morte. La potenza
dei pregiudizi, la forza d'inerzia, la rassegnazione abitudinaria esercitavano
così comunemente la loro presa sull'insieme dei cittadini che ad eccezione di
qualche renitente, amante dell'indipendenza, la maggior parte delle persone
trovava il proprio tornaconto nella miserabile speranza di una promozione
sociale e di una carriera garantita fino alla pensione.
Non mancavano
dunque delle eccellenti ragioni per spingere il ragazzo sulla retta via della
convenienza, perché rimettersi ciecamente all'autorità professorale offriva
all'impetratore gli allori di una ricompensa suprema: la certezza di un lavoro
e di un salario.
I pedagoghi
dissertavano sul fallimento scolastico senza preoccuparsi dello scacchiere su
cui si tramava l'esistenza quotidiana, giocata ad ogni passo nell'angoscia del
merito e del demerito, della perdita e del profitto, dell'onore e del disonore.
Una costernante banalità regnava nelle idee e nei comportamenti: c'erano i
forti e i deboli, i ricchi e i poveri, i furbi e gli imbecilli, i fortunati e
gli sfortunati.
Certo la
prospettiva di dover passare la propria vita in una fabbrica o in un ufficio a
guadagnare il denaro del mese non era atta ad esaltare i sogni di felicità e di
armonia che l'infanzia nutriva. Essa produceva in serie degli adulti
insoddisfatti, frustrati di un destino che avrebbero desiderato più generoso.
Delusi e istruiti dalle lezioni dell'amarezza non trovavano, nella maggior
parte dei casi, altra scappatoia al loro risentimento che dispute assurde,
sostenute dalle migliori ragioni del mondo. I conflitti religiosi, politici,
ideologici procuravano loro l'alibi di una Causa - come dicevano pomposamente -
che nascondeva loro di fatto la triste violenza del male di sopravvivere di cui
soffrivano. Così la loro esistenza scorreva nell'ombra ghiacciata di una vita
assente. Ma quando l'aria è ammorbata, gli appestati dettano legge. Per inumani
che fossero i principi dispotici che reggevano l'insegnamento e inculcavano ai
ragazzi le sanguinose vanità dell'età adulta - quelli che Jean Vigo beffeggia
nel suo film Zero in condotta -, partecipavano della coerenza
di un sistema preponderante, rispondevano alle ingiunzioni di una società che
non si riconosceva altro motore principale se non il potere e il profitto.
Ma oramai, anche
se l'educazione si ostina ad obbedire agli stessi moventi, la coerenza è
scomparsa: c'è sempre meno da guadagnare e sempre più vita sprecata a raschiare
gli avanzi.
L'insopportabile
predominanza degli interessi finanziari sul desiderio di vivere non riesce più
a ingannare. Il tintinnio quotidiano dell'esca del guadagno risuona
assurdamente nella misura in cui il denaro si svaluta, che un fallimento comune
livella capitalismo di Stato e capitalismo privato, e che scivolano verso la
fogna del passato i valori patriarcali del padrone e dello schiavo, le
ideologie di destra e di sinistra, il collettivismo e il liberalismo, tutto ciò
che si è edificato sullo stupro della natura terrestre e della natura umana in
nome della sacrosanta merce.
Un nuovo stile
sta nascendo, dissimulato soltanto dall'ombra di un colosso i cui piedi di
argilla hanno già ceduto. La scuola rimane confinata nella penombra del vecchio
mondo che sprofonda.
Bisogna
distruggerla? Domanda doppiamente assurda.
Prima di tutto
perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che insegnano e studiano
- e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi - professori e allievi
non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo
pedagogico che fa acqua da tutte le parti?
La noia genera la
violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo, le costruzioni
moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari, si screpolano,
crollano, prendono fuoco, secondo l'usura programmata dei loro materiali di
paccottiglia.
In secondo luogo,
perché l'istinto di annientamento si iscrive nella logica di morte di una
società mercantile la cui necessità lucrativa esaurisce la parte viva degli
esseri e delle cose, la degrada, la inquina, la uccide. Accentuare la rovina
non dà profitti solo agli avvoltoi dell'immobiliare, agli ideologi della paura
e della sicurezza, ai partiti dell'odio, dell'esclusione, dell'ignoranza, dà
anche garanzie a quell'immobilismo che non cessa di cambiare abiti nuovi e
maschera la sua nullità dietro a riforme tanto spettacolari quanto effimere.
La scuola è al
centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili rovinano nella
tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell'insegnante e dell'insegnato imprime
il suo movimento al bilanciere della rassegnazione e della rivolta, della
frustrazione e della rabbia. Essa è anche il luogo privilegiato di una
rinascita. Porta in gestazione la coscienza che è al centro della nostra epoca:
assicurare la priorità di ciò che vive sull'economia di sopravvivenza.
Essa detiene la
chiave dei sogni in una società senza sogno: la risoluzione di cancellare la noia
sotto il rigoglio di un paesaggio in cui la volontà di essere felici bandirà le
fabbriche inquinanti, l'agricoltura intensiva, le prigioni di ogni genere, i
laboratori di affari sospetti, i depositi di prodotti sofisticati, e quelle
cattedre di verità politiche, burocratiche, ecclesiastiche che chiamano lo
spirito a meccanizzare il corpo e lo condannano a claudicare nell'inumano.
Stimolato dalle
speranze della Rivoluzione, Saint-Just scriveva: "La felicità è un'idea
nuova in Europa." Ci sono voluti due secoli perché l'idea, cedendo al
desiderio, esigesse la sua realizzazione individuale e collettiva.
Ormai, ogni
bambino, ogni adolescente, ogni adulto si trova all'incrocio di una scelta:
sfinirsi in un mondo sfinito dalla logica della redditività ad ogni costo, o
creare la propria vita creando un ambiente che ne assicuri la pienezza e
l'armonia. Perché l'esistenza quotidiana non può essere confusa più a lungo con
questa sopravvivenza adattativa a cui l'hanno ridotta gli uomini che producono
la merce e dalla quale sono prodotti.
Noi non vogliamo
più una scuola in cui si impara a sopravvivere disimparando a vivere. La
maggior parte degli uomini non sono stati altro che animali spiritualizzati,
capaci di promuovere una tecnologia al servizio dei loro interessi predatori ma
incapaci di affinare umanamente la vita e raggiungere così la propria
specificità di uomo, di donna, di fanciullo. Al termine di una corsa frenetica
verso il profitto, i topi in tuta e in giacca e cravatta scoprono che non resta
più che una misera porzione del formaggio terrestre che hanno rosicchiato da
ogni lato. Dovranno progredire nel deperimento, o operare una mutazione che li
renderà umani.
É tempo che
il memento vivere prenda il posto del memento mori che
bollava le conoscenze sotto il pretesto che niente è mai acquisito.
Ci siamo lasciati
troppo a lungo persuadere che non c'era da attendere altro dalla sorte comune
che la decadenza e la morte. E' una visione da vegliardi prematuri, da golden
boys caduti in senilità precoce perché hanno preferito il denaro
all'infanzia. Che questi fantasmi di un presente coniugato al passato cessino
di occultare la volontà di vivere che cerca in ciascuno di noi la via della sua
sovranità!
Per spezzare
l'oppressione, la miseria, lo sfruttamento, non basta più una sovversione
avvelenata dai valori morti che essa combatte. É venuta l'ora di scommettere
sulla passione incomprimibile di ciò che è vivo, dell'amore, della conoscenza,
dell'avventura che chiunque abbia deciso di crearsi secondo la sua "linea
di cuore" inaugura ad ogni istante.
La società nuova
comincia dove comincia l'apprendistato di una vita onnipresente. Una vita da
percepire e da comprendere nel minerale, nel vegetale, nell'animale, regni da
cui l'uomo deriva e che porta in sé con tanta incoscienza e disprezzo. Ma anche
una vita fondata sulla creatività, non sul lavoro; sull'autenticità, non
sull'apparire; sull'esuberanza dei desideri, non sui meccanismi di rimozione e
di sfogo. Una vita spogliata della paura, dell'obbligo, del senso di colpa, dello
scambio, della dipendenza. Perché essa coniuga inseparabilmente la coscienza e
il godimento di sé e del mondo.
Una donna che ha
la sfortuna di abitare un paese incancrenito dalla barbarie e dall'oscurantismo
scriveva: "In Algeria si insegna al bambino a lavare un morto, io voglio
insegnargli i gesti dell'amore." Senza scadere in tanta morbosità, il
nostro insegnamento, sotto la sua apparente eleganza, troppo spesso, non è
stato che un abbigliamento dei morti. Si tratta ora di ritrovare fin nelle
formulazioni del sapere i gesti dell'amore: la chiave della conoscenza è la
chiave della libertà dove l'affetto è offerto senza riserve.
Che l'infanzia
sia caduta nella trappola di una scuola che ha ucciso il meraviglioso invece di
esaltarlo indica abbastanza in quale urgenza si trovi l'insegnamento, se non
vuole cadere in seguito nella barbarie della noia, di creare un mondo di cui
sia permesso meravigliarsi.
Guardatevi
tuttavia dall'attendere aiuto o panacea da qualche salvatore supremo. Sarebbe
vano, sicuramente, accordare credito a un governo, a una fazione politica,
accozzaglia di gente preoccupata di sostenere prima di tutto l'interesse del
loro potere vacillante; e nemmeno a tribuni e maitres à penser,
personaggi massmediatici che moltiplicano la loro immagine per scongiurare la
nullità che riflette lo specchio della loro esistenza quotidiana. Ma sarebbe
soprattutto andare contro se stessi, inginocchiarsi come un questuante, un
assistito, un inferiore, mentre l'educazione deve avere per scopo l'autonomia, l'indipendenza,
la creazione di sé, senza la quale non vi è vero aiuto reciproco, autentica
solidarietà, collettività senza oppressione.
Una società che
non ha altra risposta alla miseria che il clientelismo, la carità e l'arte di
arrangiarsi è una società mafiosa. Mettere la scuola sotto il segno della
competizione e incitare alla corruzione, che è la morale degli affari.
La sola
assistenza degna di un essere umano è quella di cui ha bisogno per muoversi con
i propri mezzi. Se la scuola non insegna a battersi per la volontà di vivere e
non per la volontà di potenza, essa condannerà intere generazioni alla
rassegnazione, alla servitù e alla rivolta suicida. Rovescerà in soffio di
morte e di barbarie ciò che ciascuno possiede in sé di più vivo e di più umano.
Io non immagino
altro progetto educativo che quello di formarsi nell'amore e nella conoscenza
di ciò che è vivo. Al di fuori di una scuola della vita dove
la vita si trova e si cerca senza fine - dall'arte di amare fino alle
matematiche speculative - non vi è che la noia e il peso morto di un passato
totalitario.
Nessun commento:
Posta un commento